La nuova leadership dell’ente radio-televisivo pubblico si muove tra polemiche di vario tipo, difficoltà di gestione e incertezze sulle scelte. Si parla molto di pluralismo, senza che si veda una concreta attuazione di questo principio basilare per una comunicazione corretta e valida
Via da Roma. Sembra essere questo il perno della strategia del presidente della Rai Antonio Baldassarre. Per i centri di produzione della Capitale, Baldassarre prevede un taglio del 25% entro il 2002, con ulteriori riduzioni negli anni successivi. A beneficio, assicura, dei centri periferici, a Nord (Milano e Torino) e a Sud (Napoli). Per il resto, il presidente dell’ente nazionale radio-televisivo riesuma un concetto di “moralizzazione” che andò per la maggiore, con effetti anche esilaranti, negli anni ’50-’60. “Ricevo molte lamentele, soprattutto sulla volgarità – ha dichiarato in un’intervista al Corriere della Sera dell’agosto scorso – Con tutti mi sono raccomandato di puntare più all’intelligenza delle persone e non ai bassi istinti. In tv ritengo sia importante anche come si vestono le donne. Ad esempio, le ballerine, il tipo di concezione delle donne che passa sullo schermo. La volgarità può dipendere anche dalla scelta di un costume di scena”. E ha aggiunto: “Io spesso mi rifugio nello sport, per disperazione”. Come le donne si vestono, ma anche come parlano, perché, dice Baldassarre, “in Italia sono diventate presentatrici donne che non sanno parlare in italiano, tranne forse tre parole”.
Sorvolando su questa inelegante battuta, inopportuna visto il ruolo di chi l’ha pronunciata, e di segno pesantemente sessista, il progetto di decentralizzazione della Rai ha raccolto l’entusiasta adesione del consigliere d’amministrazione Ettore Adalberto Albertoni (Lega), soprattutto in vista di un potenziamento della sede di Milano, del direttore di RaiDue Antonio Marano (Lega), e di alcuni governatori “nordisti” di area centro-destra. Tra le prime reazioni contrarie, quelle del sindaco di Roma, Veltroni (Ds), e del presidente della Regione Lazio, Storace (An), in questa occasione uniti, insieme al presidente della Provincia di Roma, Moffa (Fi), al di sopra degli opposti schieramenti politici. Anzi, il più tagliente è stato Storace dichiarando che “Baldassarre non sa di cosa parla. Roma è la capitale del cinema e della televisione, e così si rischia il taglio dell’occupazione”. Inoltre ha accusato il presidente della Rai di comportarsi “con metodo da gerarca”. Analogo, pur se maggiormente articolato, il parere del consigliere di minoranza Luigi Zanda, manifestato in un’intervista a L’Espresso: “Baldassarre non si considera il presidente. Si sente il capo e il padrone della Rai. Non vuole il dissenso. Rifiuta il confronto… Ora ha trasformato la razionalizzazione dei centri di produzione, questione assolutamente tecnica, in una lotta politica contro il romanocentrismo”.
“No, non è la Bbc, questa è la Rai, la Rai-Tv”, sentenziava, in anni ormai lontani, la sigla musicale di un famoso programma radiofonico di Arbore e Boncompagni. Certo, lo stile e il fair-play anglosassone non hanno mai fatta molta presa nella grande casa di Mamma Rai. Però, sembra lecito sospettare che l’autunno 2002 annunci tempi cupi: incertezza nella programmazione, decisioni che poco o nulla hanno a che fare con la professionalità, linee editoriali basate più sull’improvvisazione che su scelte culturalmente ragionate, una gestione di basso profilo manageriale, condizionata anche dal costante disaccordo tra Baldassarre e il direttore generale Saccà. E sarebbe vano attendersi che tutto ciò non si rifletta pesantemente nel prodotto del quale siamo e saremo tutti consumatori.
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Ma chi ha scritto quella legge? Nel giugno scorso, il ministero delle Comunicazioni aveva creato una Commissione di esperti, presieduta dal professore Guido Alpa, ordinario di Diritto civile all’Università La Sapienza di Roma, con il compito di consegnare “entro settembre una relazione che sarà utilizzata per la redazione del disegno di legge” di riforma del sistema radiotelevisivo. Il contributo degli esperti era stato giudicato “indispensabile”, al fine di “svolgere attività di elevato impegno e di alta professionalità per l’approfondimento delle problematiche relative al settore e l’elaborazione di proposte”. Poi, il ministro Gasparri, il 9 settembre, ha presentato con Consiglio dei Ministri il testo di un decreto legge che la Commissione non aveva nemmeno letto. “Non ho mai letto il testo della legge Gasparri – ha dichiarato il professore Alpa – e non è stato mai presentato alla nostra Commissione”. Il risultato più consistente, e più notato, del ddl sta – oltre nel vanificare la legislazione antitrust - nell’evitare alla Rete4 di Mediaset il trasferimento su satellite, un obbligo che avrebbe ridotto l’audience, e l’introito pubblicitario, di questo canale. Rimane (e probabilmente rimarrà) l’interrogativo su come e da chi sia stato redatto il testo della legge. In proposito, Emilio Fede, direttore del Tg4, ha dichiarato che già nell’estate, intrattenendosi con Silvio Berlusconi in Sardegna, aveva ricevuto segnali confortanti. E così è stato, per quella che va considerata solo una felice coincidenza. O, a voler essere maliziosi, una facile profezia.
