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ottobre/2002 - Interviste
Riflessioni
Dobbiamo avere paura del regime?
di Alberto Matricardo

Crescono le polemiche sulla vera natura di un governo democratico. In Italia stiamo vivendo un’esperienza anomala e particolare. Ecco perché

Autorevoli osservatori hanno posto la questione, se ne discute sui giornali anche fuori del Paese, crescono le polemiche: in Italia siamo oggi all’instaurazione di un regime?
C’è chi a questa domanda alza le spalle o si indigna: non è forse vero che in Italia ci sono ancora libere elezioni, che c’è una stampa di opposizione, che si fanno scioperi, manifestazioni, e girotondi, anche se a volte, come nel caso dei no-global, si paga per manifestare le proprie idee un prezzo non proprio compatibile con la democrazia (lo attesta la minuziosa inchiesta di Amnesty International, durata quasi un anno e attuata con centinaia di testimonianze di manifestanti a Genova in occasione del G8 raccolte in una quindicina di paesi)? Da noi, ancora, non ci sono squadracce di camicie nere o brune, e anche a quelle verdi della Lega è stata messa la sordina. E poi l’Italia è parte della Unione Europea, che non potrebbe accettare nel suo seno la presenza di un paese in cui la democrazia fosse negata.
Eppure il nuovo assetto politico uscito dalle elezioni del 2001 non cessa di suscitare inquietudini, in Italia e all’estero. Il timore più o meno esplicitato è che una malattia si sia piazzata nell’organismo della democrazia italiana.
Può darsi che la esagerazione del “rischio Berlusconi” faccia parte di una sottile strategia delle forze della sinistra che mirano, spargendo irragionevoli timori, a delegittimare il nuovo governo. Può darsi che tutto dipenda dalla difficoltà di una parte dell’opinione pubblica e delle forze politiche ad accettare la nuova realtà del “berlusconismo”, emerso dalla crisi del vecchio assetto imperniato per quasi cinquant’anni sulla Dc, dalle resistenze di settori sociali minacciati dalla riforma liberista della nostra società, ecc. In ogni caso, se c’è un timore, si deve cercare di individuarne le cause. Il timore di essere malati, anche se immaginarii, è già di per sé una sorta di malattia. L’antidoto ai timori irragionevoli è di ragionarci sopra.
In primo luogo, allora, bisogna tentare di definire il concetto che indica la presunta minaccia. Che cos’è un “regime”? O meglio, che cosa si intende indicare con questo termine, che di per sé sarebbe neutro (viene dal latino regere che vuol dire semplicemente governare), ma che, come talvolta accade a certe parole, si è caricato storicamente di un senso negativo?
Sulla parola si sono condensate suggestioni negative poiché nel linguaggio corrente essa è stata riferita in prevalenza al periodo più infausto e catastrofico della storia unitaria italiana, quello del fascismo. Ma oggi quando si parla di “rischio di regime” non ci si riferisce alla possibilità di un ritorno del fascismo storico. Si deve intendere, in senso lato, come indicazione del rischio dell’instaurazione di un assetto politico in qualche modo minaccioso per la democrazia, autoritario e liberticida.
La moderna teoria politica è disincantata, inclina all’understatement, ad una sorta di discreto pessimismo sulla verità, la natura umana e la società. Tende a identificare quella che chiamiamo normalmente “democrazia” con una sintesi di interessi ed attivismi contrastanti e di passività politiche e sociali: attivismo di minoranze, passività di maggioranze. Le minoranze, o élites, si confrontano e si scontrano davanti alla massa, che si fa influenzare di volta in volta più da chi più efficacemente sa coinvolgerla sulle sue posizioni.
La proliferazione dei gruppi o élites, la differenziazione e la contrapposizione tra loro, l’equilibrio istituzionale di pesi e contrappesi, dei poteri e delle influenze, si ritiene che possano meglio di ogni altra cosa garantire gli spazi di libertà. Il pericolo dello strapotere delle élites e delle corporazioni dovrebbe essere insomma scongiurato dalla loro reciproca neutralizzazione, più che dall’attivismo della massa.
Nel sistema liberale si sceglie sempre o quasi non il meglio, ma il “meno peggio”. Si tratta di una “mediocrità” (nel senso letterale, di prodotto di una media) che risulta dalla sintesi delle discordanze dei poteri e dei punti di vista, ed è mutuata dal concetto economico della dialettica del mercato, come lo intendono Adam Smith e l’economia classica. Per questa concezione della democrazia il pluralismo politico, la molteplicità dei centri di potere e le differenze tra di essi sono dunque essenziali.
