Dal libro curato da Stefano Anastasia e Patrizio Gonnella (“Inchiesta sulle carceri italiane”) per l’Associazione Antigone, riportiamo ampi stralci del capitolo dedicato al personale che opera negli istituti di pena
Negli ultimi anni, per diverse ragioni, l’attenzione dell’opinione pubblica si è spesso rivolta verso il mondo del carcere, verso il dilatarsi dell’ambito dell’esecuzione penale. E quando alcuni inquietanti episodi hanno restituito l’immagine di una situazione premoderna delle carceri italiane, come i maltrattamenti al San Sebastiano di Sassari nel 2000, qualcuno ha finito con il chiedersi se i principali custodi di una situazione potenzialmente esplosiva, la Polizia Penitenziaria prima di tutto, fossero adeguati ai propri compiti.
Nel sistema penitenziario italiano importanti interventi, negli ultimi decenni, ne hanno sicuramente umanizzato la fisionomia generale, ma non sembra abbiano assicurato il pieno rispetto dei diritti fondamentali della persona detenuta, mentre è certo che è all’istituzione penitenziaria che spetta il compito di ridare concretezza all’art. 27 della Costituzione, il fine rieducativo della pena.
Questo obiettivo, e i suoi fallimenti, sono per molto legati a quanto il sistema di funzionamento dell’Amministrazione possa riuscire a sintonizzarsi con la mentalità e le motivazioni degli operatori, a dare loro il senso degli ordinamenti che sono chiamati ad applicare e il modo di renderli parte attiva nelle strategie di trasformazione. Non si tratta solo di un intervento di razionalizzazione, ma di verificare la rispondenza del sistema di formazione del personale al progetto di costruzione di modelli professionali adeguati a coniugare l’efficienza del servizio con il rispetto dei diritti fondamentali della persona detenuta. Un’azione attenta quindi ai limiti da porre al potere punitivo e insieme consapevole delle responsabilità, in termini di reinserimento sociale, che gravano sull’istituzione penitenziaria e sui suoi operatori.
Senza di ciò appare improbabile che il personale, segnatamente la Polizia Penitenziaria, arrivi autonomamente ad assumere comportamenti migliorativi della condizione dei detenuti, tenuto conto che per molti la legge coincide con l’ambito delle regole della famiglia, con la grammatica familiare di ciò che è giusto e di ciò che non è giusto, e che la tutela delle garanzie del detenuto non viene considerata elemento costitutivo del proprio ruolo professionale. All’interno del mondo penitenziario sono del resto in molti a considerare gli interventi riformatori introdotti per il carcere con le riforme del 1975 (la riforma penitenziaria) e del 1986 (la Gozzini), “...aspirazione astratta di un legislatore a cui sembra sfuggire la dura realtà del carcere”.
Il personale dell’Amministrazione penitenziaria fa riferimento a due comparti dello Stato: per quello amministrativo e tecnico è il Comparto ministeri mentre il Corpo di Polizia Penitenziaria è incluso nel Comparto della sicurezza. [...]
Il sistema formativo dell’Amministrazione penitenziaria viene definito dalla legge 395/90 e dal decreto legislativo 446 del 1992, che conferiscono all’Istituto superiore di studi penitenziari, i compiti della formazione e dell’aggiornamento per il personale direttivo, mentre l’Ufficio della formazione e aggiornamento del personale si occupa della Polizia Penitenziaria e di quelle che prima erano chiamate le carriere esecutive e di concetto.
La prima moderna scuola di formazione, istituita nel 1984 a Roma, in via Giulia, si occupava dei neoassunti del personale amministrativo, il futuro Comparto ministeri; per gli agenti di custodia c’erano le scuole di addestramento tecnico: Cairo Montenotte, Parma, Sulmona, Portici, Monastir, cui si sono poi aggiunte la sede di Verbania e di Roma in via di Brava. [...]
L’organizzazione della Polizia Penitenziaria viene compiutamente definita con la legge 395/90, con la quale, dallo scioglimento del Corpo degli Agenti di custodia, la si istituisce Corpo civile sotto la direzione del ministero di Giustizia, presso il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, e le si attribuiscono le disposizioni di cui alla legge 121/81, che ha istituito il nuovo ordinamento della Pubblica sicurezza e della Polizia di Stato, anch’essa a status civile. All’interno viene compreso il personale femminile proveniente dal disciolto Corpo delle Vigilatrici carcerarie. Con il decreto legislativo 146/2000 viene inoltre introdotta anche per la Polizia Penitenziaria la carriera direttiva e dirigenziale, con concorsi e progressioni di carriera per lo più mutuati da quelli della Polizia di Stato: l’area della sicurezza prevede ora al livello più alto i commissari. [...]
