Il sistema dell’alternanza non è in grado, da solo, di rispondere alle nuove sfide della complessità sociale. Uno sguardo indietro alla storia può essere utile
A che punto è la mutazione della politica italiana? Non delle singole politiche, ma del loro reale comune baricentro, delle coordinate minime che fanno da orizzonte alle diversità dei partiti e dei movimenti?
Se un cittadino qualsiasi, allontanatosi dall’Italia nel 1990, vi tornasse vedrebbe certo molte cose diverse, ma soprattutto, se dovesse recarsi a votare, non riuscirebbe a raccapezzarsi tra le sigle e i nomi sconosciuti.
I partiti, le forme costituite della politica, sono cambiate in modo pressoché totale in dieci anni. Polverizzata la Dc, scomparsi o cambiati profondamente il Pci, il Psi, il Msi. Il centro non è più il perno del sistema politico, ma questo si è organizzato in due schieramenti, uno, diciamo così, di destra, l’altro di sinistra, che si battono per occupare il centro. All’interno di questo dualismo sono proliferati le nuove sigle e i partiti. Non basta però questa pur rilevante modificazione per poter dire che la politica italiana, nel suo insieme, si è adeguata alla nuova realtà che si è prodotta dopo la cesura del 1989.
Dall’unità d’Italia in poi il Paese ha vissuto grosso modo tre grandi fasi storiche e politiche, scadenzate le prime dalle due Guerre Mondiali e l’ultima dalla età della Guerra Fredda. Significativo è il fatto che in ogni caso il cambiamento politico da noi sia avvenuto sempre per una spinta esterna, in concomitanza più o meno diretta con eventi epocali. Il che di per sé è un segno. Dice che la politica italiana è sempre stata vischiosa; che in essa le tensioni di cambiamento possono accumularsi anche per decenni senza riuscire ad avere la meglio; che esiste dunque una diga di conformismo che solo eventi di enorme portata mondiale può effettivamente far crollare. Dice anche che la politica italiana, storicamente, è incapace di autoregolarsi in modo da assumere e metabolizzare normalmente il nuovo che i processi reali della vita producono, ma invece lo fa accumulare inevaso, come la cattiva burocrazia fa con le pratiche, cosicché questo poi straripa, quando il Paese riceve una forte scossa esterna con discontinuità traumatica. Non è naturalmente un problema solo nostro. La Francia, per esempio, ha avuto in questi due ultimi secoli la bellezza di cinque repubbliche, due imperi e due regni.
A parte questo, nessun sistema politico è effettivamente in grado di raccogliere e sintetizzare in modo efficace tutto il bisogno di cambiamento che impercettibilmente, minuto dopo minuto - si potrebbe dire - i processi reali liberano nel suo corpo sociale. A meno che non sia un sistema rivoluzionario, e allora tende ad esprimere esso stesso un nuovo, ad anticipare e a orientare fortemente, fino a che almeno dura il suo impulso, le tendenze sociali verso mete predeterminate. Ma normalmente la politica “segue” i processi reali, da noi con particolare fatica.
Il sistema dell’alternanza di origine anglosassone è forse quello che favorisce di più, all’interno di un quadro complessivamente stabilizzato, l’assunzione del nuovo da parte della politica. I contrasti sociali vengono semplificati e costretti a riconoscersi in uno dei due schieramenti politici che si contendono il potere. In questo sistema il quadro generale delle regole della politica e i valori di fondo ad esso connessi deve essere condiviso dalle due parti in competizione. Quella che si trova temporaneamente all’opposizione sarà però più interessata a individuare elementi di novità nella società che sfuggono o che non sono raccolti dalla parte che governa, allo scopo di polemizzare con questa e dimostrare il proprio migliore titolo a governare. Così il sistema dell’alternanza, valorizzando costantemente un altro punto di vista da quello del potere in atto e richiamando all’attenzione “l’altra faccia della medaglia” di esso, dovrebbe essere in grado di assicurare permeabilità alla politica. La stabilità del sistema sarebbe garantita proprio dalla sua controllata instabilità, dal fatto che esso prevede delle periodiche “rivoluzioni”, ad ogni passaggio di governo dalla maggioranza all’opposizione.
Non si tratta mai ovviamente di una stabilità assoluta; e nemmeno questo sistema è in grado di autoregolarsi perfettamente, di accogliere e metabolizzare adeguatamente tutte le esigenze che molecolarmente ogni giorno si producono nella società civile.
