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novembre / dicembre/2002 - Interviste
Venti di guerra
Un così lungo 11 settembre
di

Pubblichiamo alcuni stralci di un dibattito su terrorismo e guerra, svoltosi nella sede dell’Archivio Disarmo il mese di settembre scorso, alla luce di quanto è avvenuto e sta avvenendo nella politica interna e internazionale, oltre un anno dopo gli attentati degli estremisti islamici negli Usa

FABRIZIO BATTISTELLI - Io credo che in pochi altri casi come in questo un evento meriti di essere definito epocale. Non perché l’attacco artistico a New York e a Washington dell’11 settembre 2001 sia stato qualcosa di completamente imprevedibile; tant’è che, se non i servizi di intelligence, la fiction cinematografica l’aveva previsto, così come l’avevano previsto i romanzieri, e infine l’avevano previsto analisti che si occupano dei problemi strategici all’interno degli Stati Uniti. Nessuno, forse, aveva previsto le modalità, particolarmente drammatiche di questa impresa criminale, a causa dei suoi aspetti sicuramente “innovativi”, quali ad esempio la diabolica capacità di utilizzare oggetti e strumenti funzionanti all’interno del sistema che si vuole aggredire. Pensate all’aereo di linea, oggetto che da sempre è collegato a un’esperienza di uso civile, di segno ricreativo oltre che produttivo, dell’attività umana, il quale si capovolge in un attimo; pensate alle carte verdi, pensate all’informatica, ai collegamenti elettronici che ci facilitano quotidianamente la vita, e in questo caso sono serviti per mettere a punto un meccanismo di morte. Pensate a oggetti estremamente semplici come i taglierini in ceramica che, presumibilmente, sono stati utilizzati per uccidere persone dell’equipaggio e passeggeri. Ecco, questo capovolgimento degli oggetti della vita quotidiana mi ha colpito moltissimo e devo dire che ho rilevato moltissimo stupore, oltre che rabbia e dolore, per questa capacità offensiva che forse, a livello di opinione pubblica, era stata sottovalutata. Io credo che chi, come noi, si muove in un’area di pensiero progressista, collegata a determinate idee di partecipazione democratica dei cittadini, sente che è arrivato il momento di occuparci più direttamente di questi temi; non continuare a delegarli semplicemente a chi fa la gestione, a chi di tutto questo fa un’attività professionale, per essere vicini alle istituzioni che perseguono la decisiva funzione della sicurezza e, contemporaneamente, vigilare perché questa opera venga sempre condotta rispettando quei diritti umani, quei principi di democrazia, quei principi di pluralismo democratico che sono il vantaggio competitivo che questa parte del mondo può vantare rispetto a chi, invece, ha altri modelli. Noi possiamo e dobbiamo spingerci a misurarci su questi temi, possiamo contribuire con il nostro patrimonio di idee. Nello stesso tempo dobbiamo interrogarci: come ci schieriamo di fronte a queste gravi decisioni? Possiamo far sentire la nostra voce? Con quali strumenti? Con quali modalità? Pensiamo che ci siano dei soggetti collettivi in grado di esercitare un’influenza in campo internazionale? Forse in Europa si dovrà cominciare a riflettere sulla possibilità di prepararsi in risorse e strumenti per provvedere alla sicurezza internazionale. Non si potrà continuare a rinviare tutto questo a un grande attore, che non solo fa il protagonista ma rischia di fare un monologo, cioè gli Stati Uniti. Quello che fanno gli americani a volte è giusto, anzi, lo è nella maggioranza dei casi. Ma poniamo il caso che, per una volta, non sia giusto, chi nel mondo è in grado di segnalare: “quello che state facendo è sbagliato?” Si tratta di una domanda molto importante, molto seria, formulata magari anche con malizia, dai due colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui, autori del famoso studio Guerra senza limiti. È possibile che non riusciamo a mettere a punto un meccanismo internazionale – nel quale gli Stati Uniti non possono non essere una parte decisiva - che non sia soltanto unilaterale, che sia multilaterale, che prenda in considerazione la possibilità di un coro di voci che, di volta in volta, assuma le decisioni per mantenere la legalità e la sicurezza internazionale? Sappiamo che esistono le relazioni internazionali, ma i conflitti, per quanto esistono, non sempre riusciamo a risolverli con un comportamento di precisione e di intelligenza. Quindi, noi vorremmo spingerci su questi terreni così scivolosi, così complicati, dove forse “gli angeli non mettono piede”, come dice il poeta, ma gli uomini sì. Per questo oggi abbiamo chiesto di intervenire a persone che in un orizzonte politico-culturale sicuramente affine, hanno però delle esperienze e dei punti di vista diversificati. Daniele Archibugi da anni è impegnato nel movimento della pace, ed è autore di importanti studi sulla comunità internazionale e sulla democrazia cosmpolita. Nando Dalla Chiesa è talmente noto che non dirò nulla per presentarlo, tranne che è una persona che oggi in Italia conosce meglio i problemi della sicurezza e si batte, come autore e come parlamentare, per migliorare e rendere sempre più democratiche le istituzioni. Nino Galloni è un economista che, essendo stato a lungo inserito in un contesto internazionale, dello sviluppo; i problemi Nord – Sud non sono soltanto di civiltà che si scontrano, sono anche rapporti economici e ragioni di scambio. Claudio Giardullo, Segretario del Silp-Cgil, ci porta il punto di vista degli operatori di un settore nel quale è indispensabile ragionare in termini sistemici; la sicurezza è qualcosa che può essere minacciata a livello multidimensionale e deve essere difesa altrettanto a livello multidimensionale. Non si può pensare che questo avvenga se non con la cooperazione di tutte le istituzioni; dalle Forze di polizia, alle Forze Armate, alle Forze di intelligence. E all’opinione pubblica che su tutte vigila, monitorizza e partecipa, attraverso il voto, attraverso le istituzioni rappresentative, attraverso il dibattito e infine, se necessario, partecipa in piazza per difendere la tutela della sicurezza e la democrazia accanto ad altri valori.