Con la legge 395/90 vengono stabiliti i nuovi compiti della Polizia Penitenziaria, che riguardano, oltre l’ordine interno degli istituti e la loro sicurezza, il controllo e il sostegno dei detenuti nell’ambito delle strutture penitenziarie; inoltre incarichi di Polizia giudiziaria, contemplati dall’articolo 55 del Codice di procedura penale, come l’esecuzione di provvedimenti restrittivi, la conservazione dell’ordine negli istituti di pena, il servizio di traduzione e piantonamento di detenuti ed internati. Anche se il sistema di organizzazione rimane di tipo militare, è in questa legge che sono presenti i presupposti per un ruolo più dinamico della Polizia Penitenziaria e l’identità di Corpo civile le ha inoltre consentito la possibilità di essere rappresentata dai sindacati, che in una fase di rinnovi contrattuali nei quali la categoria veniva assiduamente corteggiata da entrambi gli schieramenti politici del nostro Paese, le ha potuto consentire insperate conquiste. Nel merito, l’articolo 5 della legge 395/90, nel sancire la smilitarizzazione del Corpo, gli attribuisce compiti che superano l’ambito meramente custodiale, per renderlo esplicitamente partecipe del percorso trattamentale dei detenuti. Si trattava di una disposizione innovativa nei confronti di un personale fino ad allora trascurato e male utilizzato, un indirizzo che andava tra l’altro a saldarsi con l’impianto della riforma del 1975 e con quello della stessa legge Gozzini. C’è da dire che a tutt’oggi non sembra ne sia stata del tutto colta la portata, quella di una dimensione di lavoro diversa, che avrebbe potuto valorizzare la dimensione sociale di questo personale, conferendogli maggior peso ed autorevolezza. [...]
I contenuti degli esami, a tutti i livelli - elementi di diritto penale, processuale e penitenziario - sono ripresi nella parte teorica dei corsi, nella quale si aggiungono le tematiche della comunicazione e della gestione del personale. È quanto viene previsto, ad esempio, nella formazione per sovrintendenti: sono presenti metodologie prevalentemente “attive”, le simulate, strutturate per dare un indirizzo sui modi di affrontare le principali situazioni sul lavoro e nella fase on the job si è generalmente affidati alla guida di un trainer, un collega esperto.
La concentrazione in tre mesi dei corsi di formazione per allievi agenti, previsti di durata annuale, ne ha obiettivamente distorto l’impianto, a beneficio di una sostanziosa percentuale di addestramento tecnico. Così l’ultimo corso, per quasi mille agenti in prova, durato circa trecento ore, più una fase di accoglienza e un esame finale, che si è svolto in parte presso le Scuole di Roma, Verbania, Sulmona, in parte on the job, con lezioni e addestramento all’uso di armi da fuoco e tecniche di difesa e di neutralizzazione “senza nocumento” di eventuali avversari.
Anche l’ultimo corso per viceispettori - 18 mesi per circa milletrecento ore - a carattere residenziale, presso le Scuole di Parma e Roma, e on the job, ha ripreso le materie base di diritto penale e penitenziario, la comunicazione, e approfondito l’analisi del sistema organizzativo dell’Amministrazione penitenziaria.
Esaminando i programmi dei corsi, a stupire è la distribuzione interna con cui certi temi acquistano rilevanza rispetto ad altri: per gli allievi agenti, di contro alle 53 ore dedicate alle tecniche di addestramento alle armi, ne sono previste quattro per quanto attiene al “rispetto della dignità dei diritti della persona”; una formulazione che tra l’altro non contiene ancora il riconoscimento della specificità dei “diritti umani”.
Per i viceispettori, questi temi, riconosciuti nell’accezione “Tutela internazionale dei diritti dell’uomo e del detenuto”, occupano quindici ore (nelle quali sono comunque inserite anche le regole penitenziarie di altri paesi e la normativa sull’estradizione), circa un centesimo del pacchetto ore complessivo. Per l’addestramento alle armi la percentuale di ore è di circa dieci volte tanto; ma spesso accade - riferisce chi ha frequentato i corsi - che per assenza dei docenti o altro, le ore riguardanti le lezioni teoriche vengano sostituite da reiterati periodi di addestramento, di marce, di “tiri bianchi” con le armi, ritenuti sempre molto utili dai superiori, anche se si tratta di un Corpo che sul lavoro, armi non ne porta.
