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novembre / dicembre/2002 - Interviste
Venti di guerra
Hanno sempre più sete le ''Grandi Sorelle'' del petrolio
di Belphagor

Il controllo delle fonti energetiche è al primo posto nello scenario internazionale, condizionando pesantemente rapporti e conflitti a livello strategico ed economico

Voglia di guerra, o, piuttosto, voglia di petrolio. Il petrolio ti dà la guerra, e la guerra ti dà il petrolio. Sembrerebbe una sorta di indovinello, o di enigma. Chi lo risolve vince tutto, la guerra (magari senza nemmeno bisogno di farla) e il petrolio (al minor prezzo possibile). Per non metterla troppo dura davanti alle diverse opinioni pubbliche, che naturalmente non sono chiamate a partecipare al “grande gioco”, e meno che mai a capirci qualcosa, è opportuno parlare di democrazia, di regimi cattivi e meno cattivi, di diritti delle genti, di scontri tra civiltà, praticamente di ciò che si vuole. Del resto, nessuno è obbligato a crederci.
Il Paese che possiede le maggiori riserve di petrolio è, in assoluto, l’Arabia Saudita: quasi 262 miliardi di barili (stando alle stime di gennaio 2002 del Oil and Gas Journal), con una produzione giornaliera di 8.700.000 barili, 5.440.000 dei quali destinati all’esportazione. Al secondo posto si colloca l’Irak, con riserve di 112 miliardi e 500 milioni di barili. Seguono Emirati Arabi Uniti (97 miliardi e 800 milioni), Kuwait (96 miliardi e 500 milioni), Iran (89 miliardi e 700 milioni). Complessivamente le riserve di greggio nel Medio Oriente (aggiungendo Qatar, Oman e Yemen) sfiorano i 683 miliardi di barili (si calcola che nel resto del mondo ve ne siano circa 270 miliardi), il che spiega a sufficienza l’importanza economica e strategica di quell’inquieta regione. E l’interesse manifestato in diversi modi dai paesi più industrializzati, in primo luogo dagli Stati Uniti, che attualmente importano 11 milioni di barili al giorno, un quantitativo destinato ad aumentare progressivamente, fino (secondo i calcoli del dipartimento dell’energia di Washington) a 17 milioni nel 2020. Detto questo, il petrolio serve a tutti, e, quindi, fa gola a tutti. Alla Francia come alla Germania, all’Italia come alla Gran Bretagna, alla Russia come alla Cina. E così via. Perciò, le discussioni che da vari mesi si prolungano nel Palazzo di Vetro dell’Onu, le trattative incrociate tra le cancellerie, le prese di posizione altalenanti tra il categorico e l’interlocutorio dei diversi governi, vertono in larga misura sull’Oro Nero, tanto più prezioso del biondo metallo dato che neppure l’intero prodotto delle mitiche miniere di Re Salomone riuscirebbe a far percorrere un solo metro a un’utilitaria. Per non parlare di un caccia bombardiere.