Viceversa, il “regime” tende per sua natura alla unificazione e alla semplificazione. Non è superamento della concezione liberale, ma la sua degenerazione patologica, in quanto in esso non funziona più la logica della libertà come spazio mantenuto grazie alla neutralizzazione reciproca delle élites: è il trionfo di un gruppo di potere sugli altri. Si impone in un paese moderno quando un popolo per qualche ragione, decide che per lui la realtà è diventata troppo complicata. Allora va bene un capo, un modello sociale ideale semplice (per esempio per il fascismo la caserma come comunità perfetta), l’ottimismo smagliante, lo spirito sbrigativo e l’insofferenza per le complicazioni della “politica”. Va bene il controllo del sistema di informazione, si ha la adesione popolare plebiscitaria.
Il primo “regime” della storia europea moderna fu quello napoleonico. Nacque dalla crisi profonda della spinta rivoluzionaria del 1789 che aveva raggiunto il suo culmine nella dittatura giacobina e si era impantanata nel fango del governo del Direttorio. L’anima della rivoluzione era stata il giacobinismo. Una volta mandato al patibolo Robespierre e con lui gli ideali della rivoluzione apparve ben presto chiaro che mantenere la nuova società emersa dalla rivoluzione, senza ideali o qualcosa che li surrogasse, non era possibile.
La società francese aveva bisogno di una nuovo riferimento forte, dopo che quello creato dall’ideale della liberté egalitè fraternité si era dissolto. Una alternativa al potere coagulante di questo fu la potenza militare della nuova repubblica, di cui il giovane generale Bonaparte era un importante, anche se non l’unico, simbolo. Napoleone fu un abile intrallazzatore negli ambienti corrotti del governo del Direttorio, come espressione dell’armata vittoriosa, non dovette fare quasi altro che raccogliere il potere rotolato ai suoi piedi, offrendo al paese disorientato una identità imperialista e militarista, e se stesso come uomo forte a garantirla, al posto di quella rivoluzionaria in disfacimento. Come osserva Jacob Burkhardt, “quando gli uomini cessano di credere negli ideali spesso accade che credano nei salvatori”. La forza del regime napoleonico risedette sempre, fin che si mantenne, nella vittoria militare.
Sempre, si può dire, è in momenti di forte discontinuità politica ed ideale che si affermano i regimi personali autoritari con base di massa. È il caso del regime di Napoleone III nella Francia del dopo 1848, di quello mussoliniano, di quello staliniano o franchista, e, naturalmente, di quello hitleriano. Caratteristica più evidentemente rilevabile del regime fascista fu la preminenza del capo carismatico, il Duce. Hitler fu un classico demagogo, che si impadronì di una Germania, quella della repubblica di Weimar, scioccata dalla sconfitta militare e minata nelle sue fondamenta dall’iperinflazione.
E l’Italia degli anni Novanta? Vive, come si sa, la dissoluzione del potere democristiano e della sua ultima propaggine craxiana nel quadro della fine della guerra fredda, sotto i colpi degli scandali che vengono a galla grazie a Mani pulite, ma soprattutto sotto il peso dell’enorme debito pubblico che minaccia di portare il Paese alla bancarotta.
Un po’ come era accaduto alla fine della guerra, quando i settori moderati e di destra del Paese, prima identificatisi con il fascismo spazzato via dalla sconfitta bellica, erano rimasti d’un tratto praticamente senza rappresentanza politica, anche ora il crollo della Dc lascia il Paese senza una espressione politica moderata conservatrice in grado di coagulare uno schieramento maggioritario. Ma allora, nell’immediato dopoguerra, a costituire il punto di riferimento di questi settori fu la Chiesa, con le sue strutture, come l’Associazione Cattolica, le organizzazioni di massa, le diocesi e le parrocchie. In pochi mesi essa fu in grado di offrire al Paese una nuova classe dirigente, estratta – per così dire – dal suo seno. Era, tra l’altro, una specie di rivincita del cattolicesimo nei confronti dell’Italia liberale, un ulteriore rafforzamento della posizione di influenza, e anche di privilegio, in cui peraltro l’aveva già posta il fascismo con il Concordato.
Il potere democristiano fu di fatto una sorta di “regime blando”, mantenuto a lungo da una classe dirigente che favorì o consentì la ricostruzione e la modernizzazione del Paese, ma si accanì nella repressione di piazza negli anni Cinquanta (i morti in piazza in questa stagione di lotte politiche e sociali furono molte decine). Aprì a timide riforme con il centro sinistra, ma ricevette un colpo gravissimo dal ’68. Tentò con Moro di adeguarsi al nuovo, associando il Partito Comunista alle responsabilità di governo, ma questo progetto – come si sa – fu bloccato in via Fani. Dopodiché il potere democristiano si può dire che sia sopravvissuto a se stesso, sostenuto dal puntello del craxismo, per più di un altro decennio.
