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novembre-dicembre/2005 - L'angolo del 'giallo'
Quando la morte è un gioco
di Simona Mammano

Valter Binaghi, nel suo romanzo
“La porta degli innocenti”, ci mostra il “lavoro”
di un ispettore di Polizia nel ristretto
ambiente giovanile di un piccolo centro

E’ lontano dalla città, in un contesto bucolico, che si ambienta il romanzo di Valter Binaghi (La porta degli innocenti, ed. Dario Flaccovio, 2005, pp. 318, 14.50 euro).
Vengono uccise quattro persone e nessun legame le unisce. L’ispettore Leonetti intuisce che deve investigare in un ambiente ristretto, quello dei giovani del paese.
Quegli stessi giovani che l’autore definisce innocenti, giocando sull’ambivalenza che la parola innocente nasconde: puro ma anche irresponsabile.
Binaghi intreccia la realtà virtuale dei videogiochi con quella della vita reale, raccontando come i ragazzi, protagonisti del libro, non siano più capaci di distinguere l’una dall’altra. La morte diventa un gioco, uccidere è facile come in un videogioco. Le persone diventano personaggi.
E’ un romanzo polifonico, dove le voci degli attori si narrano in prima persona. In questa struttura sapiente si trovano l’investigazione classica e rassicurante, il mondo degli adulti e quello delle nuove generazioni, che si mettono a confronto cercando invano lo spazio per una mediazione. Vi troviamo anche l’angoscia di una madre che ama il proprio figlio adolescente, ma che sente ormai irraggiungibile.

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“Fino a quando si è ragazzi?”

In questo romanzo si sente l’angosciosa domanda che quotidianamente aleggia nell’aria di chi legge fatti di cronaca che hanno per protagonisti gli adolescenti. E’ cambiato qualcosa in questa società? Sono gli strumenti mediatici che ci fanno conoscere ciò che in realtà è sempre accaduto nel corso delle generazioni o adesso viviamo in un mondo incapace di trasmettere dei valori?
Non sappiamo se le risposte siano scontate, quel che è certo è che l’autore ci ha posto di fronte ad una riflessione. Una riflessione che merita un approfondimento.

In questo romanzo lei rappresenta una realtà che ha per protagonisti i ragazzi, gli innocenti. Perché li definisce tali pur descrivendoli capaci di atrocità?
Perchè “innocente” può significare anche irresponsabile, ed è questa l’accezione del termine che mi interessa. E un’altra parola su cui voglio precisare è “ragazzi”. Fin quando si è ragazzi? Non c’è un limite biologico, ma sociale, ed è legato all’autonomia effettiva di un individuo.
Oggi si può essere ragazzi a trent’anni. Ancora a questa età spesso i giovani vivono nella precarietà economica (in politichese si dice flessibilità), e in una sorta di limbo da eterni discenti, turisti, sperimentatori, impossibilitati a radicarsi (leggi pagarsi un affitto e mettere su casa, legarsi stabilmente a un compagno, permettersi dei figli).
Ma chi non ha legami forti non si sente responsabile di nessuno se non di sé stesso, non ha un ruolo definito in un ordine intelligibile, e si dà come unica missione quella di essere felice, il che è un ottimo modo per rendersi infelici a vita.
Comunque l’irresponsabilità, il narcisismo e la disaffezione alle istituzioni politiche sono un fatto facilmente accertabile nella popolazione giovanile: diciamo che questo è l’ambiente umano in cui matura il delirio raccontato dal romanzo.
Per professione ha la possibilità di stare vicino agli “innocenti” e poterne quindi studiare le dinamiche?
Insegno filosofia a gente che sta tra i sedici e i diciannove anni, certo è un’osservatorio privilegiato.
Ho anche due figli adolescenti, ma grazie al cielo non è stata l’esperienza diretta ad ispirarmi, bensì la cronaca nera degli ultimi dieci anni.
Ci sono stati dei delitti commessi da giovani, che mi sono sembrati frutto non di avidità nè di brutalità pura e semplice, ma di una specie di sognante delirio, come di chi crede di perseguire una strategia di gioco, un progetto estetico o addirittura un rituale.
Mi è parso che, nei suoi elementi più fragili, questa generazione corra il rischio di una perdita del senso del reale, quando s’imbattesse in un mito dall’apparenza metafisica e dalla sostanza mortale, come accade in “La porta degli Innocenti”.
Blues, rock, ogni suo libro ha un tema musicale, quale sarà il prossimo? Ha già in mente una trama specifica?
“Robinia Blues” era un’elegia per un paesaggio e un’infanzia, ma anche la ricerca di un paesaggio dell’anima, il blues era d’obbligo. “La porta degli Innocenti” si ispira all’aspetto più oscuro dell’immaginario giovanile: nel reading con cui lo presento ho optato per un rock inquietante e vellutato, con brani di Lou Reed, Depeche Mode, Eno, Moby.
Il prossimo romanzo in realtà sono due: uno è una fantasia storica, l’altro un thriller.
Non so quale dei due finirò per primo. Sono nel limbo, lasciamoli lievitare.
(Intervista a cura di Simona Mammano)

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