DANIELE ARCHIBUGI - Io non sono un sociologo, però vorrei dire che uno degli aspetti che mi hanno colpito dell’11 settembre, visto dalla prospettiva americana, è stato come gli Stati Uniti si sono sempre sentiti un paese assediato, un paese in pericolo. Ora sono esposti quanto noi italiani, di più forse, negli anni della guerra fredda quando c’erano missili puntati, da Cuba per esempio, o i sottomarini presso gli Stati Uniti, come c’erano missili americani in Iraq e in altre parti; abbiamo partecipato a quel tipo di paura per la guerra nucleare, fortissima negli Stati Uniti. Un censimento dei rifugi atomici, domestici, negli Stati Uniti sarebbe altissimo. È un patrimonio immobiliare che ormai non serve più a nulla, sono diventate cantine. E c’era anche un’altra preoccupazione: la preoccupazione dell’immagine. Finito il pericolo sovietico gli Stati Uniti erano una delle zone più sicure del mondo da pericoli esterni. Non c’era alcuno Stato che aveva capacità tecnologiche e militari per dare dei colpi di qualsiasi altro tipo e ciò nonostante, la paura era sempre presente. Da un certo punto di vista possiamo dire che l’11 settembre ha dato a questa paura inconscia una dimensione reale, del tutto imprevedibile. Da questo punto di vista, tutti gli aggettivi disponibili, tutti i vocaboli sono stati utilizzati per qualificare questo atto: si può continuare, io non avrei aggettivi migliori di quelli che sono stati già usati, sono d’accordo con tutti. Gli storici del futuro useranno questo episodio come una pietra miliare, un evento che ha chiuso una parte della politica internazionale e che probabilmente ne ha aperta un’altra; comparato ad altri eventi eclatanti che ci sono stati, la caduta del muro di Berlino, o due secoli prima la presa della Bastiglia, e tanti altri episodi chiave che hanno contrassegnato la politica mondiale. Questo perché i morti non si contano ma si pesano. E i morti non sono tutti uguali. Un milione di morti durante la guerra Iran-Iraq nel corso degli anni Ottanta sono una cosa, i tre milioni di morti in Vietnam o i vari milioni quantificabili che ci sono stati nel genocidio in Cambogia, per terminare a quelle che sono le vittime della violenza politica, sono un’altra cosa: nessuno di questi eventi ha sostanzialmente cambiato la politica mondiale, e dovremo vedere quante righe saranno dedicate a ciascuno di questi eventi in un futuro manuale di storia. Invece, pesando quei morti, i morti dell’11 settembre hanno avuto un peso maggiore, perché sono state persone uccise all’interno del centro dell’attività contemporanea, il centro commerciale, finanziario degli Stati Uniti, una delle città più importanti del mondo, che tutti conosciamo e amiamo; probabilmente molti di noi sono stati alle Torri Gemelle a fare le fotografie, mentre non credo molti siano stati in Cambogia o sulla frontiera tra Iran e Iraq dove si è combattuta la guerra. Quindi, dal punto di vista della politica mondiale, il peso delle vittime è completamente diverso. Anche se da un certo punto di vista tutte le sofferenze umane meritano la stessa risposta. Detto questo, io credo che un’attitudine ricorrente, probabilmente presente, molto nel Terzo mondo, meno in Europa e fra tutta la gente degli Stati Uniti - se non in piccole frange della sinistra americana - è “beh, in fondo gli americani se lo sono meritato”. La trovo del tutto ripugnante e sostanzialmente assurda. Perché? Se fossero stati 19 vietnamiti che hanno avuto la famiglia sterminata dai B52, o altri appartenenti a paesi che hanno subito gravi ingiustizie da parte degli Stati Uniti, forse si potrebbe dire che sotto sotto c’è stata un’ottica di vendetta o qualcosa del genere. I terroristi dell’11 settembre erano delle persone che non avevano nessuna ragione per fare questo. Ed erano finanziati da chi, come Bin Laden, ha avuto i soldi grazie a una situazione parassitaria, allo sfruttamento di materie prime. Erano diciannove persone che hanno compiuto questi attentati senza alcuna “giusta causa”, che la si voglia definire antimperialista, anticolonialista, antiamericana.
La reazione americana è stata, ovviamente, una reazione assurda, illegittima, illegale e fondamentalmente terroristica. Ancora una volta di quel terrorismo di cui purtroppo gli Stati Uniti hanno spesso fatto uso. È stata assurda perché questi diciannove attentatori non hanno agito come agenti di uno Stato, hanno agito come un gruppo organizzato di fanatici che, comunque sia, non erano agenti di uno Stato. Perché la reazione che si è avuta nei confronti dell’Afghanistan sembra una reazione del tutto non logica. Nessuno di questi attentatori, per quanto dicono oggi le fonti d’informazione, era stato, ad esempio, addestrato nei campi dell’Afghanistan; sembra che nessuno di loro era mai stato in Afghanistan, mentre avevano rapporti familiari, rapporti di altro tipo, con un altro Stato, con l’Arabia Saudita - dal quale la maggior parte di loro venivano - che è un fedele alleato degli Stati Uniti. Lasciando perdere i combattenti, il numero delle vittime civili in Afghanistan è di molto superiore al numero delle vittime che ci sono state all’attentato alle Torri Gemelle. Per non parlare di altri fatti, come ad esempio lo sterminio di un numero imprecisato di prigionieri. Ma poi, questa reazione, probabilmente, non è efficace; la reazione di far vedere i muscoli da qualsiasi parte - cosa che ovviamente tutta l’opinione pubblica americana voleva, il 95% dell’opinione pubblica americana desiderava un intervento militare - questa reazione non ha l’efficacia di garantire la mancanza di attentati. Il problema allora che ci viene detto e che è il punto di fondo è: allora che cosa bisognava fare? Io non ho una risposta chiara, ma secondo me altre cose bisognava fare.
