I cambiamenti previsti per gli artt. 4-bis e 41-bis dell’Ordinamento penitenziario riaprono il discorso sulla strategia seguita nel contrastare la criminalità e sui limiti che i giri di vite devono comunque rispettare in un sistema di diritto
Le recenti discusse modifiche previste per gli artt. 4-bis e 41-bis dell’Ordinamento penitenziario ripropongono il vecchio discorso - e tuttavia sempre drammaticamente nuovo per chi ne vive direttamente le conseguenze - sulle misure più convenienti da assumere per contrastare le più gravi forme di delinquenza.
Come è noto, le modifiche operano in due direzioni: estendere il numero dei reati per i quali valgono i divieti di applicazione dei benefici (art. 4-bis), ed integrare stabilmente nell’Ordinamento penitenziario il regime del cosiddetto carcere duro (41-bis, secondo comma), sinora previsto in via transitoria, ma la cui scadenza negli anni passati era stata più volte prorogata.
Così come c’era da aspettarsi, ancora una volta, toccando questa materia, si sono provocate reazioni discordanti. La volontà di tutti i cittadini onesti di difendere la società civile dall’attacco della criminalità è fuori questione. Quello di cui si discute è la strategia da seguire per ottenere il risultato. Di fronte alle scelte del legislatore, vi è chi si limita a considerare positivo ogni giro di vite che renda più dura la vita ai delinquenti, sperando che ciò si ripercuota in qualche misura sul piano della prevenzione; e vi è invece chi si preoccupa che nella lotta alla criminalità la strategia seguita risulti comunque coerente con i principi su cui è fondato l’ordinamento, in una prospettiva di bilanciamento delle diverse istanze presenti nel contesto sociale (che oggi, sommariamente, si suole definire “giustizialiste” e “garantiste”).
Sotto questo profilo, le norme in questione possono suscitare non poche perplessità.
La tendenza ad ingrossare il numero dei reati che - in modo assoluto o relativo - ostano alla concessione dei benefici (riguardanti l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI dell’Ordinamento penitenziario, esclusa la liberazione anticipata) si era già manifestata l’anno scorso (artt. 11, d.l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito in legge 19 gennaio 2001, n. 4) con l’inserimento nell’art. 4-bis del citato Ordinamento di alcuni reati sessuali commessi con violenza o su minorenni. Adesso - a parte l’aggiunta “anche internazionale” al termine “terrorismo” - si prevede che entrino ex novo nell’art. 4-bis i reati connessi alla tratta e al commercio di persone ridotte in schiavitù o in condizione analoga (dizione, quest’ultima, che apre all’applicazione in materia di sfruttamento della prostituzione), nonché i reati collegati ad alcune ipotesi di introduzione clandestina di immigrati nel territorio dello Stato.
Si tratta, senza dubbio, di reati particolarmente odiosi, alcuni dei quali (come le attività criminose degli scafisti) suscitano particolari preoccupazioni e reazioni da parte dell’opinione pubblica. Ma il problema è un altro. È logico procedere per esclusioni che riguardano non la persona del reo, ma la tipologia del reato commesso? È coerente questa tendenza all’automatismo con il principio dell’individualizzazione del trattamento, che costituisce la base della riforma?
La riforma penitenziaria - che non rappresenta certo un tabù, ma che andrebbe adeguatamente considerata, prima di contraddirne il significato - si muove su un piano diverso. Sin dall’origine - sia pur con alcune limitazioni riguardanti l’affidamento in prova, poi anch’esse superate dalla 1.10 ottobre 1986, n. 663 - l’Ordinamento non negava in principio ad alcun condannato alla reclusione la prospettiva di ottenere prima o poi l’applicazione di una misura alternativa (con tutto ciò che questo significa in termini di incoraggiamento e di speranza), ma ne vincolava rigorosamente la concessione ad una valutazione di opportunità, tratta dai rilevamenti condotti dagli operatori penitenziari, e compiuta dalla magistratura di sorveglianza nell’ambito della sua attività giurisdizionale.
