Servitori dello Stato che si trasformano in “talpe” di Cosa nostra, e l’”onorata società” che allarga la sua rete al settore della Sanità privata. Le assoluzioni di Andreotti divengono una sorta di liberatoria per tutta una casta politica. E, intanto, torna in scena la morte del banchiere Roberto Calvi
Naturalmente l’accusa dovrà essere provata, e, nel caso, seguita da condanne definitive: il maresciallo della GdF Giuseppe Ciuro, in carica alla Direzione Investigativa Antimafia (Dia), e il maresciallo Riolo del Reparto Operativo Speciale dei Cc (Roa), entrambi di casa nella Procura di Palermo (Ciuro come stretto collaboratore, da sei anni, del sostituto procuratore Antonio Ingoia, Riolo incaricato di seguire la caccia ai latitanti), sono stati, fino al loro arresto delle “talpe” di Cosa nostra? Ad accrescere risonanza al preoccupante episodio vi è il contemporaneo arresto dell’ingegnere Michele Aiello, 50 anni, notissimo costruttore originario di Bagheria, proprietario di una clinica altamente specializzata nelle analisi oncologiche, l’imprenditore più ricco della Sicilia, accusato di associazione mafiosa, e in particolare di connivenza con Bernardo Provenzano, il boss rintanatosi da decenni in una clandestinità che sembra essere tale solo per gli investigatori che lo cercano.
E il coinvolgimento di Aiello ha fatto, ancora una volta, puntare i riflettori sul presidente della Regione, Antonio Cuffaro, Udc, che con il costruttore aveva rapporti piuttosto stretti. Rapporti istituzionali, afferma Cuffaro, data la posizione di primo piano dell’ingegnere nel settore della Sanità privata, e i contributi regionali da lui ricevuti.
Insomma, il non inedito scenario Mafia-Politica, con un contorno di infedeli servitori dello Stato. Un’attività di spionaggio, quella delle “talpe”, che, secondo l’accusa, “ha comportato preziosi contributi all’intera organizzazione mafiosa di cui Aiello è organico, costituita in sintesi nel ricercare e acquisire notizie sulle attività operative della Squadra Mobile della Questura di Palermo, informazioni relative al settore carcerario, alle estorsioni e a quello delicatissimo della ricerca dei latitanti ‘Lo Piccolo e l’altro’ (Bernardo Provenzano) che assunte dal Ciuro sono state subito da lui riferite all’Aiello e al Riolo”. Salvatore Lo Piccolo è il capo della “famiglia” palermitana di San Lorenzo, figura di spicco nella lista dei ricercati.
Rapporti diretti, fra l’ingegnere e i due marescialli, e frequenti comunicazioni telefoniche (da alcuni mesi intercettate) tramite cellulari che Aiello aveva acquistati e intestati a terze persone, usati unicamente per le conversazioni riservate. Per lo scambio di notizie, raccolte negli ambienti giudiziari e nei Reparti operativi delle Forze di polizia, che riguardavano sia le indagini riguardanti le attività di Michele Aiello, sia altre inchieste di Mafia. Una rete di protezione che, si ipotizza, era al servizio sia di Bernardo Provenzano, il boss da qualche tempo favorevole a un “quieto vivere” che sfrutti accortamente le opportunità offerte dall’attuale situazione politico-economica, sia di Matteo Messina Denaro, l’altro grande latitante, partigiano invece di una linea più dura, “militarista”, che non esclude sanguinosi regolamenti di conti. Come nel passato, quando l’“amico” che non manteneva le promesse fatte veniva drasticamente punito.
