Pierre Carniti, già Segretario generale della Cisl, analizza nel suo libro “La società dell’insicurezza”, i rischi anche gravi connessi all’espansione del fenomeno
La globalizzazione, con le poche opportunità ed i molti rischi che essa comporta, sta al centro delle tematiche che Pierre Carniti, già Segretario generale della Cisl, affronta nel suo ultimo libro dall’emblematico titolo: “La società dell’insicurezza”, pubblicato da Città Aperta Edizioni di Oasi Editrice.
Nel testo, Carniti evidenzia che la globalizzazione (intesa come possibilità per i capitali e le merci di circolare liberamente) ha provocato una vera e propria rottura rispetto alle precedenti politiche mercantili e, grazie anche al ritmo vertiginoso imposto a questo processo dalla rivoluzione informatica, ha contribuito ad accrescere il peso del potere economico ed a ridimensionare contestualmente quello del potere politico. Ma l’elemento nuovo della globalizzazione è rappresentato dall’annullamento delle distanze, dovuto alla velocità con cui viaggiano le informazioni. “È evidente che quando le distanze non significano più nulla - sottolinea Carniti nel testo - le località separate dalle distanze perdono anch’esse molto del loro significato. [...] Così grazie alla nuova incorporeità del potere, che si esprime principalmente nella forma del potere finanziario, coloro che lo detengono diventano sostanzialmente extraterritoriali”. Questa condizione di extraterritorialità, legata all’impalpabilità con la quale il potere finanziario è in grado di determinare la realtà, ha fatto nascere preoccupazioni e provocato reazioni in quella parte maggioritaria della popolazione mondiale che si sente esclusa da ogni potere democratico e di decisione. “C’è la reazione e il sacrosanto rifiuto del crescente aumento di quelle che sono state definite le tre disuguaglianze che accompagnano la globalizzazione - scrive Carniti - quella interna ai paesi ricchi, quella interna ai paesi poveri e quella tra paesi ricchi e paesi poveri”. Ma c’è, soprattutto, la preoccupazione per l’insicurezza del lavoro e dei suoi diritti. L’economia globalizzata, essendo ispirata a politiche rigidamente liberiste, ha individuato infatti la flessibilità e il minor costo del lavoro come gli strumenti necessari da utilizzare per ottenere maggiore occupazione. Nell’accezione liberista, invece, flessibilità significa offrire alle imprese l’opportunità di licenziare più facilmente, scaricando tutti i rischi sui singoli lavoratori. “Difficile ritenere che simili precetti - spiega Carniti - possano coesistere con un decente grado di coesione sociale. In ogni caso, tanto maggiore diventerà il numero dei rapporti di lavoro deregolamentati e flessibilizzati e tanto più la società del lavoro tenderà a trasformarsi in società dell’insicurezza. [...] Nulla autorizza a escludere che una tale prospettiva non possa addirittura mettere in pericolo la stessa democrazia”.
Ma quali sono i grandi mutamenti strutturali che il processo di globalizzazione ha determinato? Innanzitutto, ha modificato profondamente i rapporti di potere tra capitale e lavoro. “Nello spazio privo di distanze, realizzabile con le nuove tecnologie informatiche, d’ora innanzi - scrive ancora Carniti - tutti sono in grado di concorrere in quasi tutti i luoghi del mondo nella corsa agli investimenti di capitali e contemporaneamente nell’accesso alla forza lavoro disponibile a basso costo”. Ciò consente al capitale, da un lato, di poter lucrare sulla concorrenza tra forza lavoro ad alto e basso costo e, dall’altro, di aggirare i sistemi fiscali meno vantaggiosi.
In secondo luogo, il cambiamento ha ridimensionato il ruolo della politica a vantaggio dell’economia. “Il comunismo, in nome della rivoluzione, esigeva di subordinare il sociale al politico - evidenzia Carniti - il neoliberismo, in nome del libero mercato (ma soprattutto del profitto), pretende di subordinare la politica all’economia. Stupisce che questa pretesa (in radicale contrasto con gli elementi costitutivi della civiltà dei moderni) sia così poco contrastata. Anche dalle forze politiche progressiste. [...] L’impressione è che, nella grande trasformazione in atto, la cultura progressista sia alle prese con una crisi di identità. Che è sempre crisi di strategia”.
Un altro prodotto negativo della globalizzazione è quello relativo al grave aumento delle disuguaglianze, non solo tra i paesi ricchi e i paesi poveri ma anche quelle interne ai paesi ricchi. La causa di tutto ciò è da ricercare, innanzitutto, nel peggioramento delle politiche distributive. “Tutti i dati inducono a ritenere che, malgrado le speranze o le promesse dei molti ottimisti - osserva Carniti - la globalizzazione ha (quanto meno) coinciso con un aumento delle disuguaglianze e una polarizzazione nella distribuzione del reddito. [...] Quindi, indipendentemente dalle intenzioni, il processo di globalizzazione ha generato effetti non previsti e, comunque, non desiderabili”.
L’accelerazione del processo di globalizzazione, cioè della liberalizzazione e deregolamentazione del mercato dei capitali e degli scambi commerciali, ha coinciso con il crollo dei regimi comunisti. Eventi, questi ultimi, che l’autore giudica nel suo complesso positivi. “Essi però sono stati accompagnati anche da cambiamenti più inquietanti - dice l’autore - Dallo stallo tra due superpotenze si è passati a un mondo dominato da un solo paese. Situazione che ha creato un pericoloso monopolio del potere e ha contemporaneamente alimentato nuove inquietudini e insicurezze. Ha liberato i demoni nuovi (o in passato repressi) del separatismo e del nazionalismo che hanno prodotto crudeli conflitti etnici e razziali”.
La globalizzazione, inoltre, ha generato specialmente in Occidente una sorta di “bigottismo ideologico”, cioè l’idea che il confronto può essere instaurato soltanto fra i sostenitori di liberalismi diversi. Ma l’esperienza insegna che il liberismo, ovvero la versione economica del liberalismo, non è stata in grado di offrire risposte adeguate a risolvere il problema delle disuguaglianze sociali.
Non va sottovalutato, poi, il rischio che il capitalismo globale potrebbe dissolvere non soltanto i valori di base della società del lavoro, ma anche compromettere il patto storico tra capitalismo, Stato sociale e democrazia. Che il capitalismo globalizzato debba necessariamente portare ad una deriva antidemocratica non è scontato. “Non c’è dubbio, però, che molti si sentirebbero più rassicurati - sottolinea Carniti - se la politica si dimostrasse in grado di ricostruire e presidiare più efficacemente le ragioni della partecipazione e della coesione sociale”.
Uno degli effetti più perversi della globalizzazione è rappresentato dallo squilibrio tra economia reale ed economia finanziaria, dovuto alla rapidissima crescita di quest’ultima. Squilibrio che costituisce un freno allo sviluppo economico, alla crescita e, quindi all’occupazione.
Di certo c’è che globalizzare l’economia senza globalizzare la democrazia rappresenta un grave rischio. In questo contesto, una funzione positiva viene riconosciuta al cosiddetto movimento “no global” che ha messo in discussione il mondo in cui viviamo. “Assolve una funzione positiva - evidenzia Carniti - perché costringe a riflettere e discutere su come usare meglio i benefici derivanti dal progresso tecnologico e dagli intensificati rapporti economici, obbligando a prestare la dovuta attenzione a coloro che restano indietro".
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