Tale valutazione - quando ancora oggi attuata al di fuori degli automatismi subentrati a partire dagli anni ’90 - non si basa su considerazioni approssimative o su dati esteriori di comportamento, ma verifica il significato e il valore degli atteggiamenti personali del condannato, e la loro affidabilità nella prospettiva del reinserimento sociale. Esiste in proposito un’ampia produzione giurisprudenziale della Corte di Cassazione - ormai da tempo consolidata - da cui si derivano i criteri concreti che tale valutazione deve obbligatoriamente presentare.
Perché dunque scegliere tendenzialmente la via dell’automatismo, che non consente di misurare liberamente la singola condizione del reo - fosse anche per concludere con una decisione di esclusione dal beneficio, come certamente avverrebbe nei casi più gravi - ma invece la confonde con altre del tutto diverse, e solo formalmente omologate sotto lo stesso titolo?
È vero che il testo dell’articolo prevede - in talune ipotesi - che il beneficio possa infine essere concesso sotto particolari condizioni, seguendo un percorso di procedure e valutazioni appositamente definito. Ma è evidente che le norme che regolano in complesso l’intera questione sono state appositamente formulate in una prospettiva comunque in principio restrittiva. Del resto, se tali procedure e valutazioni rientrassero nella prassi ordinariamente seguita dal Tribunale di sorveglianza per vagliare i casi giunti alla sua competenza, e non si volesse frapporre dei particolari ostacoli nei confronti di determinate categorie di reato, non ci sarebbe affatto bisogno di avere nell’ordinamento un art. 4-bis.
Qualche perplessità nasce anche dalla scelta dei reati considerati per l’inserimento in questa normativa. Infatti, viene naturale chiedersi quale sia il criterio di identificazione che rende possibile discriminare i vari tipi di reato, includendone alcuni nel 4-bis, ed escludendone altri. Senza inoltrarsi troppo in questi suggerimenti pericolosi, ci si può limitare a citare la cosiddetta criminalità degli affari dove i reati riguardano giri di miliardi ed evasioni fiscali di dimensioni talora colossali, con perdite economiche elevate per l’intera comunità; oppure i reati di inquinamento delle acque o dell’ambiente dalle conseguenze spesso incalcolabili e i cui danni sociali non pareggiano quelli provocati da venti scafisti messi insieme; o, ancora - all’altro estremo - la cosiddetta microcriminalità che non è affatto micro per la persona anziana che viene truffata di tutti i suoi risparmi, per chi ha una casa svaligiata più volte, per chi non si fida più a uscire di sera, ecc. Che fare? Dilatare i reati del 4-bis fino a lasciar fuori solo quelli cosiddetti bagatellari?
Diversamente, si può pensare che per condurre una lotta più decisa contro la criminalità non ci sia affatto bisogno - in ambito penitenziario - di erigere barriere indiscriminate contro questa o quella categoria di reati, ma solo che la magistratura di sorveglianza svolga un’azione rigorosa diretta a distinguere persona da persona e a commisurare strettamente i benefici alle capacità di impegno che il singolo condannato concretamente dimostra. Se per ottenere su questo piano migliori risultati - rispetto a quelli attuali - occorre un potenziamento dei servizi giudiziari, nonché dei supporti forniti dagli operatori tecnici e di Polizia Penitenziaria che con essi collaborano, tale potenziamento va assicurato. Ma è questione che appartiene alla prassi e non ai principi di fondo su cui è costruita la riforma. Come giustamente si suole dire: se la legge è buona, ma la prassi è difettosa, è la prassi che va adeguata e non la legge che va modificata.