Il collante del partito democristiano era stata la religione, il punto di riferimento la gerarchia cattolica, pur nella necessaria distinzione tra religione e politica. Non c’era stato bisogno “dell’uomo forte”, anzi, la politica carismatica, il culto della personalità, propri del fascismo, erano forse l’aspetto più indigesto per la sensibilità cattolica. La quale non disdegna regimi autoritari, quali furono ad esempio quelli di Franco in Spagna, di Salazar in Portogallo, di Dollfuss in Austria prima dell’Anschluss di Hitler, ma male tollera – ovviamente, data la sua ispirazione – la retorica della forza e del capo.
È nella dissoluzione del partito e della classe dirigente democristiana, nel deserto quasi totale della rappresentanza politica dei ceti moderati e conservatori, che avviene la “discesa in campo” di Berlusconi. Per quanto egli fosse stato un sostenitore del Caf – ma del resto anche la Chiesa aveva in maggioranza sostenuto il fascismo – anzi, più ancora, un beneficiario - giacché la sua fortuna nel mondo delle telecomunicazioni non sarebbe stata possibile senza l’appoggio diretto di Craxi - egli riuscì per diverso tempo a tenersi fuori o a essere al massimo solo sfiorato dagli scandali e dai processi, Loggia P2 compresa. Non aveva diocesi e parrocchie, ma televisioni, e una grande struttura aziendale. E sarà l’azienda il cuore non solo organizzativo, ma anche ideologico della iniziativa politica berlusconiana.
Alla dissoluzione della Dc corrispondeva la crisi profonda del Partito Comunista. Una crisi diversa, più lenta e meno eclatante, ma non per questo meno grave di quella della Dc. Questo partito sarebbe uscito sostanzialmente indenne dalla bufera giudiziaria, ma in ogni caso segnato in profondità dalla fine dell’esperienza del socialismo reale.
Berlusconi si presenta come un outsider della politica, e anzi la sua enfasi sulla cultura e mentalità aziendale ha accenti antipolitici. Il suo anticomunismo non è solo un espediente retorico per captare il consenso di settori dell’opinione pubblica rimasti ancora ai tempi della guerra fredda dopo che essa è da lungo tempo finita. Egli intende per “comunismo” come l’insieme di tutte le cose che devono essere spazzate via: statalismo, inefficienza burocratica, le pastoie create dai sindacati, le complicazioni della politica. Insomma tutto il “vecchio”. I suoi valori sono quelli del self made man, dell’individualismo economico e sociale. Il rispetto delle regole comuni, per lui, non è, ideologicamente, qualcosa di prioritario. Non è neanche veramente un bene, perché - si sa – “solo gli ipocriti fanno del rispetto delle regole comuni un puntiglio”. È semmai un prezzo da pagare, quando non se ne può fare a meno, ad una socialità percepita comunque come limitazione e impaccio per l’individuo. La depenalizzazione del reato di falso in bilancio, per esempio, decisa tra i primi atti del suo governo, bene esprime la sua concezione del mondo, ed ha, oltre che un valore pratico, sul piano giudiziario, anche il senso di un forte messaggio ideologico.
Berlusconi si fa portatore di una concezione semplificata della società e delle sue esigenze (riassunta, come è noto, nelle tre I: impresa - internet - inglese) che risponde ai bisogni di rassicurazione e di ricostruzione di identità proprie di settori moderati e conservatori rimasti orfani della Dc. Nei suoi discorsi vi sono accenti di forte e spregiudicata impronta demagogica. Grazie soprattutto alle sue reti televisive, conduce una battaglia per quella che un tempo si sarebbe chiamata “l’egemonia culturale sulle masse”. Crea, sul piano della formazione della mentalità, il terreno adatto al suo successo politico, perché sa rispondere alle esigenze di “alleggerimento” morale e di evasione di una società disorientata dagli effetti della globalizzazione, dalla perdita di influenza sociale e culturale della Chiesa e dei suoi valori, dalla fine nel mondo bipolare, dopo la caduta del Muro di Berlino. Ma anche disgustata dalla corruzione o più semplicemente dai pasticci della classe politica e abbandonata a sé stessa dall’afasia degli intellettuali. Questi ultimi hanno da tempo rinunciato a quel ruolo che Emile Durkheim, uno dei padri della sociologia moderna, così riassumeva: essere degli educatori, dei consiglieri, aiutare i contemporanei a riconoscersi nelle loro idee.
