Da tempo immemore, nei luoghi del potere, si conservano gelosamente troppi segreti. Nelle sue stanze continuano ad aggirarsi anime in pena e nei suoi armadi si conservano ancora gli scheletri di troppe vicende italiane
Avendo di recente affrontato su questo giornale (giugno 2002) il tema della “piazza”, dove agisce la folla, la gente comune, e avendo in quella occasione fatto cenno anche a quello che di solito è considerato il contraltare della piazza, il “palazzo”, credo di aver contratto un piccolo obbligo morale, che soddisferò trattando sommariamente di quest’ultimo.
Per “palazzo” si intende, nel linguaggio corrente, il luogo simbolico, o l’insieme dei luoghi in cui si esercita il potere. L’immagine stereotipata del “palazzo” che abbiamo è opposta a quella che idealmente attribuiamo alla piazza. Esuberante, arruffata, tumultuosa questa; quieto, ordinato il “palazzo”, principio e garante dell’ordine della società. Nei saloni, quasi sempre deserti del “palazzo” del potere, ci pare che debba dominare il silenzio, un’atmosfera quasi sacrale e vagamente esoterica, che suscita soggezione.
Immaginiamo di poter sentire sussurri, parole a bassa voce, dalle poche persone che passano in fretta nei corridoi, prima di rientrare nelle loro stanze, a riprendere le loro riunioni.
Ma il “palazzo” è, nello stereotipo, e nella realtà, anche il luogo delle congiure, delle trame, dei “veleni” che vengono fatti filtrare lentamente, e ammorbano l’aria. I suoi sotterranei, poi, sono sempre pieni di misteri. La eco di ciò che avviene all’interno del “palazzo”, a noi che ne stiamo fuori, trapela raramente, vaga, ovattata: nonostante tutte le democratizzazioni, il potere conserva ancora qualcosa della sua origine mitica. Anche oggi tende impercettibilmente a sottrarsi al controllo, a nascondere i suoi lati meno edificanti, ad allargare insomma il solco tra sé e la piazza. Perché la sua tendenza naturale - sempre ed in ogni luogo - sarebbe di essere senza limiti, immune da controlli e sanzioni.
Per comprendere ciò che effettivamente accade nel “palazzo” del potere, in certe situazioni bisogna spesso affidarsi a piccoli segni, apparentemente insignificanti. Negli anni della guerra fredda, per esempio, i “kremlinologi” - gli studiosi del potere sovietico -- ci avevano abituato a ricavare da un ordine di citazione sulla stampa della presenza di autorità in una occasione ufficiale il disegno delle effettive gerarchie del potere all’interno del “politbjuro” del partito. Un nome passato dopo altri nella cronaca di una cerimonia ufficiale, per esempio, voleva dire che colui che lo portava aveva subito un declassamento. Certo non in tutti i paesi il “palazzo” è così opaco. Il potere assoluto nell’Urss era attribuito al partito in considerazione del compito storico di emancipazione dell’umanità che si riteneva dovesse svolgere.
Ma anche negli Stati Uniti, quanto a concentrazione di potere, non si scherza. Se si vanno a controllare gli organigrammi dei Consigli di Amministrazione delle principali società americane si potrà constatare quanto ristretta sia anche lì l’èlite che conta.
Ai tempi delle monarchie assolute il re governava “come un padre” e rispondeva solo a Dio e alla sua coscienza. Si pensava che il popolo non fosse in grado di autogovernarsi. L’illuminismo poi ha lanciato una sfida della cui audacia forse nemmeno oggi ci rendiamo conto completamente: fare del popolo il sovrano vuol dire trasformare anche l’ultimo scalzacani plebeo in un re.
Da quando si è proclamata la sovranità popolare il “palazzo” è teoricamente di tutti noi. Questa appartenenza è marcata simbolicamente nel nostro Paese dal fatto che il palazzo del Quirinale, ove risiede il Capo dello Stato, almeno una volta all’anno è aperto a tutti i cittadini. I quali, possono almeno per una volta entrare in quella che dovrebbero considerare la loro casa. Ma basta una visita al “palazzo” in un anno per rassicurarci circa la trasparenza del potere? Siamo sicuri che, nonostante le simboliche aperture, non ci siano più da qualche parte, fuori da qualsiasi itinerario di visita, misteri innominabili, come nella migliore tradizione gotica?