La linea che bisognava prediligere era quella di non considerare questo attacco un attacco contro gli Stati Uniti ma un attacco contro l’umanità, rafforzando il fatto che, com’è noto, in quell’attacco erano morte anche persone di altri paesi. E questo poteva dire privilegiare una strategia alternativa che si doveva fondare sul diritto, si doveva fondare sull’Interpol, sul rintracciare le persone che erano direttamente connesse con quell’episodio e portarle in fronte alla Giustizia, a quella Corte penale internazionale il cui trattato costitutivo si è firmato a Roma il 17/7/1998.
È stato deprimente, triste vedere nei campi palestinesi, l’11 settembre, i giovani che inneggiavano agli attentati, e per fortuna la leadership palestinese ha avuto una reazione diversa, quella di dire: noi siamo contro a questo tipo, a questi tipi di terroristi. È certo inquietante vedere certi tipi di reazioni che ci sono state, ma siamo sicuri che questi tipi di reazione non aumenteranno dopo che c’è stato l’attacco all’Afghanistan, o dopo un attacco all’Iraq, senza che nessuno dica chiaramente che cosa bisogna poi fare di quel paese? Come pure non ci hanno detto che cosa bisogna fare di quella povera terra di Afghanistan. Per carità, almeno si sono liberati dai Talebani, ma voglio dire, ancora lo Stato non ha una prospettiva, per non parlare di quello che è successo dopo altri interventi “umanitari” nel 1992 in Somalia: dopo dieci anni, la situazione è rimasta esattamente come quella che c’era allora. Evidentemente oggi andrebbe fatto qualcosa di diverso se veramente si tiene all’ordine mondiale. Si dovrebbe realizzare responsabilità globale, che alla fine, probabilmente, potrebbe essere anche la garanzia migliore per far sì che quella parte ricca del mondo dove viviamo noi, il 20% della popolazione mondiale, non sia più esposta agli attacchi terroristici di qualche pazzo esaltato che ha letto male i testi religiosi.

NANDO DALLA CHIESA - Io cerco anche di venire incontro alle domande introduttive che mi sembrava che riguardassero anche lo sviluppo degli specialismi e l’atteggiamento dell’Europa. Magari si può legare direttamente l’azione degli specialismi all’analisi di Archibugi, cioè come hanno risposto gli Usa all’11 settembre. Io non credo che sia stato un attacco all’umanità, credo sia stato un attacco agli Usa, credo che volesse rappresentare questo, e le intenzioni sono molto importanti per qualificare i gesti e le azioni che vengono compiute, il modo in cui vengono eseguite. Ma è stato indubbiamente un attacco politico. Io credo che vi sia una grande debolezza nella risposta degli Usa, e anche una grande debolezza nelle risposte che il sistema degli Stati occidentali si accinge a dare da qui in avanti, alla presenza di un terrorismo internazionale organizzato legato ad alcuni Stati. E questa domanda è: ma è stato efficace quel tipo di risposta degli Usa per cambiare il regime afgano? Qualcuno potrebbe dire: questa è una convinzione propedeutica per rendere più debole il terrorismo. Però il terrorismo non è stato bloccato. Non è stato neanche, forse, colpito in modo duro. Bin Laden fa le sue rivendicazioni, ha dimostrato una certa capacità di mobilità organizzata sul territorio, collegamenti terroristici sono fondamentalmente rimasti in piedi. Ho la sensazione che sia necessario un investimento, che è un investimento materiale, un investimento istituzionale, culturale, sulla sicurezza costruita attraverso il terrorismo, di un passaggio dalla difesa o dall’aggressione militare, alla lotta al terrorismo. Questo passaggio è necessario. Noi pensiamo che il terrorismo è diventata una costante, almeno per un certo numero di anni, nel tempo dello scenario mondiale. Se pensiamo che abbia un radicamento in alcune declinazioni del conflitto religioso, che possa combinare il conflitto religioso con il conflitto etnico, e che occorra dare un momento di iniziativa a coloro che sono naturalmente più deboli; pensare di rispondere al terrorismo dei meno forti, dei più deboli con l’azione militare dei più forti, rischia di essere inefficace e inutile. Questo è il grande problema. Qualcuno di noi lo ha posto anche nel dibattito parlamentare quando si decise di appoggiare l’azione di guerra: la distanza che c’era tra le forme con cui si interveniva e gli obiettivi che bisognava raggiungere. Io ho la sensazione che abbiamo un sistema che per un verso è totalmente inadeguato per fronteggiare il terrorismo internazionale, e per l’altro verso ha una sua convenienza a giocare sull’altro tavolo, quello della difesa con l’attacco militare; sono tutte e due le cose. Certo, investire sulla lotta al terrorismo implica anche un forte contenimento delle proprie capacità egemoniche sul piano internazionale. Lottare contro il terrorismo non significa modificare i rapporti di forza o di potenza internazionale. Fare la guerra sì. E al tempo stesso, il livello delle competenze, il livello delle conoscenze che noi abbiamo del terrorismo si è dimostrato palesemente insufficiente, nel momento in cui molte delle informazioni che sono state date all’opinione pubblica, nei mesi successivi all’11 settembre, hanno trovato una smentita e costantemente trovano smentite nella verità che viene accertata. Io sono molto preoccupato di questa distanza. Credo che se si parla di specialismi bisogna puntare soprattutto a trasferire risorse dal sistema della difesa con l’attacco militare al sistema del contrasto del terrorismo internazionale. Questo vuol dire davvero una pianificazione di risorse. Se pensiamo che cosa potrebbe voler dire per le nostre Forze dell’ordine, le nostre Forze Armate, i nostri servizi mettersi in grado di controllare efficacemente e di contrastare efficacemente - parliamo