Se questo non fosse il paese di Ustica e delle stragi di Stato, potremmo attendere fiduciosi che il trascorrere del tempo porti con sé la verità sulla morte di Carlo Giuliani, sulla scuola Diaz e le torture di Bolzaneto, sulla pianificazione della violenza militare nelle giornate di Genova. Ma siamo qui e non sono consentite illusioni. La ricerca della verità è un conflitto, richiede un impegno intransigente affinché ogni responsabilità sia precisamente individuata. Per parte nostra, non ci stancheremo di fare il possibile perché sia fatta chiarezza sulle direttive impartite dal Viminale alle Forze dell’ordine impiegate nei giorni del G8 e sul ruolo di parlamentari della maggioranza e di ministri di Berlusconi (a cominciare dal vicepresidente del Consiglio) nelle sale operative della questura e dei Carabinieri di Genova. Non dimentichiamo la frase che è stata attribuita all’ex ministro Scajola sull’“ordine di sparare contro chi avesse violato la zona rossa”. E non la consideriamo una battuta di spirito.
D’altra parte, qualcosa è venuto faticosamente a galla nel corso di quest’anno, anche grazie al lavoro di alcuni magistrati decisi a non lasciarsi intimidire da pressioni politiche. È emersa l’inesistenza della sassaiola che - secondo alcune relazioni di servizio - sarebbe stata all’origine del blitz alla Diaz. Si è scoperto che le due bottiglie molotov trovate nella scuola vi erano state portate dagli stessi poliziotti e che la coltellata che un agente avrebbe ricevuto nel corso della perquisizione era frutto di una simulazione. Risultato: una serie di agenti e di alti dirigenti della Polizia di Stato sono oggi accusati di falso e calunnia oltre che di concorso in lesioni gravi, perquisizione arbitraria, furto aggravato e omissione di controllo.
È un risultato insieme vergognoso e importante, ma la lotta per fare piena luce sui fatti di Genova resta difficile. Non crediamo che la moltiplicazione delle versioni fornite dagli indagati sia un semplice scaricabarile. Somiglia, molto di più, a una strategia di depistaggio, al pari degli elenchi incompleti, della lentezza con cui i comandi rispondono alle richieste degli inquirenti, delle fotografie degli agenti inservibili per i riconoscimenti. La vicenda delle perizie sul colpo d’arma da fuoco che uccise Giuliani è del resto l’esempio più eloquente dello scontro in atto. Si vuole accreditare l’ennesimo caso di “morte accidentale”. Si vuole arrivare a un’archiviazione, evitare in ogni modo un processo che potrebbe coinvolgere responsabili eccellenti. Chi ancora avesse dubbi al riguardo, volga lo sguardo a Napoli, dove è addirittura plateale lo scontro tra i magistrati che conducono l’inchiesta sui pestaggi nella caserma Raniero e il vasto blocco delle forze - governo e partiti di maggioranza, alti comandi della Polizia e alti magistrati, a cominciare dal Procuratore della Repubblica - intenzionate a frenarla.
Nei prossimi mesi ci attende dunque un serio impegno al fianco di quanti lavorano per l’accertamento della verità sui fatti di Genova. Tra questi crediamo di potere annoverare anche quei settori delle Forze dell’ordine che si rendono conto della grave situazione creata dalle decisioni del governo e dei loro massimi dirigenti. Non è possibile nutrire dubbi sulla strategia perseguita. Si vuole smantellare la riforma del 1981, con cui si smilitarizzò la Polizia e si imboccò la strada della sua trasformazione in un servizio di natura civile, impegnato nella prevenzione, nella repressione dei reati e nella mediazione del conflitto. Vanno in tale direzione tutte le decisioni di questo governo (ma - occorre dirlo con chiarezza - anche quelle del centrosinistra, che ha inaugurato questa deriva conferendo ai Carabinieri lo status di Quarta Forza Armata e inducendo, per questa via, una sciagurata competizione tra i diversi Corpi). Il ddl con cui si intende condizionare il reclutamento di nuovi agenti alla prestazione di un anno di servizio militare volontario depone inequivocabilmente in tal senso, e gli intenti di questa strategia sono sin troppo evidenti. Si prevede (si programma) l’intensificarsi del conflitto sociale e politico: quindi ci si attiva per munirsi di strumenti idonei alla repressione armata del dissenso e della protesta.
Ma appunto, questo accresce la responsabilità di quanti - forze politiche e settori democratici delle Forze dell’ordine - vogliono opporsi a tale disegno.
Noi non identifichiamo l’intera Polizia con le sue componenti reazionarie, disponibili a farsi arma delle politiche di repressione. Conosciamo il malessere che serpeggia nelle caserme e crediamo di intenderne le ragioni. Sappiamo anche che le forze politiche di destra tendono a speculare sulle intollerabili condizioni in cui le Forze di polizia si trovano a operare per alimentare frustrazione e rabbia e per incoraggiare tentazioni autoritarie. Tutto questo ci è noto e non ignoriamo certo i nostri limiti nell’operare in modo sempre efficace e conseguente. Resta che la parola è oggi a quegli agenti e a quei funzionari che vogliono dare avvio a una battaglia di democrazia all’interno delle Forze dell’ordine di questo paese. Parlino, informino le forze politiche democratiche di quanto vedono e sanno su come viene gestita la partita dell’ordine pubblico da parte dei superiori e delle autorità di governo. Noi, per parte nostra, non commetteremo l’errore di ascoltarli con scarsa attenzione né rimarremo inattivi. Perché sappiamo che, dopo Genova, la questione democratica in questo Paese passa anche attraverso la battaglia contro la militarizzazione delle Forze dell’ordine.
Alberto Burgio
Responsabile Naz. Settore Giustizia di “Rifondazione Comunista”
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