No, non ne siamo sicuri. Da poco tempo è morto Pietro Valpreda, che può essere considerato una sorta di Conte di Montecristo della nostra Repubblica. In occasione della condanna, dopo trent’anni, di tre neofascisti per la strage di piazza Fontana - la “madre di tutte le stragi” in Italia - della quale fu a lungo ingiustamente imputato, Valpreda disse che giustizia era fatta a metà, poiché erano stati condannati gli esecutori, ma non ancora individuati i mandanti.
Il “palazzo”, anche nell’età delle elezioni democratiche, conserva quasi sempre gelosamente i suoi segreti. Come nello stereotipo medievale, non cessano di aggirarsi nelle sue stanze fantasmi di anime in pena, i suoi armadi conservano ancora cospicue quantità di scheletri.
Per quanto laicizzato, ed imbrigliato dalle regole democratiche, il potere conserva qualcosa di inquietante. È insito nella sua natura: facilmente cade nell’eccesso, che è diverso da quello in cui facilmente può cadere il suo contraltare, la piazza. L’eccesso di potere è l’abuso, che si attua nella violazione di quelle regole che il potere stesso dovrebbe fare rispettare e alle quali deve la sua legittimità. Nell’eccesso il potere, da promotore e garante di ordine diventa causa, la più grande e pericolosa, di disordine. In diversi momenti della lunga storia nel nostro Paese, e altrove, l’abuso di potere si è percepito con grande chiarezza.
Teoricamente il sistema democratico ha i mezzi per opporsi.
Se l’abuso di potere è aperto e plateale - cosa, come abbiamo detto, piuttosto difficile - il sistema democratico ha tutti i mezzi per neutralizzarlo e punirlo. Non c’è teoricamente un potere sottratto cioè alla responsabilità e al controllo, tutto e tutti sono sottomessi alla legge, alla limitazione esercitata da altri poteri. Ma nella pratica?
Non è forse vero che, solo per citare l’America, non si sa ancora chi abbia fatto fuori Kennedy, il presidente, chi siano i mandanti dell’assassinio del fratello, o chi abbia ucciso Versace, ecc. ecc.? Da noi, senza tentare elenchi che non finirebbero mai, a dare uno sguardo solo alla storia degli ultimi trent’anni, è anche peggio.
Se vuole, il potere ha ampia possibilità di usare le vie coperte e illegali per perseguire i suoi scopi. Nel sistema democratico gli anticorpi ci sono, ma sono relativamente deboli.
Si dirà che c’è l’opposizione politica a fare la guardia. È vero, ma fino ad un certo punto. Non sempre l’opposizione politica si gioca la pelle per denunciare fino in fondo un abuso di potere, quando c’è. Sia perché la denuncia deve essere comprovata in modo indubitabile, e non è facile avere prove assolutamente certe di malefatte commesse da gente astuta e potente, sia perché essa opera in relazione agli umori dell’opinione pubblica, che è volubile e spesso si stanca di certe questioni, le dimentica. Ma soprattutto perché, per la sua stessa mentalità, tende a considerare la denuncia dell’abuso di potere una delle carte da giocare nella partita politica. Insomma la politica, anche di opposizione, spesso, ponendo il mezzo al posto del fine, considera se stessa superiore alla giustizia. Questa convinzione, della politica über alles, non è di per sé abuso di potere, ma ne è la base ideologica, ed è purtroppo diffusa nel nostro ceto politico. Quando la si teorizza, come ha fatto a suo tempo Bettino Craxi, e di recente l’ex presidente Cossiga, o si presentano in Parlamento - come è avvenuto di recente - proposte di concessione dell’immunità giudiziaria ai parlamentari per tutto il tempo del loro mandato, non si è poi lontani dalla situazione indicata da Vittorio Alfieri: “Tirannide indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzione delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche solo deluderle, con sicurezza d’impunità” (Della Tirannide).
All’abuso di potere va tolta in primo luogo ogni copertura ideologica. La politica non è superiore, ma al servizio della giustizia. Socrate accettò la propria esecuzione capitale per rispetto della legge, in nome della quale era stato ingiustamente giudicato colpevole. La volontà della maggioranza politica vale infinitamente meno di quella della legge, che, per definizione, è volontà universale. La politica può fare le leggi, ma non può non rispettarle.