dell’Italia, comunque abbiamo dimostrato di essere non soltanto un Paese di transito, ma un Paese utile al problema delle basi logistiche - cosa voglia dire, per un Paese come il nostro, attrezzarsi per combattere il terrorismo internazionale. Pensiamo non soltanto - si è detto tante volte però poi non si realizza forse la qualità degli l’investimenti necessari - non soltanto disporre di uomini in divisa, anche se a volte gli stessi possono essere in borghese, ma disporre di personale qualificato che entra nel sistema della lotta al terrorismo e sa operare attraverso gli opportuni specialismi, un lavoro enorme e pericolosissimo per l’intelligence. Pensiamo soltanto che cosa ha voluto dire entrare nelle situazioni ambientali per decifrare i messaggi che venivano usati, pensiamo all’equivoco che c’è stato, per esempio, proprio perché si pensava che venisse attaccato a breve termine da terroristi tunisini, o attraverso terroristi tunisini o complici tunisini, una delle nostre chiese monumento nazionale. La gaffe clamorosa, un grido di allarmismo naturalmente per l’opinione pubblica, e poi la necessità di ripiegare sulla ambiguità della traduzione che era stata offerta dalle interpretazioni di frasi intercettate. Se noi pensiamo a quanti sono tra l’altro i dialetti che possono essere tenuti sotto controllo, non soltanto le lingue ma anche i dialetti che possono essere tenuti sotto controllo, le difficoltà che ci sono state con la criminalità organizzata nei paesi dove non esiste una sola lingua, ma ci sono i dialetti locali; ci rendiamo conto che disporre di queste risorse e soprattutto garantire la condizione tra queste risorse e quelle che vengono spese negli altri paesi europei - perché il terrorismo è internazionale - capiamo che forse investire nelle risorse militari tecnicamente definite è un conto, investire su questo tipo di risorse è un’altro, ma probabilmente queste risorse sono più efficaci per combattere il terrorismo. Quindi cosa vogliamo fare? La guerra o combattere il terrorismo? E la guerra quanto è efficace per combattere il terrorismo? La soluzione che è stata esperita è stata comunque la guerra che aiuta a combattere il terrorismo, perché tirando giù un regime politico togliamo un alleato ai terroristi che ci hanno colpito. Questo si è dimostrato, in una certa misura, vero in termini così ridotti da non giustificare i 4.000 civili uccisi e da non giustificare comunque tutte le dinamiche che sul piano internazionale della politica si sono attivate, che hanno ribadito in modo molto pesante la supremazia politico-militare degli Usa sull’onda della giustificazione che era, ovviamente e comprensibilmente, fortemente emotiva: siccome hanno subìto questo, noi lasciamo fare. Noi non penseremmo mai in uno Stato di diritto: siccome ha subìto questo, può vendicarsi.
Dunque gli specialismi. Specialismi anche nell’informazione perché è stupefacente la macchina informativa che si mette in moto quando c’è da dichiarare una guerra. È veramente stupefacente. Chiunque legge i giornali, anche adesso con la questione irachena, sente dire delle cose che poi vengono smentite dalle dichiarazioni di esperti. Allora come è possibile che una società che è fondata sull’informazione, che viene addirittura definita la società dell’informazione, vada in guerra avendo informazioni assolutamente disomogenee, sballate, infedeli rispetto alla realtà che deve essere giudicata per decidere se è giusto o no andare in guerra. Mettiamoci nella logica di chi non sia pacifista per scelta, ma decida di fare una guerra in base alla valutazione degli interessi generali della società in cui opera; comunque basarsi su delle informazioni infedeli non è tollerabile. Immaginiamo per un attimo di non dover dividere tra i pacifisti e quelli che scelgono la pace soltanto in certe condizioni e la guerra in altre, comunque un paese non può scegliere di andare in guerra in base a informazioni false. Noi stiamo vedendo un festival di informazioni infedeli che passa da molto tempo, con una capacità dei giornali di padroneggiare quest’informazione che è bassissima. Sarebbe come se noi fossimo di fronte al terrorismo, o di fronte alla mafia, e subissimo un’ondata di veline che ci arrivano dai centri del potere - in quel caso non militare, ma di potere repressivo dello Stato o del potere giudiziario dello Stato - false; e in base a quelle giudichiamo se è giusto o no comportarsi in un certo modo. Non è pensabile perché i valori e le grandezze in gioco, anche quantitative, sono talmente alte che non consentono allo Stato, a un’opinione pubblica, a una collettività, a un Parlamento, non consentono di invervenire e di scegliere in assenza di altre informazioni. Questo è il tema che io sento dire con urgenza pari all’altra. Cioé colmando la distanza tra l’efficacia di un intervento e l’efficacia dell’altro: il passaggio dalla difesa alla lotta al terrorismo, oppure passare dall’attacco militare alla lotta al terrorismo e avere a disposizione informazioni che mettono in condizioni di fare quelle scelte che possono essere diverse in base ai valori, partendo dalla democrazia. Io sono di quelli convinti che l’Europa debba dotarsi di una sua difesa e, come ho detto prima, di un suo sistema coordinato di lotta al terrorismo. Questo significa immaginare una cosa completamente nuova, che non c’è. La ragione della politica dell’Unione Europea non può tornare indietro rispetto a questo progetto politico anche per queste ragioni; perché un sistema internazionale nel quale c’è soltanto una forma politica statuaria che può utilizzare la forza lascia gli altri nella condizione di non poter avere una loro linea e di dover correre in ordine sparso, e mi sembra che questo si stia verificando di nuovo.