L’esplicito inserimento nell’Ordinamento penitenziario del sistema di limitazioni trattamentali (e procedure giudiziarie correlate) che va sotto il nome di carcere duro è importante, più che sotto il profilo degli ulteriori irrigidimenti previsti (in realtà le restrizioni enumerate non sembrano contenere significativi cambiamenti, rispetto all’esistente), per ciò che esso può rappresentare sul piano della politica penitenziaria. Sino a quando la norma del 41-bis secondo comma veniva considerata come dettata dalle contingenze, al punto da prevederne la vigenza in un arco di tempo limitato, il carattere eccezionale di tale norma rendeva evidente che per tutti i detenuti si sarebbe tornati - appena possibile - a dei criteri di gestione ordinari. Il fatto che tale provvisorietà sia stata successivamente più volte rinnovata - come spesso accade per tutto ciò che è provvisorio nel nostro Paese - non cambiava i termini sostanziali della questione, in quanto l’eccezionalità del carcere duro rispetto a quello ordinario (sia pure con tutte le sue differenziazioni, il regime di massima sorveglianza, ecc.) veniva ogni volta chiaramente ribadito.
A partire dalle nuove norme previste, si dovrà invece prendere atto che la politica penitenziaria integra stabilmente nel proprio sistema uno spazio in cui alcuni detenuti - tra le categorie di reato indicate nel 4-bis, ma questa volta identificati caso per caso - subiranno delle consistenti limitazioni per un periodo di tempo che rischia di diventare continuo. In effetti, la durata di applicazione - salvo revoca - di ciascun provvedimento (da uno a due anni) ed il meccanismo della non prorogabilità (per periodi successivi, ciascuno pari ad un anno, purché non risulti che la pericolosità sociale del detenuto e la sua capacità di mantenere contatti con organizzazioni criminali o eversive siano venute meno), senza che il tutto sia comunque sottoposto a una scadenza normativa finale, lasciano supporre che - almeno per certi soggetti - si tratterà di un carcere duro prolungato, che assumerà di fatto il carattere di una straordinaria ordinarietà.
Anche per ciò che concerne le limitazioni, l’impostazione normativa del 41-bis continua a suscitare perplessità. Alcune di tali limitazioni - correlate alla necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza, contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, ecc. - sono comprensibili e del tutto accettabili. Meno si comprendono, invece, altre restrizioni che non risolvono il problema per cui verosimilmente sono state dettate, mentre sembrano fatte apposta per determinare nei detenuti un senso di frustrazione e di risentimento. Tipica, in proposito, è la prevista riduzione dei colloqui con i familiari e conviventi a un massimo di due volte mensili (anziché sei). In effetti, la preoccupazione che i colloqui diventino occasione, per il detenuto, di inviare ordini o messaggi all’esterno non viene affatto eliminata, ma solo limitata a due volte al mese. E questo, in sé, appare un accorgimento che non risolve nulla; né - d’altra parte - può venire in mente a qualcuno di abolire del tutto i rapporti dei detenuti con i familiari. Il fatto, poi, che i due colloqui debbano essere regolarmente distanziati tra loro, impedisce che una famiglia - magari venuta da molto lontano - possa usufruire delle due opportunità in modo ravvicinato, evitando di affrontare dopo pochi giorni il disagio di un altro viaggio. Che ha a che fare questo con la sicurezza? Così pure, prevedere che i colloqui si svolgano in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti sembra un eufemismo per dire che tali locali saranno con ogni probabilità strutturati in modo da evitare ogni minimo contatto fisico tra le persone, e forse anche la comunicazione a viva voce. Davvero non vi sono altri modi più umani per realizzare livelli adeguati di controllo?
Il momento che stiamo vivendo è difficile da affrontare. L’attacco della criminalità più agguerrita impone a tutti noi uno sforzo notevole per controllare le reazioni e impedire che esse ci spingano verso risoluzioni che di primo impulso apparirebbero giustificate, ma che rischiano invece di entrare in rotta di collisione con i valori fondamentali della nostra cultura.