Ma l’abuso di potere, oltre che combattuto sul piano culturale, va anche concretamente smascherato. In genere non è facile. Gli organismi giudiziari che dovrebbero farlo debbono combattere duramente per conservare la loro autonomia. Il potere può agire formalmente, ma soprattutto con pressioni e condizionamenti di fatto anche molto forti sulle strutture e le persone che minacciano di scoprire, come si dice, “i suoi altarini”. Può rendere la vita molto difficile a chi lo disturba.
Anche quando le prove sono raccolte, raramente l’indagine su un abuso di potere agli alti livelli ha sviluppi consistenti sul piano giudiziario e politico. I processi si allungano, le procedure si complicano, i soggetti coinvolti e i testimoni nel frattempo spariscono o muoiono, tutto sfuma nella memoria collettiva. C’è in genere una grande sproporzione tra le possibilità di indagine, di raccolta di prove e di denuncia dei singoli o delle organizzazioni che si ritengono vittime di abusi del potere e le possibilità di dissuasione, di depistaggio,di autodifesa di questo.
Oggi il rapporto tra chi detiene il potere e “gli amministrati” è diventato via via più umorale, instabile, nevrotico. Non c’è quasi uomo politico o di potere che non viva in attesa degli ultimi sondaggi, con la stessa sacrale aspettativa con cui gli antichi attendevano i responsi degli oracoli.
Quando il popolo era suddito bastava impaurirlo con dimostrazioni di forza, bastonarlo, terrorizzarlo con qualche pubblica esecuzione, come ancora accade in tanti paesi del Terzo Mondo, in cui imperversano contro contadini poveri e sottoproletari in miseria polizie ed eserciti asserviti e squadre della morte impunite al servizio di dittature ed oligarchie che vivono perennemente di abusi. Ma la condizione formale di sovranità popolare, l’affermazione di principio di essa, non basta.
Da quando è diventato sovrano, come ai sovrani di tutti i tempi, al popolo capita di essere circondato dalle attenzioni di abili adulatori, da mistificatori che lo viziano, lo disinformano, e tentano così di mantenerlo in uno stato di perenne minorità. È bene che i cittadini si attrezzino culturalmente ad affrontare questo fenomeno.
L’abuso del potere raramente si esprime all’estremo, nello “stato di eccezione” o colpo di Stato. Ben più frequentemente, quotidianamente, si manifesta nel perseguimento di interessi particolari (di partito, di lobby, di arricchimento o di immunità personale) sotto coperture e con mezzi istituzionali, o nella messa in atto di provocazioni, di montature architettate per condizionare l’opinione pubblica in un certo momento.
La provocazione, in particolare, è uno strumento politico molto potente, in quanto può avere un forte impatto sull’opinione pubblica. Può avere fini diversi. Ne elenchiamo alcuni, senza pretendere di esaurire la casistica, a puro titolo di esempio: 1) stornare l’attenzione dell’opinione pubblica da uno scandalo o da una situazione difficile in cui si trova chi gestisce il potere; 2) screditare avversari scomodi presentandoli come responsabili di qualche azione ignobile o condannabile (non serve che siano accusati formalmente di essa, basta che vi siano in qualche modo avvicinati, creando un effetto che gli psicologi della forma chiamerebbero “gestaltico”); 3) far dubitare di se stesso e quindi indebolire un movimento che sta crescendo nel sociale, attribuendogli responsabilità di forme di lotta inaccettabili come quelle terroristiche, cosicché la forza delle ragioni di cui è portatore viene neutralizzata dalla esecrabilità dei modi con cui queste vengono fatte valere; 4) creare le condizioni perché certe decisioni, atti o provvedimenti legislativi, che non sarebbero altrimenti accettati, vengano subiti come “mali minori”, reazioni spiacevoli ma inevitabili imposte dalla situazione per garantire la sicurezza e la tranquillità di tutti.
