home | noi | pubblicita | abbonamenti | rubriche | mailing list | archivio | link utili | lavora con noi | contatti

Giovedí, 22/10/2020 - 14:45

 
Menu
home
noi
video
pubblicita
abbonamenti
rubriche
mailing list
archivio
link utili
lavora con noi
contatti
Accesso Utente
Login Password
LOGIN>>

REGISTRATI!

Visualizza tutti i commenti   Scrivi il tuo commento   Invia articolo ad un amico   Stampa questo articolo
<<precedente indice successivo>>
gennaio/2004 - Interviste
Criminologia
La vendetta come movente del reato
di Marco Cannavicci

E' una delle molle principali del crimine insieme al piacere all’odio e al vantaggio personale. Psicopatologia di un fenomeno

La vendetta è da sempre considerata come uno dei quattro principali moventi criminogeni, in grado quindi di provocare nell’uomo condotte e comportamenti antisociali. I moventi criminogeni abituali, che spingono le persone a commettere un reato, sono rappresentati da: il piacere, l’odio, il vantaggio personale ed appunto la vendetta.
Dall’analisi dei moventi possiamo dedurre che dietro un comportamento criminale sono marcate e prevalenti le componenti psicologiche e quindi molto forti le relative spinte emotive e passionali. Si tratta di emozioni e stati d’animo che solo una adeguata e duratura impregnazione educativa, di tipo etico e morale, riesce a tenere a bada con freni inibitori e profondi sensi di colpa. Tuttavia, mentre il piacere viene facilmente controllato perché ritenuto egoistico, il desiderio di vendetta sfugge ad ogni contenimento perché il soggetto lo ritiene soprattutto “giusto e doveroso”.
Il bisogno di vendetta nella società occidentale ha da sempre delle valenze sia culturali (come ad esempio il riconoscimento del diritto-dovere della vendetta) che psicologiche (la vendetta è una emozione fisiologica) che psicopatologiche (la vendetta rientra nel delirio del paranoico) in grado di produrre un comportamento vendicativo e violento.
La dinamica comportamentale della vendetta si compone di tre fasi: da una iniziale (a) esperienza frustrante di una perdita subita (un no, una sconfitta, un fallimento, un’offesa, …), si passa poi ad una (b) mancata gratificazione di aspettative e bisogni personali, in grado di produrre una marcata instabilità emotiva ed una insopportabile frustrazione, per giungere poi alla (c) liberazione di aggressività verso la causa che viene ritenuta responsabile della perdita.
La vendetta è presente in tutte le epoche ed in tutte le culture. Nell’antica Grecia, ad esempio, tutti i drammi omerici basano la loro storia sulla necessità di mettere in atto e portare a termine una vendetta. Vendetta degli Achei per il ratto di Elena, vendetta di Achille ed Ettore per la morte di Patroclo, vendetta da parte di Ulisse verso i Proci per le insidie portate a Penelope.
È una dinamica del comportamento sociale dunque presente fin dalle culture arcaiche, ove l’equilibrio sociale infranto da una colpa originaria deve essere riparata attraverso il Diritto-Dovere del soggetto leso, della vittima, di rifarsi nei confronti del colpevole.
Il diritto di farsi giustizia da soli era ammesso in qualche modo, fino a qualche tempo fa, anche dal nostro Codice Penale con l’ammissione della causa d’onore, come accettata e comprensibile reazione individuale. Inoltre è convinzione comune che la pena detentiva deve essere afflittiva per il reo (cioè deve soffrire, come per vendetta, per il male che ha fatto) e modulata secondo la gravità del reato (la reazione collettiva).
Il comportamento vendicativo inoltre è usualmente praticato nelle sottoculture di alcune regioni italiane, come avviene ad esempio nelle interminabili faide tra famiglie rivali.
È usualmente praticato anche nelle sottoculture della criminalità organizzata verso chi non rispetta il codice di comportamento stabilito dal capo per tutti gli adepti dell’organizzazione. È presente inoltre nelle dolorose e “sanguinose” conflittualità legate alla separazione coniugale ed al divorzio: l’odio verso il coniuge traditore può andare dalla distruzione di beni all’uso strumentale e molesto nei confronti dei figli, fino all’omicidio.
Nella nostra cultura, ed in noi stessi, è diffuso ed ubiquitario il sentimento di vendetta nel riconoscere il “diritto” ed il “dovere” di “vendetta” da parte del soggetto leso. La capacità mentale di razionalizzazione ed accettazione di quanto è accaduto è molto scarsa e di solito il ragionamento viene utilizzato solo per differire la vendetta nel tempo, attraverso il pensiero dell’opportunità utilitaristica di renderla più efficace (“la vendetta è un piatto da servire freddo”, afferma un detto comune).
Di fronte alla frustrazione della perdita e della mancata gratificazione dei suoi bisogni il soggetto psicologicamente immaturo tende ad esprimere i propri sentimenti con vari tipi di reazioni emotive:
- con l’esplosione risentita di aggressività (come nel nevrotico)
- con il ritiro autistico e l’isolamento (come nello psicotico)
- con il rabbioso e delirante risentimento paranoico
- con il distacco e la rigidità degli schizoidi.
È la frustrazione narcisistica subita, la insopportabile ferita nell’orgoglio, che scatena la vendetta. La persona immatura risponde alla frustrazione con un profondo sentimento di odio ed un marcato bisogno di mettere in atto comportamenti rivendicativi. Nell’individuo psicologicamente sano invece la frustrazione per la perdita subita si orienta verso altre direzioni.
Una delle regole auree della salute mentale recita che bisogna essere in grado di perdonare per non ammalarsi psicologicamente. Come ben sanno tutti gli operatori della salute mentale che se, per la frustrazione che si ha dentro, si diventa incapaci di amare, di perdonare e di accettare l’altro per quello che è, si finisce sempre per ammalarsi con disturbi mentali. Ed i disturbi mentali gettano poi le basi per un passaggio da una giusta punizione alla sproporzionata rappresaglia. Ed è proprio la rappresaglia, quel famoso 10 contro 1 dei nazisti nella Sconda Guerra Mondiale, che rappresenta l’eccesso psicopatologico a cui si giunge inseguendo il desiderio di vendetta.
La vendicatività è un sentimento in cui è fortemente vissuto uno stato di malumore (detto psicologicamente “disforia”) che è insensibile a qualsiasi tipo di critica razionale ed a qualsiasi ragionamento. La persona “disforica” vive in funzione della vendetta, ormai unico scopo della sua vita, e cerca qualsiasi occasione per pareggiare i conti attraverso infinite punizioni, molestie, fastidi e ritorsioni. Infinite perché la vendetta non è mai sufficiente e “non basta mai”. Il vendicativo fa del male senza provare sensi di colpa e senza mostrare preoccupazione per le possibili conseguenze morali e sociali delle sue azioni. Sono aspetti psicopatologici simili allo sviluppo paranoide, con la differenza che il paranoide non chiede al suo “persecutore” una ammissione di colpa.
La vendicatività è una passione intensa, prolungata per anni, anche per decenni, e può spaziare dalla gelosia e dall’invidia fino alla collera ed alla inesauribile rivendicazione. È uno stato passivo della volontà rispetto all’intensità della emozione, con la sopraffazione dei sentimenti sociali, che vengono spazzati via dalla coscienza.
Può essere messa in atto da tutti per la spinta di un teorico e personale sentimento di giustizia che non si scontra con le componenti educative etico-morali.
Più o meno consapevolmente noi tutti siamo vittime di deboli o forti impulsi emotivi alla vendetta. La vendetta è sempre legata al passato, ad un torto (vero o presunto) che è stato subito e che deve essere necessariamente restituito. Il bisogno di vendetta stimola il narcisismo che è in ognuno di noi e che non viene contenuto dalla ragione. È attivato da una sofferenza che può essere sublimata, come si diceva prima, solo con il perdono. La psicoterapia, di qualsiasi orientamento dottrinale, ad esempio stimola il perdono per liberare il soggetto dalla sua sofferenza e dolorosa vendicatività. Le energie mentali liberate con il perdono sono disponibili per finalità più utili e costruttive e per un piacevole adattamento alla realtà.
L’impulso a vendicarsi, fisiologicamente presente in tutte le persone, di solito viene ammorbidito e superato solo con la “sublimazione”, cioè con un meccanismo di difesa psicologico con cui l’Io della persona riesce a controllare gli impulsi distruttivi e li orienta in altre proficue direzioni.
Dalla storia della letteratura abbiamo un esempio di sublimazione efficace messa in atto dal sommo poeta: la stesura della Divina Commedia. L’opera è una efficace espressione della vendetta che Dante infligge ai suoi nemici mettendo in versi la legge punitiva del contrappasso. Tutto l’Inferno dantesco è una espressione dell’impulso alla vendetta. Nei versi di Dante possiamo notare una intuizione geniale al riguardo della psicopatologia della vendetta: la metafora della morsa ghiacciata del lago in cui sono costretti due traditori e vendicatori per eccellenza, il conte Ugolino e l’arcivescovo Ruggeri. Il contatto forzato e costante con la fonte e l’oggetto dell’odio ha il risultato di alimentare all’infinito il desiderio di vendetta: il vendicatore non si sentirà mai appagato e “congelerà” la sua azione per sempre in quella morsa distruttiva da cui non ne uscirà più.
Dante sublima brillantemente il sentimento della vendetta attraverso la sua opera e mostra inoltre di comprendere in profondità le dinamiche psicologiche che alimentano il comportamento umano.