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Pluralismo. Apparentemente, una parola-elastico, che ognuno può tirare dalla propria parte a suo piacimento. In realtà, un concetto che ha un significato preciso, o, almeno, dovrebbe averlo. Al pluralismo e all’imparzialità dell’informazione, negli ultimi mesi, si è richiamato più volte il Presidente della Repubblica, con effetti di scarso rilievo. Per quanto riguarda i Tg, nella nuova gestione della Rai lo spazio riservato alla voce dell’opposizione, secondo i rilevamenti forniti dall’Osservatorio di Pavia alla Commissione parlamentare di vigilanza, si è ridotto da un terzo (com’era durante i governi del centro-sinistra) a un quinto. “La Rai è sempre più la voce del governo – ha commentato Paolo Gentiloni, responsabile informazione della Margherita – Hanno violato la regola non scritta che riserva alla minoranza un terzo dello spazio. Regola che l’Ulivo invece aveva rispettato”. E Fabrizio Morri (Ds): “Questa situazione va affrontata da tutte le autorità preposte, poiché è in gioco il diritto di tutti di essere informati su ciò che fa l’opposizione politica e sociale che è tanta parte del Paese”. Per Pecoraro Scanio, leader dei Verdi, si deve rilevare “anche assenza di pluralismo tematico: sono ignorati i temi ambientali e della qualità della vita”. Mentre Giuseppe Giulietti, membro Ds della Commissione di vigilanza ha accomunato questo aspetto a quello del famigerato conflitto di interessi: “Questi dati confermano che la proprietà unica di Mediaset e Rai sta progressivamente cancellando il principio della parità di accesso. Berlusconi è il dominatore assoluto in Tv, e vuole chiudere le trasmissioni che non gli piacciono”. Da parte sua, il presidente Baldassarre, si riferisce proprio al “conflitto” per considerarsi non toccato dagli appelli di Carlo Azeglio Ciampi: “Io credo che il problema principale di tante esternazioni deriva dal fatto che il Presidente del Consiglio è anche proprietario di reti private, e quindi il Presidente della Repubblica si sente di svolgere una funzione di garanzia. Non credo che Ciampi si riferisse in particolare alla Rai. Noi ci stiamo battendo perché il pluralismo sia rispettato nel modo più corretto”. Amen.
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Enzo Biagi e Michele Santoro, due personaggi al centro delle polemiche che prendono di mira i vertici di viale Mazzini. Due programmi (“Il fatto” di Biagi, “Sciuscià” di Santoro) molto diversi tra loro, entrambi di grande successo. Ed entrambi messi da parte dai nuovi dirigenti della Rai. Come del resto si prevedeva, visti i ripetuti attacchi ai due da parte di vari esponenti della Casa delle libertà, e dello stesso leader di Forza Italia. Il motivo: troppo schierati, ovviamente dalla parte “sbagliata”. Beninteso, i responsabili dell’ente televisivo si sono richiamati a ragioni di carattere tecnico (riorganizzazione dei palinsesti, coperture pubblicitarie, ascolti), che non possono – e forse nemmeno vogliono – convincere nessuno. Dato che, ad esempio, una puntata di “Sciuscià” costa 180.000 Euro, e solo con le interruzioni pubblicitarie nel programma ne ricava 220.000, ai quali si aggiungono gli spot iniziali e finali. E “Il fatto” è stato sostituito da un mini-spettacolo di satira soft che, nonostante la bravura di Massimo Lopez e Tullio Solenghi, difficilmente riuscirà a raggiungerne il prestigio e gli ascolti. Si discute sulla qualità? Non sembra, se si continua a proclamare stima per le doti professionali degli interessati, e la ferma intenzione della Rai di non privarsene. Allora, dov’è il problema? Si ritorna al discorso sul pluralismo, che non può essere ridotto solo al calcolo dei minuti dati alla maggioranza e all’opposizione. In realtà è un problema di stile. La Rai (televisione e radio) potrebbe fare il suo mestiere senza essere pregiudizialmente obbligata a “dare” nulla né a questo né a quello schieramento politico. La comunicazione pubblica dovrebbe essere indipendente da tutte le pastoie e tutte le intrusioni, che siano di destra o di sinistra, elaborare liberamente un prodotto che sia professionalmente onesto, basato sulle persone e sulle cose come sono veramente, “senza guardare in faccia nessuno”. A questo, la diversità delle voci è essenziale. Altrimenti, senza rendercene conto, scivoleremo tutti nelle mani di un Grande Fratello che potrà anche di volta in volta cambiare faccia e colore, ma vorrà sempre decidere che cosa dobbiamo ascoltare, vedere, pensare.
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