In passato si usava, quando ce n’era bisogno, l’incidente diplomatico o la scaramuccia di frontiera. Si chiamava “diversivo”. Chi avrebbe osato prendersela ancora con un governo impegnato a difendere l’onore o la sicurezza nazionali? Provocazioni storiche furono - sempre per restare fuori del nostro Paese - quelle dell’incendio del Reichstag, che servì a Hitler per spazzare via le limitazioni ancora esistenti al suo potere, o del falso attacco nordvietnamita alle navi americane nel Golfo del Tonchino, sotto la presidenza di Lyndon Johnson. Sono state successivamente smascherate, ma nel tempo in cui furono compiute servirono egregiamente al “palazzo” che le aveva promosse per avere giustificazioni presso l’opinione pubblica di atti che altrimenti questa non avrebbe accettato.
L’abuso di potere, il delitto di Stato, viene talvolta teorizzato e giustificato in nome di un interesse superiore: del paese, della civiltà, paradossalmente, della stessa “democrazia”. Anche la Chiesa, nei secoli passati, ammetteva che in certi casi la “ragion di Stato” avesse il sopravvento sulla morale generale. A condizione, come raccomandava Giovanni Botero, che il principe, prima di commettere un delitto di Stato, si attenesse al parere del “Consiglio di coscienza”, di cui faceva parte il suo padre spirituale e confessore.
Il potere che usa la provocazione ha bisogno di gente disposta a servirlo nell’illegalità. Il provocatore, cioè chi materialmente attua la provocazione, compie azioni che nessuna autorità ammetterebbe mai ufficialmente di avere ordinato, che ben difficilmente risulterà da alcun documento essere stata ordinata. Deve perciò essere ben motivato, praticamente certo dell’immunità, ben gratificato.
Il criminologo Dennis Chapman a questo proposito descrive il fenomeno che egli chiama di “giustizia privata”, ovvero il principio per cui membri delle istituzioni, applicano a se stessi criteri e procedure diversi da quelli adottati nei confronti dei comuni cittadini. La immunità relativa garantita di fatto a certi uomini delle Forze dell’ordine - o, in certi casi, delle Forze Armate - è elemento determinante, egli sostiene, della formazione della mentalità dei corps d’èlite, persone scelte, abituate a pensare di potere operare, in nome di un interesse dello stato superiore, al di sopra della legge. “L’ideologia - osserva Chapman - li descrive come un’èlite che ha il ruolo speciale di difendere lo Stato, l’esercito o il partito, evitando così la colpevolizzazione”.
Neanche condurre campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica che smascherano la provocazione a volte basta. Da molti anni libri, articoli, documentari filmati vanno sostenendo con argomentazioni solidissime che l’attentato a John Kennedy non è avvenuto secondo quanto stabilito dalle inchieste ufficiali. Ma non succede nulla: nessuna iniziativa giudiziaria per stabilire ufficialmente la verità risulta essere in atto.
Da noi, per esempio, c’è stato un funzionario di Polizia che ha affermato che due molotov sequestrate in piazza a Genova sono state poi esibite a giustificazione dell’irruzione nella scuola Diaz dove pernottavano i no-global. È certamente una prova del tentativo di costruire quella che in termini tecnici non si può altro che chiamare una provocazione. Si tratta di una prova forte, abbastanza da far sì che il ministro dell’Interno abbia detto che “se qualcuno ha sbagliato dovrà pagare”. Così è stato riportato dai giornali. Ma che significato ha una dichiarazione di questo genere? Come può essere questa una notizia, in uno Stato di diritto? Da prima pagina sarebbe se il ministro dichiarasse: “Se qualcuno ha sbagliato stia pure tranquillo: non pagherà”.
Ma, tra l’altro, chi dispone dei mezzi di informazione di massa il più delle volte si riconosce nell’establishment, non è interessato ad inimicarsi con campagne di denuncia gli ambienti che contano del “palazzo”. Lo storico scandalo del Watergate, che costrinse alle dimissioni il Presidente degli Stati Uniti, sembra fare eccezione, ma non si può dire fino a che punto la denuncia dell’abuso di potere di Nixon fosse finalizzato a far trionfare la giustizia o non facesse parte di un altro più complesso gioco di potere.
Spesso le stesse presunte vittime degli abusi, per timore, per sfiducia, non sono molto disposte a collaborare con gli organismi inquirenti e giudiziari dello Stato che si impegnano, perché non credono nella loro effettiva volontà o, possibilità di fare luce su questioni così delicate. Negli ultimi decenni la gente è diventata più sospettosa nei confronti del potere e di chi lo gestisce, ma ciò non necessariamente ha comportato un risveglio ed una vigilanza adeguata dell’opinione pubblica. Anzi. La diffusione di un sospetto quasi paranoico verso il potere e le istituzioni può generare, al contrario, sfiducia qualunquistica e rassegnazione a stati di fatto che si ritengono non modificabili.