La Mafia che si serve della politica, e la politica che si serve della Mafia. Uno schema ben rodato, che, pur evolvendo con componenti variabili, resta fermo su due solidi pilastri: il potere e il denaro. Con lotte esterne e faide interne. Tra le “famiglie”. E tra le forze politiche. Anche alleate, come l’Udc e Forza Italia. Lo dice (in un’intervista al Corriere della Sera del 7 novembre 2003) il deputato regionale Antonio Borzacchelli, Udc, ex maresciallo dei Carabinieri, amico di Michele Aiello e dei due sottufficiali arrestati: “Non pensate che sia la Sinistra a muovere le acque per fregare Cuffaro. Perché è chiaro che il bersaglio dell’operazione è lui… Cuffaro i suoi nemici li ha a casa sua, fra gli alleati, magari in Forza Italia”. E nell’atto di accusa a Michele Aiello si legge di “un acceso scontro politico fra potentati economici che gestiscono un settore della Sanità italiana altamente specializzata e, quindi, altrettanto costosa e lucrosa”. Si configurerebbero così due gruppi contrapposti “rispettivamente facenti capo ad Aiello, e a due altri centri diagnostici, a Palermo e a Cefalù, che “risultano sponsorizzati da contrapposte formazioni politiche”: l’ingegnere, con la clinica di Bagheria, appoggiato “dall’area politica dell’Udc, e in particolare dal presidente della Regione Siciliana”, gli altri da Forza Italia.
Quanto ad Antonio Cuffaro, il presidente si dichiara vittima del “solito processo di piazza” (questa volta però sollecitato, a quanto pare, dai suoi alleati, quindi niente “toghe rosse”), e respinge le accuse di chiudere gli occhi davanti alle nuove infiltrazioni mafiose nella cosa pubblica, o peggio: “Abbiamo attivato controlli preventivi degli appalti come mai era accaduto, attraverso protocolli d’intesa col ministero dell’Interno e con la Guardia di Finanza, specialmente per la Sanità. Quel che dovevo fare l’ho fatto”. E nel centro diagnostico di Aiello “ci ho portato tanta gente a curarsi, tutti, da deputati a magistrati”. A questo proposito, si sospetta che nella clinica di Bagheria si sia curato, e nascosto, anche Bernardo Provenzano, ma Cuffaro taglia corto: “E che ne so io di Provenzano”.
Allora? Quando si tratta di Cosa nostra e dei suoi sodali, i problemi sono sempre due: stabilire i fatti, il che non è facile, e interpretarli, e questo lo è ancora meno. Perché i fatti a volte sono anche segnali, e si tratta di scoprire chi li invia, e a chi li invia. E a quale scopo, con quale obiettivo finale.
Con la Mafia si deve imparare a convivere, ha detto qualcuno. Ma convivere con la Mafia significa adottarne la mentalità, e accettarne, sia pure tacitamente, i metodi. Per ora, a differenza di un recente passato, questi metodi non consistono negli omicidi e nelle stragi, ma la presa economica dell’“onorata società” non è certo diminuita. Al contrario, la Mafia continua a esserci, e a prosperare. Gli affari, gli appalti, le tante maglie di una rete che si rigenera di continuo: e si espande, grazie alle connivenze interessate di chi, appunto, è del parere che convivere con la Mafia non sia solo prudente, ma soprattutto conveniente.
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Tana libera tutti. L’assoluzione in Cassazione di Giulio Andreotti dall’accusa di essere il mandante dell’uccisione del giornalista, direttore di Op, Mino Pecorelli (20 marzo 1979), ha suscitato manifestazioni di giubilo da parte di un folto schieramento politico-mediatico che ancora una volta indica nelle inchieste giudiziarie una bieca cospirazione contro la libertà per i potenti di fare e disfare a loro piacimento. Infatti, al coro si sono uniti anche i “martiri” di Tangentopoli, come Gianni De Michelis (due condanne definitive per corruzione), il quale si è spinto ad affermare che “questa sentenza compensa i danni subiti dai socialisti”. D’altra parte c’è chi (Silvio Berlusconi, nel libro-intervista di Bruno Vespa “Il Cavaliere e il Professore”) propone l’abolizione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, accompagnandola al ripristino dell’immunità parlamentare. Il più pacato, come suo uso, è stato lo stesso Andreotti, che però si è lasciato andare a sostenere l’esistenza di “una piccola trama” contro di lui, chiamando in causa la relazione della Commissione parlamentare Antimafia del 1993, e il presidente di quella Commissione, Luciano Violante.