Nei momenti di crisi le nazioni si rivolgono in genere al loro passato, alla loro storia. Così, ad esempio, l’Inghilterra e la Francia hanno superato il loro trauma postcoloniale, o la Spagna si è lasciata positivamente alle spalle il franchismo. L’Italia questa storia plurisecolare, come stato unitario, non ce l’ha. Ha invece un pesantissimo retaggio antistatale che si annida nella subcultura mafiosa e clientelare del Sud e nel localismo virulento, espresso soprattutto dalla Lega, nel Nord. Per questo, caduti gli ideali, è più esposta di altri paesi al rischio di cedere alle tentazioni delle scorciatoie offerte dal “salvatore” di turno.
Poiché la spregiudicatezza con cui l’uomo ha conquistato prima il suo impero economico, poi il primato politico non è stata senza conseguenze quanto alla violazione delle regole ancora vigenti, egli, in questo sistema ancora in gran parte plasmato ai tempi della prima repubblica, è oggettivamente un corpo estraneo. Di fatto si trova in un alternativa radicale, come spesso accade agli outsider, agli homines novi di tutti i tempi. O cambia il sistema in modo da renderlo compatibile con lui, o questo prima o poi lo espellerà.
La logica che muove Berlusconi, per quanto duttile, è perciò oggettivamente eversiva. Per difendersi dalle minacce che incombono su di lui a causa del suo passato egli deve attaccare, cambiare profondamente le regole. La sua azione non può limitarsi al governo, ma deve investire anche, e nel senso più profondo, la natura istituzionale dell’Italia. Il fine ultimo obbligato di Berlusconi non può che essere una repubblica presidenziale imperniata sulla sua persona, a base plebiscitaria, e dunque nella sua essenza autoritaria. Il parallelo storico meno lontano a cui si può ricorrere è forse quello del regime del generale De Gaulle in Francia, dopo la fine della guerra d’Algeria. Ma De Gaulle era ben altro personaggio, sul piano della sua storia personale e della sua concezione politica. Da questo punto di vista la differenza è abissale. Per quanto sia stata importante, per Berlusconi – mi rifiuto di chiamarlo “il Cavaliere”, anche a costo di ripetere il suo nome troppe volte appesantendo lo stile - la (seconda) conquista del governo, non è ancora questo il passaggio risolutivo per lui, nel senso che non consolida definitivamente il suo potere. Non possiamo dire, perciò di essere oggi già in una situazione di regime, ma in un processo politico che potrebbe portare alla sua instaurazione.
Ci sono tuttavia ragioni abbastanza consistenti per dubitare che questo processo giunga mai al suo compimento e un “regime berlusconiano” si possa mai instaurare in Italia. In primo luogo per il carattere circoscritto, per quanto maggioritario, del successo di Berlusconi: metà del Paese non si riconosce nei suoi valori, nella sua spregiudicatezza, nel semplicismo della sua concezione politica. Egli avrebbe dovuto puntare a recuperare fette consistenti di elettorato e di consenso sociale attraverso la politica del governo, ma a distanza di più di un anno non pare che questa operazione sia in via di riuscita. Le “riforme” non partono, il quadro generale economico si aggrava. Il prezzo che Berlusconi sta pagando, sul piano della immagine, della credibilità interna ed internazionale, per garantirsi dai rischi di condanne penali è oggettivamente alto. In diversi paesi è diventato una sorta di modello negativo. Perfino scorrendo casualmente rubriche delle lettere di giornali stranieri, ho trovato riferimenti al pericolo di una possibile “Berlusconisierung” (“Berlusconizzazione”) della politica europea.
Il quadro generale in cui il “berlusconismo” è nato e cresciuto è quello degli anni Novanta. Sono gli anni del boom economico americano più lungo della storia, basato sul ruolo trainante della new economy e sullo sviluppo della “bolla speculativa” delle Borse. Ma già all’inizio degli stessi anni il Giappone, che era stato in precedenza il grande paese più dinamico del sistema, entrava in una fase di stagnazione che si prolunga ancora oggi. Dopo il 2000 i miracoli della new economy si sono di molto ridimensionati, la bolla speculativa che alimentava consumi alti negli Stati Uniti e quindi, indirettamente, anche da noi, è esplosa. La stagnazione si è allargata, colpendo la Germania e, via via, gli altri maggiori paesi industriali. Non è un quadro positivo per Berlusconi e per il suo governo. L’Italia, a causa della folle politica di spesa pubblica dell’ultimo decennio demo-craxiano, è un Paese che deve portare sulle spalle della sua economia un debito pubblico immenso.