Ma bisogna anche considerare un altro aspetto. I sistemi dell’alternanza hanno funzionato organicamente e a lungo in nazioni che hanno una certa storia e una certa posizione nel mondo. Potrebbe essere proprio questa identità consolidata verso l’esterno ad avere consentito ad essi di mantenere, pur nella dialettica della maggioranza e della opposizione, quel grado di coesione “bipartisan” che fa sì che in esso non prevalgano le dinamiche centrifughe rispetto a quelle centripete. La stabilità, oltre, o più, che a virtù intrinseca al sistema, potrebbe essere dovuta a fattori esterni. Per esempio al senso di comune convenienza che tutti o la gran parte dei cittadini sentono appartenendo ad un paese più ricco, e più potente di molti altri. Il “minimo comune denominatore” del sistema politico starebbe principalmente nel riconoscersi tutti nella diversità dagli altri, contro il resto del mondo. Che l’identità politica comune abbia come suo elemento determinante il comune essere contro ciò che sta fuori del sistema potrebbe essere confermato dal “bisogno” degli americani, e anche in una certa misura degli inglesi, di trovare un avversario nel mondo dopo la fine del confronto con l’Urss.
Avrebbe allora ragione Carl Schmitt, quando afferma che non c’è politica senza un nemico. Anzi, che la identità politica si costituisce sulla base della affermazione della distinzione amico-nemico, della dinamica dell’inclusione-esclusione. Se così fosse la stabilità interna del sistema dell’alternanza democratica avrebbe bisogno permanentemente di un certo grado di tensione e di una certa ostilità verso il suo esterno.
Ma anche se la tensione esterna non gli fosse necessaria per la sua coesione interna, il sistema dell’alternanza può mantenere una forte distinzione tra ciò che esso è dentro e ciò che fa all’esterno. Storicamente anzi dai sistemi democratici dell’alternanza spesso, per l’interno e per l’esterno, sono stati usati pesi e misure diverse. Basti pensare alla politica duramente repressiva e non rispettosa dei diritti civili, per esempio, degli inglesi durante il lungo periodo di ribellione cattolica nell’Irlanda del Nord, degli israeliani nei confronti dei palestinesi, degli stessi americani in Vietnam e oggi in Afganistan.
All’interno poi, non è affatto scontato che la riduzione della complessità degli interessi e delle contraddizioni sociali a quella tra due partiti o schieramenti sia in grado di evitare che aumenti il numero di coloro che non si riconoscono né nell’uno, né nell’altro, sul piano politico e degli esclusi su quello sociale. In Europa la tendenza abbastanza costante è alla diminuzione degli elettori effettivi rispetto agli aventi diritto. Negli Stati Uniti vota da decenni una minoranza, mediamente parecchio meno del 40% degli aventi diritto. Almeno 40 milioni di cittadini americani (una popolazione pari a quella della Spagna) vivono al di sotto della soglia della povertà e non dispongono di alcun tipo di assistenza sanitaria.
Il sistema politico dell’alternanza, non corretto, o non corretto significativamente, dalla presenza attiva di altre istituzioni sociali, come per esempio le grandi organizzazioni sindacali, non è in grado di contrastare efficacemente la tendenza delle “forze spontanee” del mercato alla disuguaglianza crescente. Per esempio, negli ultimi vent’anni i redditi da capitale, ovunque ma in particolare negli Usa, sono aumentati enormemente di più di quelli da lavoro. Questa differenziazione è fattore di instabilità politica, in quanto riduce, o non aumenta, le possibilità di accesso ai beni di una parte consistente di popolazione, e a lungo andare funziona come fattore depressivo della economia. Difficilmente l’espansione del mercato dei prodotti di lusso sempre più sofisticati, al quale hanno accesso settori privilegiati ristretti, può compensare quello dei prodotti di massa in declino per la riduzione del potere d’acquisto dei consumatori.
Può essere che il modello dell’alternanza anglosassone funzioni con stabilità secolare anche grazie ad un contesto esterno di una preminenza imperiale di lunga durata. O in paesi piccoli come la Svizzera o la Svezia, che hanno una posizione nel mondo da lungo tempo consolidata e riparata.
Il sistema dell’alternanza di per sé è solo uno schema di regolazione del conflitto e del mutamento sociali che va concretamente collocato nel contesto storico politico e riempito di contenuti, di valori e strategie. Ci vuole ben altro, perciò, per dire che la costruzione di una nuova identità comune politica dell’Italia sia compiuta, per l’introduzione, tra l’altro ancora non completa e messa sempre in discussione, del sistema dell’alternanza.
