Dal volume di Gianni Cirone “I misteri dell’Afghanistan” (Datanews ed.) pubblichiamo un capitolo dedicato ai rapporti fra Taliban ed Iraq
Mentre il movimento “salafista jihadista” prende coscienza del proprio corpo, come del proprio progetto, nello stesso periodo, nella stessa area e in un medesimo contesto, appare un altro movimento, figlio di un islam locale: quello dei Taliban. Le due tendenze si incrociano, si contaminano, ma tuttora non è stato ben definito l’esatto peso della loro influenza reciproca, influenza resa evidente dalla loro promiscuità e vicinanza.
Anche i Taliban, come i “salafisti jihadisti” interpretano alla lettera i testi sacri e intendono perseguire la jihad. Quest’ultima però è indirizzata espressamente contro la società, alla quale impogono un rigore morale estremo, a scapito dell’assetto statale e di una lettura del contesto internazionale. Essi, inoltre, si distinguono per una diversa derivazione scolastica, provenendo dalle madrasa (scuole islamiche di teologia e diritto) tradizionali, mentre il loro insegnamento è quello hanafita, di corrente deobandita, tradizione che però non ha mai concesso una grande priorità alla jihad.
Nasce nel 1867 la scuola deobandita, e la sua vicenda riguarda il nodo delle due Indie. Essa cerca di tenere in vita la tradizione degli indiani musulmani che, dopo la presa del potere da parte del Regno Unito, nel 1857, si trovano in netta minoranza rispetto alla cultura indù. L’obiettivo, dunque, è la sopravvivenza in un ambiente sfavorevole. Per ottenere il massimo e mantenere viva la propria pratica, gli ulema deobanditi emettono diverse fatwe (responsi dogmatici o, anche, grazie) per far seguire ai loro adepti ogni precetto della shari’a (legge divina e, più concretamente tradizioni giuridiche islamiche), pur non essendoci un’autorità statale impegnata in tal senso.
Quando, nel 1947, nasce lo Stato del Pakistan, in seguito alla separazione dell’Impero britannico delle Indie, ben sette milioni di musulmani sono costretti a muoversi dall’Unione Indiana verso la neo-nazione indipendente, mentre dieci milioni di indù compiono il tragitto inverso. Scoppiano scontri sanguinosi, proteste di piazza virulente, ed è a questo punto che gli ulema deobanditi creano un partito politico, il Jui, attento a mantenere uno spazio esiguo di movimento per la comunità islamica e vigile onde evitare il conflitto con uno Stato musulmano, in fin dei conti, laico. Si crea così una differenziazione con il Jup, composto dalla fazione rivale degli ulema barelwis, e con la jamat’at-e islami, un partito di èlite dei ceti medi religiosi, non radicato a livello popolare. Questo gruppo, fondato da Abu l-A’la al-Mawdudi, un ideologo che impegnerà la propria intera esistenza per la causa dell’islamizzazione del discorso politico dei nazionalismi, verrà accusato di “modernismo” e di volter sovrapporre il piano politico a quello religioso.
Con il tempo, gli ulema deobanditi assumono un ruolo preminente nella vita del paese, aggredendo chiunque metta in discussione il loro concetto di ordine islamico. Le loro vittime saranno gli appartenenti alla setta degli Ahmadi e degli sciiti, anche grazie alla collusione (con il regime) del dittatore Zia (1977-1988), che imporrà l’islam sunnita hanafita. A ciò si deve aggiungere l’abile strumentalizzazione della rivalità tra Iran e Arabia Saudita che, per rendere forte la jihad afgana, è disposta ad elargire grandi somme a chiunque sia disposto a combattere gli sciiti. Madrasa sempre più ricche, innalzato numero di accoliti, maggiore possibilità di addestramento, faranno degli ulema deobanditi una vera potenza in tutta l’area. Una potenza che sfiorerà il fanatismo più crudele e degradante nell’apparizione di alcune formazioni deliranti, connotate con i nomi di “esercito”, “soldati”, “sostenitori”. A ciò si presta anche l’evidenza di un conflitto sociale che vede, nel Punjab meridionale, in Pakistan, contadini sunniti in preda alla povertà più assoluta e proprietari terrieri in larga maggioranza sciiti. Le madrasa, quindi, si affollano di tutti quei giovani che non hanno speranze di migliorare il proprio status, tenendoli fuori da qualunque tensione esterna per l’intero corso di studi, insegnamenti da cui usciranno però motivati e con un’aggressività pronta a scattare contro chiunque venga considerato kafir (empio). L’assoluta devozione dei Taliban per gli ulema, che li hanno ammaestrati per anni, farà il resto.