Ecco, queste sono le osservazioni che mi sentivo di fare. Comunque sono elementi di riflessione molto gravi.

NINO GALLONI - Io vorrei ricollegarmi, in qualche modo, ai due interventi che mi precedono allargando il campo di quella che mi pare - soprattutto Nando Dalla Chiesa ma anche Daniele Archibugi (Archibugi di meno, Dalla Chiesa di più) - hanno introdotto, e cioè la categoria dell’incertezza. E per fare questo mi sembra necessario introdurre una terza categoria, oltre quelle due attorno alle quali abbiamo discusso finora, cioè i buoni e i cattivi. Una categoria che noi possiamo mettere facilmente in mezzo ai cattivi, ma che in realtà non nasce nei cattivi e che chiamerò qui, per semplicità, i fuoridevianti, che diventano cattivi da un punto di vista etico, del giudizio, ecc. ma che in effetti hanno un ruolo importante e che dal loro punto di vista non sono affatto cattivi. Ne abbiamo diversi tipi, oltre i cattivi classici - che sono i criminali generici, i criminali politici, i terroristi - abbiamo le deviazioni dell’intelligence, o servizi segreti e le milizie collegabili sia con interessi economici, sia interessi politici. Allora farò due esempi per essere sintetico. L’omicidio di due personaggi politici di alto livello - omicidi che hanno avuto conseguenze epocali per i rispettivi paesi e forse per l’intera regione o forse anche per tutto il pianeta - e sono quelli di John Kennedy, e di Aldo Moro. Il problema di questi omicidi è che tra i principali sospetti vi sono i servizi segreti. Il secondo esempio - che riguarda l’ipotesi di lavoro sulle perizie degli atti, nel caso vi sia un collegamento tra economia e politica - è l’attentato, anzi gli attentati dell’11 settembre. A livello molto elevato negli Stati Uniti si è sostenuto che l’organizzazione di Bin Laden di per sé non sarebbe stata in grado di effettuarli. Soprattutto destano gravi sospetti gli effetti materiali di uno degli aerei - quello caduto sul Pentagono - rispetto alla struttura muraria. E poi i settanta lunghi interminabili minuti in cui è venuto a mancare qualunque sistema sicurezza: erano stati tutti oscurati, e i militari hanno sistemi per oscurare i sistemi di sicurezza, come in certe aree il modo di non far funzionare i telefonini, ecc. Che situazione c’era negli Stati Uniti prima dell’11 settembre? C’era una situazione di gravissima crisi economica perché il programma principale sulla quale Bush aveva vinto le elezioni, cioè riduzione delle tasse, riduzione delle spese pubbliche per dare lancio all’economia, era fallito completamente, per il semplicissimo motivo che le persone che negli Usa pagavano le tasse, e che erano state beneficiate dalla diminuzione delle tasse, non avevano investito questi risparmi, questo maggior reddito dato dal fatto di pagare minori tasse, né nel sostenere la Borsa, né in investimenti produttivi, né, paradossalmente, in consumi. I ricchi non avevano investito in consumi perché il loro livello di consumo era già adeguato; non avevano investito in Borsa perché la Borsa era già in crisi; non avevano investito in titoli o in attività produttive perché le attività produttive erano già in crisi, in particolare la new economy che non aveva garantito quelle realizzazioni in termini di sviluppo, di occupazione e di profitti che invece 3/4/5 anni fa sembravano scontati e che poi, non previsti più nemmeno dagli operatori di Borsa, avevano determinato quella crisi finanziaria che è tuttora in corso, e che non crea a livello mondiale una situazione simile a quella degli anni ’30, semplicemente perché il sistema è molto più attrezzato a regolare questa crisi finanziaria, nel senso di darne a pezzettini in modo da evitare il tracollo generale molto più grave. In queste condizioni c’erano due problemi: primo la ripresa degli investimenti pubblici, soprattutto militari, negli Usa; secondo intervenire nell’economia in modo da modificare rapidamente quella che era l’impostazione liberistica che aveva caratterizzato i 10 anni precedenti, soprattutto quella che era l’ideologia portante che giustificava la presenza di Bush come presidente repubblicano negli Stati Uniti. Quindi c’è stata una sorta di collusione, come spesso avviene, tra qualche settore legato a determinati ambienti militari che volevano, avevano bisogno di fare una guerra - perché non si possono accumulare arsenali, giustificare aumenti nelle spese della ricerca ecc., se poi qualche guerra non si fa - da una parte, e dall’altra l’occasione dell’11 settembre, quindi con l’aggravio anche delle circostanze economiche che ho descritto prima - con l’aggiunta di settori come quello del turismo, del trasporto aereo, ecc. - subiscono ulteriori danni e che consente a Bush di introdurre forti incentivi alle imprese, aiuto ai disoccupati, aiuto agli anziani che non possono comperarsi le medicine a causa dello stesso programma che è quello che taglia la spesa sanitaria, consentire alle imprese di comperare le proprie azioni senza più limiti in modo di sostenersi in Borsa e dazi doganali su alcuni settori.