Le persone incapaci di reprimere totalmente il desiderio di vendetta possono tuttavia attenuarlo e metterlo in pratica in adeguate forme incruente o indirette. Come avviene ad esempio nelle affermazioni del tipo “essendo stato ferito nell’orgoglio, dimostrò vendicativamente il contrario” (nello studio, nello sport, nel lavoro). Altre forme indirette di inconsapevole gestione mentale della vendetta sono rappresentate dalla tragica identificazione che la vittima compie con l’aggressore, divenendo a sua volta aggressore. Oppure con condotte aggressive, sul filo della paranoia, del “colpire per non essere colpito”.
I desideri di vendetta inoltre sono alla base di una inconsapevole ed ossessiva ricerca di perfezione e di ambizione nevrotica.
I bisogni vendicativi e sadici in alcune persone spesso si confondono ed il modo per raggiungere la “gloria” diventa quello di umiliare gli altri in modo distruttivo: nella mente della persona scatta il pensiero “se io non posso, allora neanche tu potrai”.
Quanto più è immaturo e primitivo è il livello di maturazione delle persone tanto più queste tendono a raggiungere la meta della loro vendetta mediante la distruzione. Come si diceva prima, quanto più la persona è immatura tanto più si lascerà andare alla rappresaglia. La rappresaglia, per quanto amplificata a dieci o cento volte, non rende e non renderà mai la pariglia, ma otterrà solo, con la sproporzionata risposta, la possibilità di infliggere un colpo più forte.
Ad attivare il bisogno della vendetta molto spesso è una situazione emotiva di profondo imbarazzo e di vergogna. La vergogna è un sentimento che fa vivere i rifiuti degli altri come delle inaccettabili ferite narcisistiche e induce a rispondere con rabbia. Chi ha subìto una offesa narcisistica non avrà riposo finchè non avrà “vendicato” chi ha osato opporglisi e dissentire.
L’orgoglio del nevrotico non considererà mai l’offesa sufficientemente ripagata e questo provocherà una sofferenza continua auto ed eterodistruttiva (come nel lago congelato in cui Dante pone il Conte Ugolino e l’arcivescovo Ruggeri). Una ulteriore espressione patologica della vendetta è inoltre il suicidio per sdegno.
Psicodinamicamente possiamo dire che lo sviluppo morale della persona (il cosiddetto Super-Io) generalmente blocca la vendetta (come naturale impulso dell’Es), provocando dubbi ed incertezze nel comportamento razionale (che viene gestito dall’Io). Un esempio mirabile del dubbio sulla opportunità della vendetta è nelle parole di Amleto (“essere o non essere”) che in fondo è l’espressione del dubbio se vendicarsi o non vendicarsi contro lo zio per la morte del padre. Il dubbio sulla vendetta spesso sposta il comportamento su condotte moralmente e socialmente accettate (dall’Io razionale e dal Super-Io etico e morale) come ad esempio l’ironia, il sarcasmo, la satira.
Nel medioevo vendetta e giustizia erano linguisticamente sinonimi. Ancora oggi è rilevante il movente della vendetta nella effettuazione dei crimini per “pareggiare i conti” e farsi giustizia da sé, come avviene con i reati passionali. In qualche modo sono atteggiamenti emotivi che vengono permessi se possono essere giudicati dall’autore come giusti, necessari e ragionevoli.
La società chiede oggi a chi ha subito un torto di razionalizzare i suoi impulsi vendicativi e quindi non è più accettabile, per questo, il delitto passionale. L’educazione religiosa chiede anche una moralizzazione degli impulsi e degli istinti per interpretare gli eventi in accordo con i propri modelli etici: la vendetta è ammessa solo come espressione punitiva della giustizia collettiva.
Secondo le moderne regole sociali è vendetta quando la giustizia ha un carattere privato e la persona agisce in proprio. È invece giusta punizione quando la giustizia ha un carattere collettivo e viene amministrata da terzi in nome di tutti.
Manifestazione innata dell’aggressività umana, la vendetta quindi risponde all’innata esigenza di ristabilire un equilibrio alterato da un crimine. Nell’evoluzione delle dinamiche sociali la società civile si è fatta carico di rispondere a questa esigenza individuale e collettiva attraverso delle autorità costituite: nacquero così i tribunali.
In questo modo si sottrae agli individui l’iniziativa e la responsabilità della ritorsione e si applica la sanzione in nome della collettività.
Nel 620 a.C. ad Atene, Dracone vietò ai suoi concittadini di vendicarsi privatamente dei torti subiti. Fino ad allora la vendetta personale ad Atene, era considerata un dovere sociale. Questa esigenza produceva sia un eccesso di distruttività vendicatrice che sensi di colpa per l’aggressività liberata. Nel tempo, con l’evoluzione del pensiero sociale, saranno le Leggi ed il Diritto (proiezione esterna e collettiva del Super-Io) a controllare e reprimere gli istinti ed i comportamenti antisociali.