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Per l’Impero Americano il petrolio ha due aspetti: economico, e strategico. Il primo riguarda i consumi, che crescono di continuo, mentre cala la produzione interna di greggio. Il secondo è molto più complesso. Non si tratta solo di garantire il proprio fabbisogno, ma di controllare il settore petrolifero mondiale per garantire una supremazia che nessuno ormai apertamente contesta, ma che alcuni aspirano a ridimensionare. Naturalmente, a volte l’aspetto economico e quello strategico si intrecciano, ma a volte il secondo prevale sul primo, o comunque lo precede.
Gli Stati Uniti sono i primi importatori mondiali di petrolio, e da qui sembrerebbe nascere la loro attenzione per quelle regioni mediorientali che racchiudono il 65 per cento delle riserve mondiali. Però, i loro principali fornitori sono alcuni Paesi dell’America Latina (il Messico esporta nel suo grande vicino tanto petrolio quanto l’Arabia Saudita), e, in Africa, la Nigeria e l’Angola (15 per cento delle importazioni). Proprio per tenere d’occhio le rotte che li collegano con questi due Paesi, gli americani hanno deciso di allestire una base militare nell’isola di Sao Tomé, ex colonia portoghese divenuta indipendente. Nel Medio Oriente, Washington guarda soprattutto all’immediato futuro, prevedendo le mosse di potenziali avversari, influendo e intervenendo in manovre politico-economiche che dal Mar Caspio si estendono fino all’Asia centrale ex sovietica. Di qui le relazioni strette dagli uomini di Bush, sotto il mantello della guerra in Afghanistan, con l’Uzbekistan, il Tagikistan, il Kirgizistan, che hanno portato i GI a occupare, senza colpo ferire, le basi che furono dell’Armata Rossa.
L’ideologia dei governanti americani dalla fine della Seconda guerra mondiale ha avuto come punto fermo il controllo, diretto o indiretto, delle fonti di energia: per motivi di sicurezza, per sostenere lo sviluppo industriale, e per garantire i profitti delle Grandi Sorelle del petrolio, che costantemente hanno preteso di influenzare le scelte del Congresso e della Casa Bianca. Da oltre un anno, grazie ai legami pregressi (e anche presenti) dei petrolieri con il presidente Bush e con il suo vice Cheney, entrambi con un passato in quel settore, questo risultato appare pienamente raggiunto.
Per quanto riguarda il petrolio iracheno, le Grandi Sorelle a stelle e strisce, e stetson texano in testa, ambiscono ovviamente ad avere una fetta, presumibilmente grossa, della torta costituita da sue notevoli riserve (da dopo la Guerra del Golfo del 1991 gli Usa hanno importato dall’Irak 800.000 barili al giorno, acquistati però attraverso intermediari attivi nel programma “oil for food”), mentre agli strateghi di Washington non può far piacere che su quella cornucopia mettano le mani concorrenti europei, russi, e altri. I quali, mentre l’America faceva la voce grossa con Saddam Hussein, volavano a Baghdad a firmare cospicui contratti. E’ il caso della russa Lukoil per i giacimenti di West Kurna (20 miliardi di barili, produzione prevedibile di 1 milione di barili al giorno), della francese Total-Fina-Elf, per il grande giacimento di Majnoon, e, per giacimenti di minore entità, dell’italiana Agip e della spagnola Repsol. Secondo i risultati di un’indagine dell’ International Energy Agency, organismo intergovernativo con sede a Parigi, nel 2001 l’Irak aveva concluso la vendita dei diritti per lo sfruttamento di aree petrolifere contenenti 44 miliardi di barili, a società di varie nazioni. E fra loro non figura nessuna compagnia americana. Però, non va dimenticato che si parla di contratti “virtuali”, bloccati dall’embargo. Nel settembre scorso, Faisal Karagholi, che dirige l’ufficio londinese della coalizione di opposizione Congresso nazionale iracheno, e che, guarda caso, è ingegnere petrolifero, minacciava:”Rivedremo tutti gli accordi”. Quando ? In un dopo-Saddam, evidentemente. E Ahmed Chalabi, leader della stessa coalizione:”La nostra politica petrolifera sarà decisa da un governo eletto dal popolo iracheno”. Ma ha aggiunto, tanto per capirsi:”Le compagnie americane si aggiudicheranno una grossa parte del nostro petrolio”.