A tale proposito si impongono alcune considerazioni. La prima è che senza i processi sull’omicidio Pecorelli (il primo assolutorio, il secondo di condanna) e la successiva sentenza della Cassazione, qualcuno ancora potrebbe pensare che il mandante di quel delitto fosse stato veramente Giulio Andreotti; confortato in questa maliziosa supposizione dal proverbio (andreottiano) secondo il quale “a pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina”. Ora invece sappiamo tutti che Andreotti non è stato il mandante dell’omicidio, e il senatore a vita, sette volte Presidente del Consiglio, dovrebbe esserne lieto, non ignorando con la sua notevole intelligenza di non aver percorso la sua lunga e complessa carriera politica immune da perplessità e, diciamolo, sospetti.
La seconda considerazione riguarda quella che dovrebbe essere la sostanza della “piccola trama”. La Commissione Antimafia dell’XI legislatura, presieduta da Luciano Violante, si costituì il 30 settembre 1992, e il 29 ottobre decise di avviare un’inchiesta sui rapporti tra Mafia e politica – richiesta dai parlamentari Ayala (Pri), Buttitta (Psi) e Scotti (Dc) - , imperniandola sull’uccisione a Palermo, in un agguato mafioso (il 12 marzo 1992), dell’europarlamentare Salvo Lima, massimo esponente della corrente andreottiana in Sicilia. Il 16 novembre, Tommaso Buscetta, il primo e più importante pentito di Cosa nostra, nella sua unica audizione di fronte alla Commissione Antimafia, dichiarò che Lima era stato ucciso “per denigrare Andreotti”, come ritorsione per non aver mantenuto l’impegno di fare annullare in Cassazione il maxiprocesso contro i boss. Nel documento della Commissione era scritto: “Risultano alla Commissione i collegamenti di Salvo Lima con uomini di Cosa nostra. Egli era il massimo esponente della corrente Dc che fa capo ad Andreotti. Sulla eventuale responsabilità politica del senatore Andreotti, derivante dai suoi rapporti con Lima, deciderà il Parlamento”. L’omicidio Pecorelli non era affatto citato. E la relazione venne approvata all’unanimità, con l’eccezione del deputato radicale Marco Taradash (oggi di Forza Italia) che la definì “omissiva”, e dei parlamentari del Msi, che la considerarono troppo morbida.
Il 26 novembre 1992, Buscetta, davanti ai magistrati di Palermo, parla per la prima volta di Mino Pecorelli, rivelando che i boss mafiosi Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti gli avevano a suo tempo confidato che il giornalista era stato ucciso su richiesta dei cugini Nino e Ignazio Salvo (potenti gestori della raccolta delle imposte in Sicilia, legati a Cosa nostra) perché il direttore di Op “dava fastidio a certi interessi politici”. Il 6 aprile 1993, interrogato negli Stati Uniti dai pm Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte, che con il collega Roberto Scarpinato conducono le indagini su Giulio Andreotti (sulla base delle rivelazioni dei pentiti Leonardo Messina, Gaspare Mutolo e Giuseppe Marchese), Buscetta precisa che Bontate e Badalamenti gli avevano detto che Pecorelli “si interessava a Giulio Andreotti”. Intanto alla Commissione Antimafia giunge una telefonata anonima riguardante la copertina di un numero di Op (non pubblicato per la morte del direttore) con i nomi di chi era in possesso di alcuni documenti di Pecorelli, misteriosamente scomparsi. Violante avverte il capo della Dda di Roma, Michele Coiro, che allora indagava sul delitto, e Coiro gli chiede di informare anche la Procura di Palermo. Violante comunica l’informazione con una lettera, della quale peraltro, data la fonte anonima, non viene tenuto conto, ma è obbligatoriamente messa a disposizione, come tutti i documenti riguardanti il caso, del giudice e della difesa.
Due inchieste su Giulio Andreotti, una a Palermo – per concorso esterno in associazione mafiosa -, e l’altra a Roma, poi trasferita a Perugia, per essersi servito della Mafia nell’omicidio Pecorelli: la prima finora chiusa da un’assoluzione in appello, la seconda con una condanna in appello e un proscioglimento definitivo in Cassazione. Due processi paralleli, uniti dalla figura dell’imputato, e dai numerosi riferimenti alle trame mafiose ed eversive che hanno periodicamente caratterizzato la vita politica italiana.