Nonostante la guerra del Golfo incrini gravemente i rapporti tra Riyadh e i movimenti integralisti, e nonostante sia presente l’asperrimo contrasto tra questi ultimi e la premier pachistana, Benazir Bhutto, conclusa l’operazione Desert Storm i maggiori appoggi all’intransigente movimento deobandita arrivano proprio dal governo saudita e dal governo pachistano. Grazie a questi aiuti, i Taliban vedranno spianata la strada per affermare la loro supremazia su quasi l’ottantacinque per cento del territorio afgano. Questo snodo può apparire contraddittorio, e in parte lo è, ma si può rivelare più spiegabile attraverso le seguenti considerazioni.
Per l’Arabia Saudita, la questione può essere riassunta in un punto: la scelta del male minore. Infatti, essendo stato violentemente attaccato dai “salafisti jihadisti”, in occasione dell’alleanza con gli statunitensi anti-Saddam, il governo saudita si rivolge allora verso gli ulema deobanditi del Jui che, in merito all’alleanza filo-occidentale di Desert Storm, hanno sì espresso una critica di fondo, senza però mai spingersi in un’aperta contrapposizione. La scelta di Riyadh, inoltre, tiene conto della forte vicinanza dell’altro partito degli ulema, Jup, con il regime di Baghdad che, da questa formazione, avrà il contributo di ben centodiecimila volontari per la sua guerra. Dunque, pur di non perdere un’influenza sui religiosi musulmani dell’area pachistana, l’Arabia Saudita punta tutto sul Jui che assicura la più ferrea ortodossia religiosa, del tutto simile a quella wahhabita, ovvero alla propria ortodossia, dunque alla stessa ortodossia fondante la formazione di Osama bin Laden. In ultimo, ma non è una nota di colore, il governo saudita vede crescere in Afghanistan la figura del comandante Massud, a discapito dello Hezb di Hekmatyar che, in questo modo, non sembra più un cavallo vincente su cui puntare. La scelta dei sauditi è ormai matura: finanzieranno gli allievi delle madrasa deobandite, i Taliban.
La signora Bhutto, in Pakistan, usa invece il Jui per scardinare l’alleanza di questo, con il Ji e Jup, dunque per rompere il patto dei tre partiti religiosi che appoggiano il suo avversario politico, erede della politica del dittatore Zia, Nazaw Sharif. Estromessa da quest’ultimo, nel 1990, la first lady pachistana vince le elezioni del 1993 attraendo verso sé gran parte dei deobanditi. Ma non basta. Bhutto non accetta l’anarchia che regna in Afghanistan, quella instabilità non è funzionale al Pakistan confinante. Ella sa bene che i servizi segreti del suo paese, l’Isi, utilizzano le tensioni afgane per propri fini, nella migliore chiave utilitaristica determinata dal loro antico protettore, il generale Zia, e dallo stesso Sharif. Sarà un ministro del secondo governo Bhutto, il ministro dell’Interno, generale Badar, ad offrire il momento di svolta per il vicino Afghanistan. Egli spedirà, facendogli attraversare il sud-ovest del territorio afgano, un lungo convoglio di camion verso il Turkmenistan. Un capo mujaheddin, assieme ad ex simpatizzanti del precario regime comunista post-sovietico, blocca la colonna per chiedere un riscatto. Dalla frontiera pachistana, si muovono diverse migliaia di Taliban armati che, liberato il convoglio, in ventiquattro ore conquisteranno Kandahar, per prendere Kabul nel novembre del 1996 e, con un’offensiva inesauribile, costringere nell’autunno del 1998 il comandante Massud e i suoi mujaheddin verso le montagne estreme, nella valle del Panshir, a nord del paese.
I Taliban sono i padroni dell’Afghanistan, e nasce il loro “Emirato islamico”.