Nell’ultimo decennio tra i paesi delle due sponde atlantiche che applicano il sistema dell’alternanza, o “sistema democratico”, si è aperta una differenziazione profonda rispetto al modo di concepire e di rapportarsi ai problemi del mondo. La politica europea si evolve, per quanto non senza difficoltà e contrasti, su direttrici divergenti da quelle americane o - se vogliamo - anglosassoni. La logica che ispira profondamente l’Unione europea non è quella che si impernia sul principio dell’amico-nemico, dell’inclusione-esclusione, ma piuttosto dell’inclusione senza (o con una ridotta) esclusione. La sua stessa ragione d’origine, dopo le due guerre mondiali, che secondo alcuni storici hanno costituito insieme “l’epoca della guerra civile europea”, sta nell’aspirazione a superare il principio di esclusione su cui si sono fondate le identità delle nazioni, la potenzialità aggressiva che esse, nel nostro continente, hanno avuto, fin dalla loro formazione.
Una nazione non è solo una “espressione geografica” (come diceva Metternich dell’Italia) e nemmeno solo una realtà etnica o una continuità di tradizioni. Le grandi nazioni sono nate storicamente in Europa come “progetti di potenza”, serbatoi di uomini e di risorse per gli eserciti. Le piccole nazioni, viceversa, si sono caratterizzate come “progetti di resistenza” alle mire delle nazioni. più grandi. È il caso, per esempio, della Svizzera, dell’Olanda, dell’Irlanda, della Polonia.
Il processo di unificazione europea, oggi in atto tra mille difficoltà, non mira a cancellare le nazioni, ma a modificarne l’identità, nel senso che esse dovrebbero cessare di essere, diciamo così, potenziali progetti di esclusione, aggressivi se grandi, o di resistenza se piccole, e diventare, all’interno dell’Unione Europea, progetti comuni di vita.
Ma vi può essere identità politica comune senza nemico esterno? Questa è davvero la domanda cruciale. Credo che si possa dire che la possibilità di una identità a basso livello di esclusione sia legata al grado di dinamismo costruttivo di una società. Per esempio fino a che è stata una società in costruzione, cioè per gran parte dell’Ottocento, quella americana è stata una società essenzialmente inclusiva, senza cioè che il nemico esterno fosse necessario alla sua identità (a meno di non identificare tale “nemico” con le tribù indiane, che pure in una certa misura lo furono durante la epopea del West). Sostengo insomma, relativizzando la posizione di Schmitt, che tanto più una società ha bisogno di identificarsi contro qualcosa, quanto meno essa sarebbe capace di essere, senza ciò, dinamica. E lo è se le esigenze, le sue aspettative e le sue capacità di realizzazione sono grandi. Solo società statiche e rassegnate ricorrono alla paura esterna per stimolarsi.
L’Europa oggi può continuare ad includere nuovi paesi e nuove popolazioni senza diluirsi e perdere la sua identità ancora embrionale solo se riesce a inventare una politica capace di tracciare e praticare scenari veramente innovativi, rispetto a quelli del passato. L’Europa però è cresciuta fino ad oggi in una situazione psicologica di “lungo dopoguerra”, caratterizzato dalla paura di un ritorno del suo passato. Ora questo orizzonte non basta più: la paura del passato appartiene al passato. E con la fine della paura rischia di finire il carburante del progetto europeo.
Ma del resto appartiene al passato anche la identità americana, resa obsoleta proprio dalla vittoria degli Stati Uniti contro “il nemico” della Guerra Fredda. La figura del “vincitore” è, nella condizione umana, del tutto effimera, come quella, purtroppo,“dell’uomo felice”. Ora gli americani sono in difficoltà a trovarsi un’altra identità. La chiusura americana verso l’esterno si vede dal modo con cui gli Usa affrontano i grandi problemi sistemici del mondo (sottosviluppo, sovrappopolazione, inquinamento, ecc.). La loro difficoltà sta principalmente nell’accettare l’idea che il mondo costituisca ormai un sistema unico chiuso, nel quale perciò, ad ogni azione corrisponde una reazione. Un po’ come avviene in una vasca, nella quale, chi provoca un’onda, deve aspettarsi non solo una “controonda”, ma anche una complessa serie di reazioni ed interazioni di tutta la massa liquida.