Ai tempi della Serenissima il doge, in carica a vita, che pure era limitato drasticamente nei suoi poteri dal Consiglio dei Dieci, sapeva che, dopo la sua morte, i suoi eredi e la sua famiglia sarebbero stati chiamati a rispondere - in solido - dei suoi eventuali abusi commessi nell’esercizio della funzione. È difficile, per ovvie ragioni, che questa norma possa venire applicata oggi. Ma sarebbe divertente immaginarne gli effetti.
Che fare allora?
Chi si appresta a mettersi contro un potere per denunciarne un abuso ha sempre l’impressione di trovarsi solo contro il mondo. In realtà non ci sono soluzioni miracolose. “Hic rodus, hic salta” dicevano i latini, per indicare che certi problemi non possono essere risolti né evitati, bisogna affrontarli quando si presentano. Bisogna essere consapevoli che al potere è connaturata la possibilità dell’abuso. Che l’uguaglianza davanti alla legge è sempre un obiettivo da conquistare, mai un dato scontato. Essere disincantati, senza però essere cinici. Il cinismo è solo rassegnazione, che pretende di essere furba. Fa sempre il gioco del “palazzo”.
È vero che la comunità non può scaricare tutta la responsabilità del controllo degli abusi del potere sui singoli. Il grado di civiltà di un paese si misura dalla trasparenza ed efficacia delle sue procedure di giustizia, dal grado di garanzia offerto ai cittadini che sono disposti a portare le loro testimonianze. Stefania Ariosto, la testimone “Omega” nel processo a Berlusconi e Previti a Milano, ha detto recentemente che, se dovesse ritornare indietro, non andrebbe di nuovo a testimoniare.
A prescindere dagli esiti del processo in corso, un testimone non dovrebbe mai essere indotto ad arrivare al punto di doversi pentire di avere compiuto il suo dovere di cittadino. Se il paese non è in grado di far sì che una persona, per portare la sua testimonianza, debba rovinarsi l’esistenza, possiamo anche chiudere bottega e offrirne le chiavi a Totò Riina. Il sistema va perciò perfezionato, nel senso di agevolare il cittadino a non dover temere le ritorsioni e le vendette del potere.
Ma la giustizia non è mai senza costo per chi la persegue. Nei singoli, nelle loro coscienze e nei loro comportamenti non conformistici, molto più che nelle norme, sta in fondo il baluardo della vitalità e della possibilità di rigenerazione dagli abusi del sistema civile. La società umana, nonostante tutti bei principi e le norme scritte, se nessuno è disposto anche individualmente a pagare in ogni momento un prezzo per mantenerla, scivola verso il disordine e la disgregazione.
Tra le diverse opzioni che si presentano ad un singolo, quella della giustizia è sempre la meno spontanea, la più rischiosa e faticosa. Il prezzo da pagare individuale nella decisione “contro la propria personale convenienza” a favore della giustizia può essere ridotto, ma non eliminato, da nessun miglioramento del sistema. Ed è giusto in fondo che sia così. Perché, se non ci fosse più responsabilità e prezzo da pagare per gli individui per la salvaguardia dei principi della convivenza comune, non ci sarebbero nemmeno più gli individui, intesi come liberi soggetti, non ci sarebbe più comunità, ma gregge.
Il “palazzo” ha bisogno della piazza, che ogni tanto gli dia qualche scrollata salutare, che faccia risuonare le sue volte asettiche con gli slogan sanguigni della gente comune. Ma questo ancora non basta. Il “palazzo” del potere ha pure bisogno di cittadini singoli che, quando è necessario, abbiano il coraggio di entrare - anche soli -nelle sue sale. In altri giorni da quello della festa della Repubblica. E che si introducano nelle stanze più appartate, ne spalanchino le finestre e diano aria agli armadi. Era questo, credo, che intendevano i grandi teorici, i padri della sovranità popolare, quando formularono l’idea, temeraria e vertiginosa, che il sovrano sia ciascuno di noi.
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