Molta attenzione è dedicata anche agli argomenti concernenti la “deontologia del ruolo”. Per gli allievi viceispettori, le venti ore assegnate in programma per la deontologia, concepita come senso di appartenenza al Corpo, sono completate con quaranta ore per la “Scuola comando e l’addestramento formale”, che riguarda le “modalità di impartire un ordine” (ordine di avvertimento, esecuzione, allineamento, cambiamento di fianco, di fronte, di marcia, ecc.), oltre alle modalità di impartirlo senza armi e con le armi, con o senza sciabola (sic!), i reparti nei servizi d’onore, il saluto con copricapo e senza.
Fino al 1993-94, quando gli accessi alla carriera vennero formalizzati e sottoposti a controllo con i concorsi, i flussi di mobilità erano sottratti a criteri obiettivi di razionalizzazione, per lo più determinati da spinte clientelari, così che le destinazioni erano oggetto di scambi privilegiati che hanno consentito di assecondare il richiamo verso le zone di appartenenza tanto da determinare una distribuzione disomogenea della Polizia nel territorio italiano. In qualche istituto può accadere ci siano più agenti che detenuti. Nell’Italia settentrionale è generalmente un agente scelto a ricoprire il ruolo di capoposto (responsabile di un servizio interno o esterno alle mura), perché di solito lì il personale è più giovane sia di carriera che di età. Al Sud - e il Sud comincia dal Lazio - gli ispettori sono mediamente più anziani. Dopo il concorso pubblico del 1994 - da cui sono usciti più di milleduecento agenti - il personale è stato inviato soprattutto al Nord, maggiormente carente negli organici. Sarebbe quindi opportuno determinare una maggiore stabilità, organizzando la formazione su base regionale e vincolando il personale ad un congruo periodo di permanenza nella sede.
La richiesta reiterata e generalmente condivisa, anche dai direttori, è comunque quella dell’aumento dell’organico. Che in realtà, in Italia è tra i più alti rispetto agli standard europei e a quelli degli Usa; ciò dipende da una diversa logistica e da una diversa organizzazione della vita negli istituti di altri paesi, dove il numero degli agenti è più basso per la minore presenza di barriere all’interno del carcere, dove maggiore è l’uso di controlli elettronici e i detenuti possono circolare senza custodia entro aree ampie.
Gli operatori di area pedagogica comprendono la figura dell’educatore e dello psicologo. La figura dell’educatore nasce dalla riforma carceraria del 1975, che introduce in ambito penitenziario gli impiegati di concetto, con un ruolo in parte ispirato - ne serba traccia il termine - a quella che era la figura dell’educatore per i minori. Il suo compito consiste nel coordinare e promuovere le attività del trattamento di detenuti e internati sottoposti ad osservazione, quelle di lavoro scolastico, culturali, ricreative, religiose, mantenendone le cartelle personali, con i dati biografici, giudiziari, sanitari, ricompense e sanzioni disciplinari, istanze e informazioni sul comportamento.
L’ammissione (titolo di studio il diploma di scuola media superiore) prevedeva prima un concorso (una prova attitudinale di psicopedagogia, due scritti: pedagogia e ordinamento penitenziario) un orale (materie di diritto amministrativo, costituzionale, criminologia). Seguiva il corso di formazione con l’approfondimento degli stessi temi. [...]
Ci sono però segnali che esprimono il rischio di svuotamento della funzione professionale dell’educatore, anche a causa della carenza numerica e quindi della mancanza di turnover, dal momento che le assunzioni sono bloccate e il numero complessivo è fermo circa a seicento unità.
Gli psicologi che lavorano in carcere sono esperti chiamati a svolgere le loro funzioni sia all’interno degli istituti, nell’osservazione e nelle équipe trattamentali, sia nei Centri di servizio sociale per adulti. Sono laureati in psicologia e iscritti all’albo. Pochi sono invece i criminologi, laureati in medicina e successivamente specializzati. Su domanda, si è ammessi ad un colloquio che verte sul ruolo del trattamento e dell’osservazione e sull’ordinamento penitenziario; chi lo supera entra in un elenco regionale, e da lì è inserito negli istituti.
Lavorano a parcella in convenzioni a termine, che firmano ogni anno per conferma. Non sono quindi dipendenti del ministero della Giustizia il che, se è positivo in quanto si evita di configurare un rapporto organico tra percorso penale e percorso clinico, comporta che, come liberi professionisti, non siano sottoposti a verifiche sul campo né ad alcuna formazione specifica. Sono chiamati a volte nei corsi di formazione per agenti, per comunicazioni su particolari tematiche.
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