Anche rispetto al ragionamento sull’Iraq, che cosa ci hanno insegnato tutte queste cose? Ci hanno insegnato che a livello di sicurezza dei cittadini, sebbene un paese abbia la necessità di dotarsi di un servizio segreto, però come si fa a garantirsi altresì che codesti servizi non degenerino e non si mettano a produrre degli effetti che poi sono esattamente il contrario di quello che dovrebbe accadere; o meglio, vanno a fare loro quello che dovrebbero evitare che venisse fatto. E mentre un eccesso di manganellate da parte della Polizia in piazza facilmente viene poi perseguito più o meno giustamente, attraverso i canali ordinari della magistratura, queste azioni dei cosiddetti servizi segreti deviati raramente poi riescono a essere portate davanti a un giudice ordinario o quant’altro, perché chiaramente si è creato un insieme di connivenze, ecc. ecc. Ma mentre l’intelligence, i servizi segreti partono da qualcosa di legale e di giustificato, ancora più pericolosa, mi pare la situazione di quelle che definisco le milizie, cioè nei quali personaggi più o meno importanti, o perché ne hanno la possibilità economica o per altre ragioni, riescono a dotarsi di un piccolo esercito privato e segreto che ha lo scopo di difenderli - e non sono ovviamente delle guardie del corpo - e che poi agiscono e prendono delle iniziative autonome, che anche questi stessi personaggi non riescono a controllare. Il risultato di questa situazione è che questi cosiddetti servizi, milizie - o come diceva prima Nando Dalla Chiesa aver appoggiato questo o quell’altro Stato, questa o quell’altra potenza, ci metto dentro Saddam Hussein, ci metto dentro Bin Laden ecc. ecc. da parte degli Usa - ha prodotto una situazione in cui adesso gli Stati Uniti si vedono difesi da questi stramaledetti personaggi che poi mettono a repentaglio la sicurezza dei propri concittadini oltre che la nostra. E allora dico, c’è qualcosa che non va a monte, a livello del funzionamento della democrazia, e che dobbiamo approfondire.

CLAUDIO GIARDULLO - Volevo partire esattamente dalla domanda che è il tema del dibattito: dopo l’11 settembre quale sicurezza e, soprattutto, quale sicurezza continuando a garantire il controllo democratico delle istituzioni, che mi sembra veramente il nodo di fondo per le democrazie occidentali, e quindi anche per l’Italia. Parliamo di sicurezza innanzitutto, poi entrerò brevemente nelle analisi, nelle proposte, nel minimo di considerazioni rispetto alle vicende internazionali. La sicurezza è un tema che sta crescendo d’importanza nelle società occidentali, in una delle relazioni della Commissione antimafia di uno di questi ultimi anni, si fotografava bene un processo: si diceva che il ’900 era un secolo che è cominciato con una forte domanda di sicurezza sociale e si è chiuso con una fortissima domanda di sicurezza personale. E questo mi sembra in bene, un fenomeno che è comune alla maggior parte delle società occidentali e in particolare quelle europee. La sicurezza ha fatto la fortuna e la sfortuna politica di alcune compagini politiche, partitiche, in Europa, in questi ultimi anni, in Italia, e in Francia come esempio più recente. La sicurezza è un tema sicuramente centrale e determinante per un Paese come il nostro, che è cerniera tra il Nord e il Sud del mondo e quindi, comunque, strutturalmente e oggettivamente al centro di una serie di fenomeni e di traffici che hanno un’importanza e una valenza immane anche soltanto dal punto di vista economico, perciò sono anche in grado di condizionare le scelte dei paesi. La sicurezza è un tema fondamentale, importante, che attanaglia l’opinione pubblica ma, allo stesso tempo, è un tema estremamente scivoloso, che può indurre a fare tantissimi errori strategici, di modello di società e persino tecnici da un punto di vista della sicurezza stessa. E il motivo di fondo è che speculare all’idea di sicurezza c’è quella della paura: anche ormai all’inizio di questo millennio, da sempre, una società che ha paura è disposta a rinunciare a quote crescenti di garanzie civili, a condizione di essere sicuri. A volte, alcune cose avvengono senza neanche che ce ne rendiamo conto. La faccenda delle impronte digitali che, tutto sommato in uno scenario di questo tipo sembrava anche minimale: ma il fatto che ci siano anche uomini di cultura progressisti, che ritengono che dare le impronte digitale alle Forze di polizia, metterle nella carta di identità sia una cosa assolutamente normale, vuol dire che ormai è considerato un prezzo assolutamente giustificato da pagare, l’invasione, la conoscenza, la schedatura anche di massa, degli abitanti dei paesi occidentali, a condizione di essere sicuri. Il prezzo che i paesi occidentali, le società occidentali stanno pagando sull’altare della sicurezza è un prezzo altissimo che in realtà diminuisce sempre di più le garanzie civili e quindi la possibilità, da parte dei cittadini dei paesi occidentali, di influire poi sulle scelte di fondo, quelle strategiche. Ripeto, perché la paura è il contraltare del concetto di sicurezza. La paura, oltre che la condizione per una cessione di garanzie civili, spesso è l’anticamera di svolte autoritarie nei rapporti tra Stato e cittadini. Il tema della paura è un tema serissimo per il modello di società nazionale, di società internazionale, di comunità internazionale che si deve realizzare; il tema della paura è una questione fondamentale, determinante, un problema serissimo per il livello di democrazia, altrettanto serio sul piano economico, altrettanto serio, poi, sul piano dei rapporti internazionali. Ora che cosa è successo, brevissimamente in Europa, e cosa sta succedendo sul terreno della sicurezza? Ci sono degli ambienti, degli ambienti più conservatori delle società europee, che in questi ultimi anni hanno lavorato più che mai sulle paure dei cittadini. Le politiche della sicurezza, da parte delle destre del mondo, conservatori di tutte le società europee, hanno fatto leva, quasi esclusivamente, su quella parte irrazionale del cervello che, come dire, se è sollecitata, non consente anche una visione razionale, strategica nel cercare, nel trovare la soluzione. L’idea fondamentale, che è stata sviluppata nei paesi europei dagli ambienti conservatori, è un’idea di società chiusa. Non ho mai sentito slogan più efficace, purtroppo, da questo punto di vista come quello trovato dal leader olandese della destra che poi è stato ucciso; il suo motto più utilizzato era: siamo al completo. L’idea di sicurezza era abbinata all’idea di una società chiusa che non accetta diversità, che non