Tucidide, il più grande degli storici dell’età classica, nella sua storia della guerra del Peloponneso narra della prepotenza distruttiva che la democrazia ateniese perpetrò contro gli abitanti dell’isola di Melo. Gli ateniesi avrebbero affermato apertamente che questo è nella natura delle cose: che il più forte si imponga e distrugga il più debole.
Atene era per la sua epoca una superpotenza. Per noi oggi sarebbe, quanto a popolazione, l’equivalente di un piccolo sobborgo di Roma o Milano. Ai tempi in cui Tucidide scriveva la popolazione umana sulla terra era molto al di sotto del miliardo. Non costituiva un sistema unico globale, come oggi; non si conosceva nemmeno il concetto di inquinamento, né si immaginava nulla che potesse anche lontanamente ricordare il nostro problema globale della sovrappopolazione e dell’esaurimento delle risorse. Gli uomini potevano ugualmente distruggersi gli uni con gli altri, ma le loro guerre non potevano neanche lontanamente assomigliare alle apocalissi atomiche, chimiche o batteriologiche che si prospettano ora. Oggi la scala dei problemi è incommensurabilmente diversa e, come direbbe Hegel, la quantità fa la qualità. Gli uomini della preistoria non sapevano cosa fosse la prigionia di guerra e la schiavitù. Il nemico vinto veniva fisicamente annientato.Quando lo sviluppo economico lo rese conveniente, l’asservimento sostituì in gran parte l’annientamento delle popolazioni vinte. Il grado di violenza esercitato divenne meno cieco e più selettivo, non perché gli uomini fossero diventati più buoni, ma perché diverse e più complesse erano le condizioni.
La Guerra Fredda è stata una non guerra perché entrambi i contendenti erano consapevoli che la bomba atomica tracciava un confine netto e radicale nella storia dell’uomo. Non erano gli idealisti e i pacifisti di professione ad esserne più consapevoli, ma i militari. “L’equilibrio del terrore”, per quanto deprecabile, costituiva comunque una innovazione concettuale effettiva nella politica, e un’innovazione che in qualche modo per cinquant’anni si è dimostrata all’altezza della realtà.
Oggi ogni regressione verso concezioni primordiali della politica e delle relazioni internazionali può avere conseguenze apocalittiche. Eppure il mondo del dopoguerra fredda rischia di essere interpretato con le categorie dell’epoca della talassocrazia ateniese.
Chiunque abbia un minimo di familiarità con i problemi sistemici (come quelli della vasca che si diceva) sa che ciascun soggetto di un sistema - e le nazioni oggi più che mai sono soggetti sistemici nel mondo - in un certo senso si crea egli stesso i problemi che lo assillano, e anche i nemici contro cui combatte. Non perché banalmente li inventa, e se li contrappone di proposito (anche se a volte è proprio così), ma perché contribuisce a crearli indirettamente con le sue stesse pratiche.
Ad esempio, il problema dell’emigrazione dal terzo mondo, è generato in parte notevole dalla rivoluzione agricola in quei paesi, promossa spesso dalle grandi multinazionali, cioè dall’Occidente. Milioni di persone vengono espulse dalle terre su cui sono per secoli vissute e, poiché i loro contesti non offrono alternative per tutti, sono costrette a cercare il loro sostentamento nei paesi ricchi dell’Occidente.
Quando i problemi sono esplosi, i soggetti del sistema più forti li interpretano poi secondo il proprio particolare punto di vista, che pretendono valga come universale. Chi si trova a subire talvolta finisce per identificarsi ed assumere la parte che i soggetti più forti gli attribuiscono, un po’ come accadeva nei processi alle streghe medievali, nei quali povere donne più o meno squilibrate o solo un po’ strane, dopo essere state sottoposte a crudeli trattamenti inquisitori affinché confessassero di essere possedute dal diavolo, talvolta non solo confessavano, ma assumevano esse stesse con spirito di sfida quell’identità diabolica che gli era attribuita.
Oggi tutta la politica mondiale risente della difficoltà di adeguarsi ad una realtà che è cambiata di colpo e vertiginosamente. Ma tutti, paesi e popoli, grandi o piccoli, devono affrontare l’alternativa tra chiudersi od aprirsi, tra l’includere o l’escludere. Non ci sono ricette valide sempre e per tutti, ma grandi scelte di fondo bisogna farle. Una volta che si è deciso che la via della fondazione della politica sulla base esclusione - per ragioni sistemiche prima che morali - non è quella da seguire, bisogna trarne seriamente le conseguenze. La scelta dell’apertura, affinché non sia solo intenzione predicatoria, moralistica e velleitaria, deve sostanziarsi concretamente: una società prevalentemente inclusiva deve essere fortemente dinamica su tutti i piani, affinché le tensioni e le contraddizioni “non abbiano il tempo” di cristallizzarsi.
