La missionaria laica Annalena Tonelli, uccisa in Africa, aveva avviato numerosi progetti sanitari a favore delle popolazioni più bisognose. Ma la sua opera infastidiva qualcuno e per questo è stata trucidata
Un colpo di fucile, sparato a bruciapelo, ha messo fine, nell’ottobre scorso, all’esistenza di Annalena Tonelli, 60 anni, da trentatré missionaria laica nel Corno d’Africa.
Ma di quale colpa si era macchiata Annalena?
Sola, senza conoscenze del paese, con tanto entusiasmo e con poche risorse, Annalena ha affrontato l’Africa creando importanti strutture sanitarie e di soccorso, cercando, fra tante difficoltà, di vincere la grande diffidenza delle popolazioni locali nei confronti di una occidentale.
Già da giovanissima aveva sempre pensato che il suo futuro sarebbe stato accanto ai bisognosi, voleva aiutare gli altri, i poveri, i sofferenti; così, dopo aver conseguito la laurea in legge “per far contenti i suoi genitori”, parte come insegnante per l’Africa. Ma insegnare non era la sua passione. Tutto le fu chiaro quando vide la gente malata di tubercolosi, allontanata dalle famiglie e condannata ad una fine certa, lenta e dolorosa.
Comincia in Kenia il suo viaggio nelle regioni più povere del continente. A Wajir, nel nord-est del paese, rimane per 18 anni tra i musulmani, studiando anche medicina. Ma nel 1984 è costretta a lasciare il paese dopo essere stata aggredita e picchiata per aver denunciato il massacro, da parte del governo, dei degodia, le popolazioni nomadi decimate dalla fame e dalle guerre.
Arrivò in Somalia durante la guerra civile. A Merca, a sud di Mogadiscio imperversa la fame, le bande armate. Per lei ancora minacce di morte. La donna non se ne preoccupa e sfama ogni giorno tremila disperati finché, nel 1995 la situazione diventa insostenibile per la pressione delle tribù rivali. Quando Annalena si sentì eccessivamente minacciata, si trasferisce nel nord del paese, in Somaliland; la dottoressa Graziella Fumagalli, volontaria della Caritas che la sostituirà, verrà poi uccisa.
Così arriva a Borama, a nord-est della Somalia a un’ora di aereo da Gibuti.
Come in passato, senza bandiere, con l’aiuto degli amici di Forlì, la sua città natale, e con i medicinali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Annalena raccoglie i fondi necessari per costruire una struttura ospedaliera; il World Health Organizzation l’aiuta a costruire un’ala dell’ospedale.
Ogni mattina Annalena si alza prestissimo e in questo ospedale lavora 20 ore al giorno per occuparsi dei suoi malati.Riesce a creare quasi 3000 posti letto per curare l’aids, ma soprattutto la tubercolosi, malattia endemica in Somalia che richiede continuità e regolarità nelle cure, difficile però per la vita dei nomadi e dei profughi. Ma lei riesce a perfezionare la tecnica di cura abbreviandone i tempi.
La clinica costa circa 20mila euro al mese, ma lei non ha mai voluto nessuna associazione alle spalle, ha sempre rifiutato le proposte delle organizzazioni umanitarie: “Loro hanno bisogno di pubblicità, io no. Lavoro da sola, nessuna agenzia. Accetto la durezza di questa vita e la solitudine di questa vita. Ma riscontro un mondo che mi aiuta. È molto bello, una libertà che nessuna organizzazione sa garantire...” Come poteva farcela? “Nessun segreto - diceva - io non ho due basi a Nairobi e in Europa o in America, non ho stipendi da capogiro da pagare al personale espatriato, non compro nulla dall’estero”.
Due volte all’anno riusciva ad organizzare interventi chirurgici agli occhi e grazie a questa iniziativa si accorge di quanti sono i bambini ciechi in Somalia: così mette su anche una scuola per bambini ciechi, sordi e disabili, ma non solo, ancora una scuola di alfabetizzazione per adulti tubercolotici e organizza corsi di istruzione sanitaria al personale paramedico. Tutto questo fra minacce e aggressioni.
In un paese musulmano, si era opposta con coraggio alle terribili pratiche dell’infibulazione (nell’autunno del 2002 la sua casa venne presa a sassate). Le sue battaglie avevano sicuramente suscitato odio e desiderio di vendetta nei capiclan, negli stregoni e nei fanatici religiosi. “La sua morte - ha affermato il ministro degli Esteri Frattini - conferma che la sicurezza degli operatori in Somalia è strettamente legata all’affermarsi delle condizioni di pace e stabilità per cui il nostro governo continua ad essere impegnato. Il lavoro e la testimonianza di vita di Annalena Tonelli costituirà un esempio di umanità e di servizio per i più bisognosi”.