accetta estranei. Quindi la prima idea sulla quale le destre di tutta l’Europa hanno fondato le loro politiche di sicurezza è: questa società è sicura se è blindata, se è chiusa, se non si apre all’esterno. La seconda idea, che è direttamente conseguente a questa prima nel naturale sviluppo, è l’idea di scontro. In Italia, in particolare, questa idea è stata sviluppata molto, da Genova in poi ne abbiamo avuto l’immagine anche più plastica, il ragionamento sottile è: il Paese può superare alcuni problemi sociali, economici se si prende atto che c’è uno scontro nel nostro Paese e va affrontato a viso aperto, dove gli altri nello scontro sono chi è portatore di diversità sociale, religiosa, etnica o chi ha la pretesa di dimostrare in piazza, magari per la tutela dei diritti, per esempio per la tutela dei diritti al lavoro. La retorica dello scontro è un filone fondamentale delle politiche che le destre in Europa, ma in particolare in Italia, hanno sviluppato. Quindi, l’11 settembre in quale scenario cade, dal punto di vista della sicurezza? Cade in uno scenario sociale, culturale e politico, già fortemente influenzato da un’idea di chiusura e di scontro sociale. E l’11 settembre, per le risposte che sono state date - non subito perché qualcuno ha notato subito dopo l’11 settembre un atteggiamento americano molto più disponibile all’apertura con i Paesi partner, molto più disponibile persino su alcuni versanti, su alcuni focolai di guerra nel panorama internazionale - subito dopo l’amministrazione Bush sembrava voler, non dico riconciliarsi col mondo perché non era questo il concetto, ma l’atteggiamento tenuto era non di unilateralismo spinto come invece è successo dopo. Ora il punto è quali sono stati i due concetti utilizzati dall’amministrazione Bush e ripresi da alcune forze politiche di destra, da alcuni governi dell’Europa? Due sono le idee chiave che hanno alimentato quest’idea di chiusura e di scontro con riferimento all’11 settembre. La prima: siamo in guerra, è cosa diversa da facciamo la guerra, le cose convergono - io sono d’accordo con le cose che diceva Dalla Chiesa - però è già una questione diversa. Dire che con il terrorismo siamo in guerra, dire che quella con il terrorismo è una vera e propria guerra, non è lotta al terrorismo, non è contrasto, vuol dire ricercare concetti familiari; gli americani sono stati per la prima volta colpiti sul loro territorio da un’entità che non è considerata interna, quindi l’attentato non è interno, l’amministrazione Bush da subito era consapevole che non sarebbe stato facile individuare chi era riuscito a neutralizzare l’azione dei più forti, capaci, sovvenzionati servizi segreti del mondo, l’idea di guerra serviva all’amministrazione Bush per utilizzare concetti familiari di nemico e di confine, cosa che poi si è realizzata; l’Afghanistan ha avuto sicuramente il merito di buttare giù un regime antidemocratico e di mettere in difficoltà Al Qaeda, nel senso che ne ha rallentato, probabilmente, l’azione successiva, mettere in difficoltà, non di più, una difficoltà temporanea. Questa è una delle capacità che ha un’organizzazione terroristica come quella, la capacità di realizzarsi in maniera multiterritoriale, cioè non sono in un posto e non sono in uno Stato.
Sicuramente quella guerra ha rallentato la capacità operativa di Al Qaeda, ma adesso - oltre tutte le considerazioni che sono già state fatte sulla guerra in Aghanistan - io sto ragionando sull’idea di guerra: la cosa estremamente pericolosa che rende inefficace l’azione antiterrorista sul piano internazionale è proprio l’idea di guerra; perché rispetto ad Al Qaeda, o a qualsiasi altra organizzazione internazionale di quella portata o meno, non siamo in presenza di un nemico visibile da combattere, non siamo in presenza di confini da difendere. Quindi l’idea di guerra è un’idea sbagliata, fortemente sbagliata che rende inefficace l’azione di chi il terrorismo lo vuole combattere veramente. Poi, l’idea di guerra è sicuramente servita, oltre alla guerra concreta che è stata fatta, all’amministrazione Bush di fronte alle difficoltà, che erano chiarissime, di mettere a loro volta in difficoltà un’organizzazione che aveva dimostrato quella “geometrica potenza” di fuoco, per utilizzare un concetto a noi noto sul piano interno. L’idea di guerra quindi è servita per esigenze interne dell’amministrazione Bush, serve ancora per esigenze interne dell’amministrazione Bush, ma serve per il secondo concetto, che è altrettanto pericoloso e che altrettanto rende inefficace questo tipo di azione antiterrotistica, e cioè siamo in guerra perché c’è uno scontro tra civiltà. L’idea che tutto questo stia succedendo perché in realtà nel mondo c’è uno scontro tra civiltà, è un’idea che rafforza le ragioni di chi ha fatto quell’attentato, non le indebolisce. Perché in realtà uno degli obiettivi strategici di chi ha realizzato quell’attentato è esattamente realizzare, assicurare, conservare - perché così ci capiamo perché è un’idea conservatrice - mantenere società separate, blocchi incomunicabili, impedire la contaminazione tra le culture, tra le società, tra i sistemi sociali che, inevitabilmente, una società multietnica e multiculturale presuppone. Settori dei servizi deviati di sicurezza, parlo di terrorismo interno, del nostro Paese, in certi momenti hanno agito perché avevano lo stesso identico obiettivo strategico di chi il terrore lo realizzava, perché se non c’è il terrorista non c’è neanche bisogno di chi il terrorista lo deve combattere, perché se non c’è il terrorista chi è in grado di condizionare le scelte economiche e politiche di un certo paese conta molto di meno. In certi momenti c’è sicuramente una convergenza di interessi assoluta. Ora, l’idea viene dall’America, non so quanto consapevolmente, viene ripetuta schematicamente anche in Italia, per cui c’è uno scontro di civiltà e quindi bisogna far prevalere una civiltà sull’altra: è il modo più formidabile per aiutare gli obiettivi strategici di chi quell’attentato ha fatto. Perché in realtà, da questo punto di vista, il modo migliore, sul piano strategico, sul piano dei modelli di società - anche di società internazionale, di comunità internazionale - il modo migliore per neutralizzare quel progetto è esattamente lavorare per una società multiculturale, multietnica, dove la diversità sia una ricchezza, dove non si fa confusione fra i flussi immigratori - che sono fenomeni strutturali che vanno governati innanzitutto sul piano economico e sociale - e terrorismo e criminalità organizzata che quei flussi magari utilizza.