L’uccisione di Mino Pecorelli, abbattuto a colpi di pistola la sera del 20 marzo 1979 mentre saliva in auto, uscendo dalla redazione di Op, era apparsa subito come un delitto politico, legato all’attività del giornalista, che aveva stretti rapporti con i servizi segreti e con ambienti di vario tipo: in primis con la massoneria, e in particolare (ma questo si saprà due anni dopo) con la Loggia P2 di Licio Gelli, alla quale era iscritto. Rapporti alterni, a volte conflittuali, che si inserivano nei giochi di potere all’interno di governi e istituzioni. Erano i mesi del “dopo Moro”, e Pecorelli, sulla sua rivista, lasciava intendere di sapere molte cose sul rapimento del Presidente della Dc: dall’autentico obiettivo dell’operazione, ai vari misteri che coprivano (e, per la verità, ancora coprono) i 55 giorni del sequestro e l’assassinio del rapito. A Tommaso Buscetta, Gaetano Badalamenti aveva detto che “Moro e Pecorelli sono cose collegate tra loro”. E, secondo l’accusa della Procura di Perugia, Pecorelli era stato ucciso perché in possesso di notizie sul caso Moro (comprese delle parti mancanti del “memoriale” rinvenuto nell’ottobre 1978 a Milano, in via Montenevoso) che se fossero state diffuse avrebbero nociuto a Giulio Andreotti.
Il direttore di Op sarebbe stato quindi ucciso “nell’interesse di Andreotti”, attraverso una trama che avrebbe coinvolto l’ex magistrato e parlamentare Dc Claudio Vitalone, e i cugini Nino e Ignazio Salvo: questi ultimi si sarebbero rivolti ai boss di Cosa nostra, facendo presente l’esigenza di eliminare il giornalista. L’affare sarebbe stato preso in mano da Gaetano Badalamenti, Stefano Bontate e Pippo Calò, “delegato” della Mafia nella Capitale, in contatto con la Banda della Magliana, affidando l’esecuzione al mafioso Michelangelo La Barbera e a Massimo Carminati, neofascista legato alla Banda della Magliana. Da notare che Carminati era uno dei “camerati” più vicini a Giusva Fioravanti (condannato con Francesca Mambro per la strage alla stazione di Bologna), e che precedentemente proprio Fioravanti era stato sospettato di essere il killer di Pecorelli.
D’altra parte, il 13 luglio 1979, le Br avevano ucciso, apparentemente senza un motivo preciso, il colonnello dei Cc Antonio Varisco, qualche giorno dopo le sue dimissioni dall’Arma, utilizzando per la fuga dopo l’attentato una bomba fumogena uscita dall’arsenale della Banda della Magliana: Varisco, amico di Pecorelli, stava indagando sulla morte del giornalista.
Nel processo di secondo grado, dopo una prima assoluzione, Giulio Andreotti e Gaetano Badalamenti (Stefano Bontate era stato ucciso nell’aprile 1981) erano stati condannati come mandanti dell’omicidio, mentre un’assoluzione scagionava gli altri: Claudio Vitalone, Pippo Calò, e anche i due presunti killer La Barbera e Carminati.
Adesso, per Giulio Andreotti, due assoluzioni. Il delitto Pecorelli, dopo 25 anni, resta irrisolto. Per quanto riguarda le relazioni tra politica e Cosa nostra, nella sentenza di Palermo si afferma che, pur mancando una “sufficiente dimostrazione” di una reiterata partecipazione di Andreotti al sodalizio mafioso, egli “ha avuto piena consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; …ha indotto i medesimi a fidarsi di lui ed a parlargli anche di fatti gravissimi… nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati… inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale”. Prima dell’omicidio di Piersanti Mattarella, presidente democristiano della Giunta regionale siciliana, ucciso il 6 gennaio 1980, perché stava contrastando le mene mafiose, Andreotti, scrivono i giudici, cercò di evitare il delitto non “secondo logiche istituzionali… facendo in modo che intervenissero per tutelarlo gli organi a ciò preposti”, ma indicando ai boss “il comportamento da tenere in rapporto alla delicatissima questione… senza riuscire, in definitiva, ad ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite”. E dopo il delitto “ha omesso di denunciare le loro responsabilità… malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza”.