La tentazione più grave che possiamo avere in questo momento - grave perché i corollari che ne discendono possono disorientarci e portarci molto lontano - è quella di ritenere che il fine giustifichi i mezzi, e che quindi la bontà o meno di un intervento si misuri soltanto dalla sua efficacia. Se volessimo - nel quadro generale della lotta alla criminalità - individuare le norme e le prassi da applicare in ambito penale e penitenziario, seguendo unicamente il filo rosso della loro efficacia nell’impedire altri reati - anziché bilanciare queste esigenze con il rispetto dei diritti fondamentali di cui sono titolari tutti i cittadini, anche se detenuti - potremmo finire con il considerare accettabili delle misure che, ad un esame più scrupoloso, risulterebbero prevaricanti o violente.
Nella prospettazione di questa ipotesi - che per noi ha ancora fortunatamente un significato paradossale - ci può soccorrere l’esempio negativo fornito dal sistema di giustizia esistente in paesi di altre cultura e tradizione. Anche prescindendo dalla misura più estrema costituita dalla pena di morte (ma è indubbio che un delinquente morto non commette più reati), vi sono, soprattutto nei paesi arabi, altre misure che assicurano una efficacia elevata al trattamento inflitto. Si pensi, ad esempio, alle sanzioni corporali che vanno dalle centinaia di colpi di verga al taglio delle mani e/o dei piedi. Si può forse dubitare che dei soggetti fisicamente menomati non incontrino qualche difficoltà nel commettere altri reati? E anche senza riferirsi ad esempi così brutali, che cosa pensiamo dell’efficacia di misure esecutive penali - che pure vi sono o vi sono state, in alcuni paesi di cultura occidentale - quali la deprivazione sensoriale, l’isolamento continuo e totale, il confinamento in celle anguste e senza luce diretta, l’uso di ferri o altri mezzi di contenzione permanente, l’esposizione a condizioni ambientali (di temperatura, di umidità, ecc.) ai limiti del sopportabile, ecc.? Saremmo disposti ad accettare tutto questo (ed altro ancora, perché la fantasia dell’uomo in materia è fervida) solo che ciò si rivelasse efficace?
No, non credo. Credo che ce lo impedisca, oltre che la nostra coscienza, la lettera stessa della Costituzione, quando dichiara - non è mai male ricordarlo - che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E però, se anche ci riteniamo lontani dagli eccessi evocati, qualcosa dentro sembra affiorare qua e là dando luogo a osservazioni o a rilievi che appaiono francamente incomprensibili.
L’idea - ad esempio - che le carceri non debbano assomigliare a un albergo a quattro stelle è largamente condivisibile. Ma dove mai si corre questo rischio? Gli operatori che, per il loro lavoro, frequentano quotidianamente le carceri (e hanno anche avuto occasione - magari una volta nella vita - di essere ospitati in un albergo a quattro stelle) possono fornire ampia assicurazione che delle differenze ci sono e che questo rischio non si corre. Certo, il nuovo Regolamento di esecuzione prevede che sia installata l’acqua calda nelle celle e questa è una previsione ardita, difficile da perdonare, ma sicuramente non lussuosa. Anche i motel di passo ne sono ormai provvisti. C’è poi la questione della televisione, sistemata anch’essa in ogni cella. Ora, disporre di un apparecchio televisivo per chi resta chiuso in cella non solo la notte, ma anche buona parte (o la massima parte) del giorno, costituisce un aiuto - del tutto innocuo per gli altri - per sopravvivere, sia pure in condizioni passive di minima umanità. Certo, qui c’è l’aggravante che si tratta spesso di una televisione a colori. Ma - anche a prescindere dal fatto che forse apparecchi in bianco e nero non se ne fabbricano più - dov’è il pericolo o lo scandalo? Non sarebbe un po’ come pretendere che il cibo venga regolarmente fornito, ma scotto e insipido? Infatti, con la stessa logica, si potrebbe osservare che il carcere non è un ristorante. E così, gli esempi delle inquietudini che sembrano interferire nella visione oggettiva dei fatti potrebbero facilmente continuare.