In questi giorni l’immigrazione è passata dal ministero del Lavoro al ministero dell’Interno. C’è una sempre maggiore connotazione di ordine pubblico, di sicurezza, di polizia, per capirci, nella gestione delle questioni di immigrazione.
Sicuramente bisogna investire in modo corretto per le cose che abbiamo appena detto: per l’intelligence; bisogna investire negli strumenti tecnici, specialmente nei settori che sono più esposti, penso agli aeroporti; però la questione della cooperazione internazionale è determinante. In Europa ci sono strumenti di cooperazione internazionale - l’Unione Europea ha ad esempio Europol - perché sono fondati su una analoga concezione degli interessi comuni e dei mezzi per realizzare e difendere quegli interessi da parte dei paesi che si considerano amici; ma questo è il nodo di fondo nel rapporto con gli americani. La condivisione di come va usata l’alleanza, la condivisione, la partecipazione nella determinazione dei fini e soprattutto dei mezzi con gli americani è il punto debole. E se non c’è questo non ci può essere strategia comune contro il terrorismo, specie rispetto a un pressante unilateralismo che vedrebbe gli americani intervenire in Iraq e disinteressarsi del fatto che l’Italia, è sì Paese di transito, Paese che ha ospitato e ospita strutture logistiche delle organizzazioni fondamentaliste islamiche, è prevalsa la politica da parte dell’Italia anche nei momenti peggiori di scontro internazionale sulla questione palestinese, è prevalsa da parte dell’Italia l’esigenza della politica, il prevalere della politica rispetto allo scontro, rispetto allo schieramento. Se quelle stesse organizzazioni dovessere vedere che l’Italia perde questa caratteristica - e questa caratteristica l’avevano anche i governi della Democrazia Cristiana - non è detto che l’Italia sia soltanto Paese di transito e di allocazione di strutture logistiche delle organizzazioni terroristiche islamiche, potrebbe essere anche Paese considerato ostile, nemico, e quindi bersaglio.
Quando qualcuno ci dice che le vere priorità nella sicurezza del nostro Paese sono la clandestinità, l’immigrazione clandestina e la prostituzione, gli addetti ai lavori e gli esperti non sanno se ridere o piangere, però quello è il messaggio che costantemente viene dato ai cittadini di questo Paese. Io dico che la garanzia per i cittadini serve anche rispetto all’interno, ma ovviamente, alla luce di quello che sta succedendo sullo scenario internazionale. Allora la costituzione di una Commissione interni, per esempio, che è stata già proposta, mi sembra una soluzione che va perseguita. Perché per i Paesi relativamente ricchi, e per alcune zone d’Italia dove c’è una disoccupazione al 3%, la questione delle questioni è quella della sicurezza. Nel Nord-Est, in alcune zone della Lombardia, la questione delle questioni per la maggior parte degli italiani lì è la sicurezza, prima ancora che il lavoro e l’occupazione. Allora una questione così importante sul versante interno - e ormai, anche dopo l’11 settembre, sul piano internazionale - non impone la costituzione di organismi specifici, di parlamentari che possano seguire come vengono impiegate le Forze di polizia? Quali sono i loro obiettivi, qual é l’addestramento, qual é la formazione, qual é il rapporto con la società, qual é il rapporto fra di loro per parlare di coordinamento, qual é il rapporto con gli altri organismi comunitari per quanto riguarda l’Europa e internazionali? Io penso di sì, questo dovrebbe essere, per esempio - la realizzazione di queste commissioni - un primo passo per mettere l’accento su una questione che non può essere delegata soltanto agli esecutivi.




I partecipanti

Fabrizio BATTISTELLI, docente di sociologia all’Università “La Sapienza” di Roma

Daniele ARCHIBUGI, dirigente Cnr, professore a contratto di organizzazione internazionale all’Università “La Sapienza” di Roma

Claudio GIARDULLO, funzionario della Polizia di Stato, Segretario generale Silp-Cgil

Nando DALLA CHIESA, Senatore (Margherita)

Nino GALLONI, economista

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