Oggi stiamo vivendo in una leggerezza surreale dei baricentri identitari delle nazioni per il fatto che lo stato delle cose è così improvvisamente mutato che viene ancora percepito come se fosse lo scenario descritto da qualche fantasioso futurologo, e non la situazione in cui ci troviamo effettivamente.
La politica italiana, da dopo l’unità, ma specialmente dopo la Seconda Guerra Mondiale, si può dire che abbia avuto un unico leit motiv: diventare come gli altri, ove per altri si intendono le tre grandi nazioni - come già indicava lucidamente Leopardi - che hanno creato la civiltà moderna. Cioè gli inglesi che hanno fatto la rivoluzione economica, i francesi, che hanno fatto quella politica, i tedeschi, che hanno fatto, prima ancora, quella religiosa.
Ma oggi la situazione è radicalmente cambiata. Non possiamo continuare semplicemente a voler essere “come gli altri”, perché in una certa misura lo siamo anche diventati. Finito il ciclo storico apertosi dopo la Seconda Guerra Mondiale, ci troviamo in una specie di limbo dell’identità, che è anche un limbo della nostra politica.
Specialmente nei momenti di crisi di identità riaffiora la long durée, ciò che, trovandosi più “in profondità” in un popolo, più lentamente muta, secondo il concetto definito e reso famoso da Ferdinand Braudel. Sarà per questo forse che oggi abbiamo un Presidente del Consiglio che agli occhi degli stranieri appare come un sorprendente compendio dello stereotipo dell’italiano, quale si delineava, anche attraverso le maschere della “Commedia dell’Arte”, già a partire dal Seicento. Il bisogno di “essere noi stessi”, che ci è in qualche modo imposto dalla situazione per il confondersi dei riferimenti esterni, riporta in luce i nostri difetti secolari.
Ma l’identità di una nazione, e quindi la sua politica, quando come oggi c’è una crisi radicale di essa, si ricostruisce sul passato oppure sul futuro. È in questa alternativa che ci troviamo, come Italia e come Europa.
Ho già detto che causa della rapidità con cui si sono prodotti i grandi mutamenti globali facciamo fatica a considerare problemi concreti i problemi del sistema mondo, e a costruire a partire da essi una nuova identità. Ma dobbiamo farlo, perché questi mutamenti sono già operanti ora, non in un lontano futuro. Se vogliamo che l’Europa costituisca la sua identità politica a partire dall’inclusione, e non dall’esclusione e dal nemico - il che non vuol dire apertura incondizionata sempre e comunque a tutti e a tutto, ma compiere un’opzione strategica, che può attuarsi con pratiche pragmatiche - dobbiamo occuparci non solo di problemi di ingegneria politica, ma anche di quelli di sostanza, cioè di come stare, prima di tutto noi, come nazione, oggi nel mondo.
Il sistema-mondo così com’è non può trovare un equilibrio minimamente soddisfacente. L’uso del bastone da parte degli americani nelle questioni internazionali rischia di squilibrarlo ancora di più. L’Italia può uscire dalla sua storica subalternità se cambia prospettiva e non guarda ai problemi del mondo attraverso l’Europa, ma all’opposto, se guarda all’Europa attraverso i problemi del mondo.
Qualcosa di simile accadde quando nel Quattordicesimo e Quindicesimo secolo l’Italia si aprì alle culture “altre”, la bizantina, la islamica, metabolizzandole, insieme alla classicità latina, nella propria cultura, in quel movimento epocale che avrebbe avuto rilevanza europea come Umanesimo. Solo così, con il suo stare originale in rapporto al mondo, l’Italia può aiutare l’Unione a trovare la sua identità mondiale e se stessa a trovare la sua identità europea e nazionale.
La “ricapitolazione dell’antico stereotipo dell’italiano” che governa oggi il nostro Paese potrebbe - forse è lecito sperarlo - avere allora il senso di un canto del cigno della vecchia Italia, un “reculer pour mieux sauter” di un Paese che si appresta a prendere congedo dalla sua peggiore tradizione.
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