A tutt’oggi non è stata compiuta un’analisi approfondita sui movimenti islamici radicali che, a metà degli anni Novanta, hanno concretizzato la loro forza sulle ceneri della jihad afgana. I Taliban, infatti, hanno ricevuto appoggi e aiuti da svariate fonti: la principale, sotto molti punti di vista, è stata il Pakistan. Ciò è avvenuto in un continuo gioco di convenienze che hanno sempre fatto convergere su questo movimento gli interessi di diversi governi. I Taliban hanno contato sull’appoggio di Benazir Bhutto, ad esempio, stretta in un patto di ferro con il leader deobandita Maulana Faslur Rahman e avversaria tenace dell’opposizione Nawaz Sharif. Ma lo stesso Nawaz Sharif, una volta tornato al potere nel 1996, sarà tra i migliori alleati del regime pachistano. Gli itinerari esigui di molti esecutivi, insomma, nella sempre difficile situazione pachistana, hanno convinto i loro leader ad intraprendere politiche di alleanze di brevissimo respiro, facendo prediligere la strada della continuità, fin quando possibile, con chiunque assicurasse concretamente appoggio, controllo, nessun particolare contraccolpo.
Il Pakistan, come per altri versi l’Afghanistan, ha sempre vissuto una condizione di compressione dovuta allo scontro/incontro di culture molto pesanti: quella musulmana e quella indù. Sotto l’aspetto politico, poi, la gara nucleare con l’India, la diffidenza verso la Russia, la questione della jihad islamista in Kashmir, la forte avversione verso gli sciiti di scuola iraniana, hanno fatto del Pakistan un paese dall’itinerario denso di contrasti, contraddizioni e uno smaccato utilitarismo. I Taliban hanno offerto al potere pachistano la possibilità di costituire una cintura di sicurezza, una sorta di frontiera avanzata, in tutta quell’area ritenuta d’importanza vitale per l’acquisizione di energia del paese: si pensi solo agli idrocarburi del Turkmenistan che, in Afghanistan, serpeggiano verso il Pakistan (lungo lo stesso itinerario dove i Taliban vanno a liberare il convoglio di camion su ordine del ministro Babar). Inoltre, la discendenza degli studenti delle madrasa dall’etnia pashtun, proveniente dalla zona del nord-est del paese, ha sempre assicurato un legame saldo con uomini dell’apparato pachistano, dalla sicurezza alla difesa.
In questo senso, i Taliban incarnano il miglior prodotto da esportare nel vicino Afghanistan, una terra sconvolta dalla guerra contro l’Urss che, una volta liberata, si va ripiegando su se stessa in un conflitto intestino tra fazioni di mujaheddin, capi tribù, trafficanti di armi e di droga. Tutto condito dalla più aberrante corruzione e decadenza del vivere civile.
Ai Taliban basterà poco per conquistare molte province afgane: il loro nome, la loro reputazione, la loro integrità morale spalancheranno le porte di moltissimi centri, abitati da una popolazione allo stremo delle forze e bisognosa di rassicurante rigore e anelato ordine. L’ultra-radicalismo religioso degli studenti delle madrasa non sarà oggetto di particolare stupore: almeno per molti afgani, seguaci delle regole della tradizione tribale, il pachtnwali. Il loro valore in battaglia sarà leggendario, certi, in caso di morte, di tramutarsi in martiri della fede (shuhada) e, dunque, convinti di oltrepassare le porte del paradiso. Giunti al potere, i Taliban compiono il salto di qualità. Impongono una loro interpretazione dell’esistenza, in chiave deobandita, non solo ai discepoli consenzienti delle madrasa, ma all’intero tessuto sociale. Kabul, per loro, è una città di corrotti che va mondata dagli empi, per poi rieducarla e condurla alla shari’a.
Il peso dei comportamenti imposti dagli studenti delle madrasa, però, avvia lo stato sociale verso un enigmatico decadimento che, al di là di ogni giudizio etico, religioso o politico, non costituisce un collante fertile ma si somma alla secolare putrefazione dell’ormai pallido ricordo di una nazione unita. Il popolo afgano diviene un ventre molle entro cui la regola è la coercizione, in nome della distorsione delirante di testi sacri. Si pensi solo a due fenomeni che hanno un riscontro di massa. Il primo: l’utilizzo del grande stadio di Kabul, costruito dai sovietici, per trasformare le esecuzioni di condanne in spettacoli ammonitori e pubblici. Ogni venerdì, migliaia di persone assistono a flagellazioni imposte ad alcolizzati, al taglio degli arti per i ladri, ad uccisioni di criminali, in questo caso con la famiglia della vittima nel ruolo del boia che dà la morte. Le altre punizioni, comunque, sono anch’esse inflitte da persone comuni, nell’intento di dare seguito all’adempimento della giustizia attraverso una non ben definita comunità morale.