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Sarà un oleodotto pienamente funzionante nel 2005, ma già ora è una sfida che si inserisce nei nuovi (dalla fine della “guerra fredda”) rapporti fra Stati Uniti e Russia, che negli approvvigionamenti di petrolio hanno uno dei nodi più intricati. Il 18 settembre scorso, a Baku, capitale dell’Azerbaijan, centro petrolifero e porto sul Mar Caspio, si è svolta l’inaugurazione dei lavori per la realizzazione della pipeline che, attraverso la Georgia, porterà il petrolio azero al porto turco di Ceyhan, sul Mediterraneo. L’oleodotto sarà in grado di pompare un milione di barili di greggio al giorno, ma il risultato strategico si manifesta come il più importante: un by-passaggio della Russia, che ha frontiere comuni sia con l’Azerbaijan sia con la Georgia, e che vede indebolirsi ancora di più la dipendenza nei suoi confronti delle ex repubbliche “socialiste sovietiche” della regione.
In questo caso Washington ha dimostrato di avere occhio pronto e mano lunga, inserendosi nella storica area d’influenza di Mosca. Va tenuto conto che finora gli oleodotti in partenza dal Caspio passano per la Federazione Russa; uno dei più importanti attraversa la Cecenia, e proprio la Georgia è accusata, e pesantemente minacciata, dal Cremino per il suo più o meno tacito appoggio alla ribellione cecena. Ribellione alimentata fin dall’inizio della sua deriva islamica-wahaabita (tragica protagonista del maxi sequestro di fine ottobre nel teatro della Casa della Cultura) dall’Arabia Saudita, per restare in tema di petrolio.
Il 18 settembre, alla cerimonia d’inaugurazione, accanto ai presidenti dell’Azerbaijan, Geidar Aliev, della Georgia, Eduard Shevardnadze, e della Turchia, Ahmet Necdet Seizer, c’era, in qualità di nume tutelare giunto su quella sponda caucasica dalle lontane rive del Potomac, Spencer Abraham, ministro americano per l’Energia, che si è compiaciuto di definire il progetto “una delle più importanti imprese energetiche dal punto di vista dell’America, come anche per questa regione”. Geidar Aliev ha ringraziato l’ospite con esplicita franchezza: “Non ho mai dubitato che col sostegno degli Stati Uniti il progetto si sarebbe materializzato”. E Eduard Shevardnadze ha affermato che l’oleodotto è “il più grande risultato conseguito dalla Georgia a partire dalla dichiarazione d’indipendenza”. La pipeline, lunga 1.760 chilometri, costerà poco più di 3 miliardi di euro, e i lavori saranno condotti dalla British Petroleum, azionista della Baku-Ceyhan al 32,6 per cento. Il 25 per cento spetta alla compagnia statale azera Socar, l’8,9 per cento all’americana Unocal, il 6,53 alla turca Tpao, l’8,71 alla norvegese Statoil, e il 5 per cento a testa alla francese Total-Fina-Elf e alla nostra Eni. In realtà francesi e italiani non sono particolarmente interessati al petrolio azero, ma entrambi operano nella zona di Kashagan, in Kazakhstan, sull’altra sponda del Mar Caspio, e il nuovo oleodotto risolverà ottimamente i difficili problemi di trasporto del greggio estratto da quel bacino.
Comprensibilmente, per Vladimir Putin e i suoi collaboratori, che nel Caucaso e dintorni già si trovano in stato di perpetua difficoltà, l’iniziativa equivale a una provocazione appena mascherata. E le loro reazioni sono state diplomaticamente risentite. “Siamo pronti a cooperare – ha dichiarato Igor Ivanov, ministro deli Esteri – Ma non staremo a guardare davanti ai tentativi di estromettere la Russia da regioni in cui abbiamo interessi storici”. E il vice premier Victor Khristenko ha commentato con un ironico oroscopo: “E’ lunga la strada da percorrere fra la cerimonia di lancio del progetto e il suo completamento. Alla fine, la scelta sarà fatta sulla base di parametri economici”. Parole che lascerebbero prevedere altre trattative, ulteriori “do ut des” da condurre a livello di potenze.
Il fatto è che il settore petrolifero russo è fortemente preoccupato dalla situazione creatasi in seguito al contenzioso con l’Irak, e al contemporaneo dinamismo americano sul fronte del greggio. Da un lato Mosca cerca di avere accesso al greggio iracheno; dall’altro, un rilevante afflusso sul mercato di quel petrolio, con costi di estrazione di 3 dollari il barile e facile accesso al mare, renderebbe assolutamente non competitivo quello siberiano: 9 dollari il barile per estrarlo, e altissimi costi di trasporto. D’altra parte, per quanto dica e faccia, la Russia non può nemmeno sognare di rivenire ai rapporti di forza dei tempi dell’Urss, e sicuramente sul piano dell’accaparramento delle fonti energetiche ha ancora molto da imparare dagli “amici” americani.

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Tornando agli Stati Uniti, i veri protagonisti del “grande gioco”, Washington si trova a dover condurre operazioni che abbiano effetti plurimi, e non sempre facilmente conciliabili. Sorvegliare le mosse dei più riottosi tra i partners europei, evitando contrasti troppo appariscenti. Appagare le voglie neocapitaliste della Russia, senza concedere nulla di molto sostanzioso. Non rimettere in causa le nuove relazioni con Pechino, ma contenere l’ambizione della Cina di rafforzare il suo potenziale economico e militare, anche rendendo più difficili i suoi approvvigionamenti petroliferi: il fabbisogno cinese attualmente dipende per un terzo dalle importazioni, in gran parte dal Golfo Persico, ma nei prossimi anni questa quota è destinata a salire fino a quasi il 50 per cento. E gli americani, come si è visto, stanno diventando i supervisori, tra Medio Oriente e Mar Caspio, del 75 per cento delle riserve mondiali, senza contare l’Africa e l’America Latina. Inoltre, alla Casa Bianca si ritiene opportuno un ridimensionamento dell’Arabia Saudita, un alleato guardato con una certa circospezione a causa delle serpeggianti connivenze con il radicalismo islamico. La patria di Osama Bin Laden, e di 15 degli attentatori suicidi dell’11 settembre, piace sempre di meno agli americani, che diffidano fortemente del reggente del regno, il principe Abdallah. Una volta risolto, in un modo o nell’altro, l’affare iracheno, le cose potrebbero cambiare. Fra le ipotesi ventilate, ufficiosamente, da alcuni analisti, vi è quella di imporre riforme istituzionali che condizionino la successione di re Fahd, l’attuale monarca. E addirittura la creazione di un emirato indipendente, sotto protettorato Usa, nella provincia dell’Hasa, dove si trovano quasi tutti i giacimenti petroliferi sauditi. E, di ipotesi in ipotesi, si può davvero andare lontano, poiché l’Oro Nero, come sappiamo, è un consigliere esigente, veloce, e, per sua natura, ignaro di qualsiasi scrupolo.

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