Quanto ancora avrebbe potuto dare Annalena alla sua gente d’Africa se la sua vita non fosse stata stroncata in questo modo? Lavorava al servizio dei più poveri tra i poveri, in silenzio, quasi senza nome né volto. “È la prova vivente che gli individui possono cambiare le cose”, così scriveva l’Alto Commissario Onu per i rifugiati nella motivazione del premio Nansen, assegnatogli alcuni mesi fa.
Annalena Tonelli è morta come sapeva, da sempre, di poter morire. Ma lascia dietro di sé mille e mille volontari, come lei, che lottano e si battono per la povertà e la disperazione di tanta gente, in ogni continente.
Disposti ad andare ovunque c’è bisogno, in tanti scelgono di partire per aiutare le popolazioni più sofferenti: l’Onu stima in circa 28 milioni i volontari nel mondo che lottano contro la miseria, le guerre, le malattie, che hanno scelto una vita difficile, spesso ignorati finché non vengono portati all’attenzione pubblica dai giornali e dalle tv per una tragedia.
Chi sceglie di partire per le “zone calde” del mondo è anche consapevole che sono molti i rischi, specialmente in quei paesi dove i volontari sono le uniche persone che hanno deciso di continuare a condividere la sorte della popolazione e quindi non hanno alcuna sicurezza per la loro incolumità.
Vanno “in giro per il mondo” disposti a mettere in gioco la propria vita, la carriera, una esistenza tranquilla, in nome della solidarietà umana. “Sono venuto per fare del bene in maniera difficile”, così scriveva all’inizio degli anni ’50 Lido Rossi, missionario laico italiano, morto giovanissimo in Swaziland.
L’entusiamo di chi parte per la prima volta può essere attutito dalla sofferenza dei popoli che si incontrano, ma non per questo crollano la volontà e il desiderio che ognuno porta con sé per sconfiggere ingiustizia, fame e miseria.
Sono le storie umili e silenziose del volontariato, di chi parte solo o con le organizzazioni non governative, spesso menzionate semplicemente “ong”.
Con una scelta di vita così difficile, i missionari laici rappresentano un ponte tra la nostra realtà e quelle più lontane di paesi e popoli che sembrano essere condannati alla povertà e alla sofferenza; un ponte costruito nel rispetto delle culture e delle tradizioni, dove gli scambi aiutano entrambi a migliorare la propria vita.
Si impara che il mondo non cambia ma un gesto, una semplice presenza, possono fare la differenza.
BOX
Cosa sono le Ong
Ong, “organizzazioni non governative”: sono associazioni private senza fini di lucro.
Le prime Ong risalgono al periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale, quando le popolazioni dell’Europa, stremate dal conflitto, avevano bisogno di aiuto. Poi, esaurita l’emergenza post-bellica, nel mondo subentrano altre grandi emergenze che raccolgono l’attenzione di molti organismi: le migrazioni di massa, le carestie, i conflitti locali. Inoltre, molti paesi del Sud del mondo escono dal dominio coloniale e, secondo le Ong, hanno bisogno di una “promozione dello sviluppo” più che di un aiuto.
L’Onu, a partire dal 1961 elabora le “Strategie per lo sviluppo”; nel secondo decennio viene introdotto il concetto di “autosviluppo” inteso come capacità per ogni paese di raggiungere, secondo le proprie esigenze, gli obiettivi della crescita economica, favorendo la partecipazione attiva delle popolazioni bisognose, cercando di non attivare meccanismi di dipendenza economica e tecnica permettendo così di creare le condizioni, per le comunità locali, di sostenersi da sole.
L’Italia impiega circa 500 volontari (la Francia oltre 2.000), appartenenti a organismi non governativi, che operano nei paesi poveri con progetti cofinanziati dal ministero degli Affari Esteri o dalla Ue. È previsto un servizio minimo di due anni: viaggio pagato e “stipendio” di 6-7mila euro l’anno.
Nel nostro Paese le Ong riconosciute sono 160 e possono ricevere finanziamenti dal governo, in misura del 50-70% per i progetti promossi (cioé di iniziativa delle Ong) e del 100% per i progetti affidati (promossi dal governo e affidati in gestione alle Ong). Purtroppo, tutto questo è solo sulla carta: sono previsti nel bilancio dello Stato, ma spesso sono finanziamenti “bloccati” e spesso le Ong portano avanti progetti pur non ricevendo soldi magari indebitandosi.
Le Ong spesso si vedono costrette a chiedere ai volontari di rinunciare allo stipendio per far fronte, almeno in parte, agli impegni presi e per sopperire ai mancati finanziamenti pubblici, hanno puntato sui contributi privati che negli ultimi anni sono raddoppiati grazie a manifestazioni popolari come concerti, trasmissioni televisive, ecc.
M.L.B.
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