Del resto, come ha fatto la Procura generale, i legali del senatore a vita hanno presentato ricorso contro quella sentenza, anche se assolutoria. Mentre, al di là dei procedimenti giuridici e delle responsabilità penali, resta il giudizio politico. E su questo punto il discorso è aperto.
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Si riapre il caso Calvi, con annesso scandalo del Banco Ambrosiano, e coinvolgimenti mafiosi, politici, finanziari, massonici, e così via. Per la morte del banchiere milanese sono stati rinviati a giudizio (dal tribunale di Roma) il faccendiere Flavio Carboni, il mafioso Pippo Calò, Ernesto Diotallevi, ex membro della Banda della Magliana, Manuela Kleinszing, un’austriaca amica di Carboni. Tra gli indagati figura anche Licio Gelli.
Il 16 giugno 1982, nella City di Londra, sotto il ponte dei Black Friars (Frati Neri) era stato trovato impiccato a un traliccio il cadavere di un uomo che aveva in tasca un passaporto italiano intestato a Gian Roberto Calvini. In realtà il morto era Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, sparito dal 10 giugno, pochi giorni prima dell’arrivo negli uffici dell’istituto di credito degli ispettori della Banca d’Italia, che chiedeva conto di un’esposizione all’estero di 1.400 milioni di dollari. Già il 20 maggio 1980 Calvi era stato condannato per reati valutari (esportazione illegale di 20 milioni di dollari), e il 22 luglio, dopo una condanna a quattro anni di reclusione e a una multa di 15 miliardi di lire, messo il libertà provvisoria. Con divieto di espatrio. “In galera non ci torno – aveva dichiarato il banchiere – piuttosto racconto tutto, faccio tutti i nomi”.
Un anno dopo, la fuga con un passaporto falso (fornito dalla Banda della Magliana a Flavio Carboni), attraverso la Jugoslavia, l’Austria, la Svizzera (dove incontra Licio Gelli), fino a Londra. E al ponte dei Frati Neri. La magistratura londinese, dopo un’indagine sommaria, decise che si trattava di suicidio, ma nessuno prese per buona questa versione. E ora una perizia effettuata dopo il disseppellimento del corpo ha decretato che Calvi fu ucciso prima di essere appeso sotto quel ponte.
La storia di Roberto Calvi e del Banco Ambrosiano parla di un intreccio di banche consociate (in Perù, in Nicaragua, alle Bahamas, in Svizzera) e di società dai nomi fittizi, con probabili attività di riciclaggio per conto di Cosa nostra. Come il suo collega Michele Sindona, anch’egli legato a Licio Gelli, che morirà avvelenato in carcere quattro anni più tardi, Calvi è un esperto di traffici finanziari, e ha influenti “committenti”. L’Ambrosiano era strettamente ammanigliato all’Istituto Opere di Religione (Ior), la banca vaticana, allora diretta dall’americano monsignor Paul Marcinkus. E lo Ior aveva attinto largamente dalle sue casse, in particolare per finanziare il movimento polacco di opposizione Solidarnosc. Ma anche altri avevano fatto lo stesso. Licio Gelli (Calvi, come Sindona, era iscritto alla Loggia P2) per finanziare la scalata (per conto di chi?) alla Rizzoli e al Corriere della Sera. Francesco Pazienza, eminenza grigia dei Servizi Segreti, e addentro a trame di ogni tipo, dalla finanza all’eversione. E qualcuno del quale non si sa ancora.
Certo è che il caso Calvi, anche se passato nell’ombra, non era mai stato veramente chiuso. Dal processo, che avrà inizio il 15 marzo prossimo, potrebbero venire rivelazioni interessanti, non a tutti gradite.
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