Che sta succedendo? È possibile che ci si stia smarrendo al punto da non ritenere più sufficiente che la pena consista nella perdita della libertà, ma da desiderare che ad essa si aggiungano altre sofferenze inflitte senza fondamento reale (diciamo reale, perché, se si vuole, una giustificazione la si può sempre trovare)? Speriamo che non sia così, anche se - sotto questo profilo - il messaggio contenuto nella discussa normativa non risulta rassicurante.
Ho già avuto modo di osservare qualche anno fa - in analoga occasione - che, spesso, chi tratta delle restrizioni imposte ai detenuti negli aspetti quotidiani della loro vita - aspetti che non sono affatto marginali, ma anzi importanti ed emotivamente dirompenti - ricorre alla metafora della guerra (siamo come in una guerra, e alla guerra bisogna andarci come si può e non come si vorrebbe). Ma - a parte che anche nel fare la guerra ci sono delle regole che devono essere rispettate - dovremmo forse convincerci che non è rendendo più dura la vita dei nemici prigionieri che si riesce a vincere di più in prima linea. E cioè, le iniziative che possono risultare decisive in questa guerra non riguardano tanto le retrovie, che nel nostro caso sono costituite dal sistema penitenziario (o dalla giustizia penale tout court), quanto la linea del fronte su cui operano ogni giorno le istituzioni e i presidi ordinari dello Stato le cui iniziative per risultare valide devono riguardare una presenza e un’azione pubblica capillari sul territorio, la definizione di politiche sociali degne di questo nome, l’amministrazione onesta e trasparente delle risorse, ecc.
In questo quadro, immagino che chi si sforza - nella valutazione dei problemi penitenziari - di mantenere la calma e di continuare a professare i valori della riforma può risultare scomodo o addirittura sospetto. Forse i vari movimenti che difendono i diritti dei detenuti - e lo fanno con la vivacità, talora indisponente, che è loro propria - sono dei collusi o dei mestatori. Anche Amnesty International o l’Onu, se intervengono per formulare dei rilievi o dei richiami, fanno forse il gioco di qualcuno.
In una dichiarazione riportata dalla stampa (“L’Unità”, 28 settembre) l’on. Alfredo Biondi - che è stato ministro della Giustizia e parla quindi con cognizione di causa - dice testualmente: “Cuore stretto e mente serena mi impongono di non condividere il voto unanime della Commissione giustizia del Senato. So che la mafia si combatte adottando criteri severi, ma costituzionalmente corretti, non incrudelendo le pene e le sofferenze dei detenuti” e “non rendendo perpetuo ciò che per natura è provvisorio, non generalizzando misure che dovrebbero essere soggettivizzate a misura del reo e non del reato”. E, dato che, incredibilmente, il parere della Commissione è risultato di fatto unanime, aggiunge: “Certe volte l’unanimità non è sintomo di forza, ma di debolezza”. Chissà se anche l’on. Biondi risulta sospetto.
Già Winston Churchill, in una famosa dichiarazione, ripresa poi infinite volte, notava ai suoi tempi che “la civiltà di un paese si misura dallo stato delle sue prigioni”. Ma, si sa, Churchill era un tipo a cui piacevano, forse troppo , i buoni sigari e il whisky scozzese.
Il nuovo 41-bis
Che cosa è
L’ordinamento carcerario venne modificato con l’introduzione del secondo comma dell’art. 41-bis, 10 anni fa, dopo la strage di Capaci. Fino ad oggi il 41-bis è stato confermato di anno in anno.
Prevede il carcere duro per gli autori di alcune categorie di reati, con limitazioni nei colloqui con le famiglie, nei momenti di socialità con altri detenuti, nei pacchi viveri e nelle telefonate.
Le nuove norme
Provvedimento assunto dal Ministro della Giustizia, e impugnabile presso il Tribunale di sorveglianza.
Adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna. Riduzione del numero e della frequenza dei colloqui da svolgersi in locali appositamente attrezzati. Limitazione delle somme, beni e oggetti disponibili. Censura nella corrispondenza. Limitazione nella permanenza all’aperto. Limitazione di ogni altra facoltà derivante dalle regole del trattamento, ove non ne sia ravvisata la necessità.
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