BOX

Tabella riassuntiva sul comportamento vendicativo

1. Può attingere a moventi di natura patologica senza essere considerato un atto patologico.

2. Può assumere tratti di eccezionale violenza e distruttività senza derivare da una condizione di “infermità mentale” rilevante ai fini forensi.

3. Può assumere i valori culturali della società civile sulla base del “senso comune” in modo da attribuire al gesto la scusante di un “vizio di mente”, tuttavia non motivato sul piano psichiatrico.

4. Di fronte alla complessità del problema offerto dal comportamento vendicativo, gli strumenti della psichiatria forense sono inadeguati e limitati; ciò rende possibile errori diagnostici e valutativi per la multi-dimensionalità del fenomeno.

5. Ciò è dovuto alla necessità di confrontare un gesto, un atto, un comportamento sia con le leggi umane della psiche che con le leggi sociali della civiltà giuridica.

<<precedente indice successivo>>
 
<< indietro

Ricerca articoli
search..>>
VAI>>
 
COLLABORATORI
 
 
SIULP
 
SILP
 
SILP
 
SILP
 
SILP
 
 
Cittadino Lex
 
Scrivi il tuo libro: Noi ti pubblichiamo!
 
 
 
 
 

 

 

 

Sito ottimizzato per browser Internet Explorer 4.0 o superiore

chi siamo | contatti | copyright | credits | privacy policy

PoliziaeDemocrazia.it é una pubblicazione di DDE Editrice P.IVA 01989701006 - dati societari