La politica berlusconiana si può fare solo in un contesto di forte espansione economica. Proprio quello che manca. È qui, nell’economia, il vero banco di prova del potere di Berlusconi. Se egli riuscisse a risolvere il problema della bassa congiuntura economica in Italia, potendo mantenere le grandi promesse di riduzione delle tasse e di rilancio degli investimenti, allora probabilmente potrebbe consolidare il suo potere, eliminando i pericoli giudiziari che incombono sempre sulla sua testa. Il potere, quando è davvero forte, agisce anche “retroattivamente”, cancellando gli aspetti imbarazzanti delle sue origini: non c’è nulla di più cortigiano della memoria.
Una riforma istituzionale ritagliata su di lui gli aprirebbe la via verso la repubblica presidenziale e la “democrazia plebiscitaria”, e ciò sarebbe effettivamente il “regime”. Ma l’economia non è completamente nelle mani ormai di nessun governo al mondo, tanto meno del governo italiano. La ripresa viene pronosticata dagli analisti, da diverso tempo ormai, sempre “un po’ più avanti” nel tempo. Qualcuno tra gli esperti pronuncia a mezza bocca una parola che è la bestia nera degli economisti: depressione. Ad una situazione di depressione il programma di Berlusconi per l’economia sta come uno spettacolo pirotecnico sta ad un funerale.
Il liberismo, il laissez faire dello Stato nei confronti dei “salutari istinti” del mercato non bastano più, anzi sono decisamente controproducenti. La stessa smagliante ideologia berlusconiana imperniata sul produttivismo e sul culto dell’impresa rischia di apparire di colpo vecchia e sorpassata. Nel breve arco di anni seguito alla caduta “dell'altro sistema”, ad economia pianificata del socialismo reale, è parso che questo sistema, nella variante più radicale, cioè del capitalismo liberista, fosse la panacea per i problemi. La verità però è un’altra: non questo sistema ha vinto, ha solo perso l’altro.
Le contraddizioni di questo sistema hanno retto solo perché quelle dell’altro erano ancora più gravi, ma questo non vuol dire che non ci fossero e, alla lunga, esse stesse non siano profonde e gravi. Che sia così lo dimostra lo scenario mondiale che si sta delineando, purtroppo sempre più chiaramente, in questo inizio di millennio: stallo economico nei paesi industriali, divaricazione crescente tra popoli ricchi e poveri, inquinamento, terrorismo, prepotenze imperiali e, soprattutto guerre, anzi, uno stato endemico di guerra a bassa intensità, con esplosioni improvvise di conflitti regionali destabilizzanti.
In economia, quando si ha una situazione di stallo o di arretramento dei consumi privati, il ruolo dello Stato è quello teorizzato da Keynes, e praticato nel New Deal di Roosevelt: di intervento per promuovere la domanda pubblica di beni. Tutto il contrario di quanto predica Berlusconi, che rischia, perciò, di apparire presto sorpassato. Se vuole sopravvivere politicamente, l’uomo dovrà rinnovare profondamente la sua strategia e anche la sua immagine. E non è detto che ne sarà capace.
Ci sono altri aspetti, oltre quelli legati alla giustizia e all’economia che rischiano di logorare già da ora l’immagine - e l’immagine, si sa, è già potere – “dell’Imprenditore d’Italia”. Riguardano l’efficienza del governo: a quasi un anno e mezzo dall’insediamento, ben di rado si può dire che esso abbia portato avanti con efficacia la sua politica. L’impressione che si riceve, per quanto possibile distaccata ed obiettiva, è quella di un governo che privilegia la propaganda, che si muove con improvvisazione, più che sulle effettive e calibrate esigenze dei problemi, senza un chiaro disegno strategico per il Paese, all’interno e all’estero. Insomma è di una complessiva inadeguatezza culturale, prima che politica, a reggere un Paese complesso quale è oggi l’Italia. Questa valutazione, fatta quando ormai il governo Berlusconi ha avuto il tempo di farsi almeno un po’ conoscere, per quello che fa o non fa, potrebbe essere sempre più decisamente condivisa anche da settori industriali e finanziari che finora lo hanno più o meno caldamente appoggiato. I segni in questo senso non mancano.
In ogni caso il momento della grande semplificazione è finito, il nodo della realtà, che richiede non abilità pubblicitaria, ma idee ben calibrate e capacità di attuarle, si stringe. Difficilmente l’uomo potrà cavarsela con i suoi sorrisi smaglianti e le battute scherzose. Forse finalmente vedremo un Berlusconi che parla sul serio dei problemi reali. Ma allora non sarebbe più un “salvatore”, l’uomo adatto ad instaurare un “regime”.

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