Sono le donne a pagare sulla propria pelle, e ad un prezzo altissimo, il secondo fenomeno di massa: infatti, chiunque appartenga al sesso femminile non può mostrarsi in pubblico se non coperta dallo chadri. Questa scomparsa “somatica”, però, è solo la metafora di qualcosa di più abominevole: con l’oscurità dei propri lineamenti, le donne perdono qualunque diritto. Non possono lavorare e, per questo, sono completamente nelle mani di chi le mantiene. Finché può. Infatti, alla morte del marito, evento del tutto all’ordine del giorno in una società perennemente in guerra, il loro destino è quello di mendicare, di strada in strada, o di prostituirsi per un nulla. Alle donne, quindi, i Taliban tolgono ogni dignità, ritenendole oggetti di poco conto, carne in pena che non ha nemmeno un prezzo. In questa società, quindi, viene soppressa l’altra metà del cielo e, inequivocabilmente, essa non potrà mai assumere la fisionomia di una società reale.
Quasi nello stesso modo, i Taliban non sanno che farsene delle struttue istituzionali. La loro cultura, quella deobandita, è intrisa di ostilità verso la res publica. La loro organizzazione di comunità si struttura in una sequela legnosa di comandamenti e nel rispetto maniacale di ingiunzioni dogmatiche. A che serve lo Stato? Lo Stato altro non può che essere “empio”, come vuole la tradizione deobandita, a partire dall’impatto con l’invasione colonialista che il Regno Unito ha provocato in India, sin dal lontano 1857. Ecco perché ogni edificio che rappresenti lo Stato cade immediatamente in disgrazia, coperto dalla sporcizia e dal silenzio del personale assente perché impegnato, in qualche scuola religiosa, in un qualche corso di rieducazione. Del resto, ai Taliban, nulla giova un’architettura istituzionale efficiente che riesca ad esprimere anche un controllo o, meglio, un auto-controllo. Alle istituzioni, invece, vengono sostituiti tre filoni essenziali: la morale e, strano a dirsi, i non così edificanti settori del commercio e della guerra.
La morale, una rigorosa imposizione generalizzata delle norme deobandite, è gestita da un corpo denominato “per la promozione della virtù e della prevenzione del vizio”. Qualcosa di simile esiste proprio in Arabia Saudita ed è formato dai mutawi’a, la cui istituzione risale a Ibn Abd al Wahhab, inam dal cui nome deriva quello di wahhabismo. Al Wahhab non appena conquistato il potere spirituale nel primo stato saudita, tra il 1745 e il 1811, crea questa sorta di Polizia religiosa e, in questo modo, impone il controllo sullo stile di vita di ognuno, ricercando e punendo le deviazioni della norma, costringendo la popolazione a partecipare a tutte le preghiere.
Questo istituto rimane intatto, nella sua accezione repressiva, sino all’Arabia Saudita di oggi, dove giovani di estrazione popolare, con la tradizionale barba folta e lunga, si armano di bastone per far rispettare, tra le altre regole, orari di preghiera e obbligo del velo alle donne. Tanta crudezza non raggiunge però la cinica asprezza del corpo afgano che, ad esempio, conduce alla flagellazione gli uomini glabri e quelli con una barba troppo corta, vieta e distrugge le registrazioni e i video di musica e immagini profane. I feticci di questa caccia vengono esposti agli angoli delle strade, tragiche chiome di nastro nero, svolazzante attorno ad un bastone. Il popolo che partecipa questa ritualità ormai non se ne stupisce, anzi, in un certo senso dà corpo ai divieti, allo spettacolo delle pene sanguinose, provenendo in larga parte dalle campagne intorno a Kabul proprio per certe occasioni. Serpeggia, in questa opinione pubblica, il senso di un protagonismo che si individualizza nell’agire tra l’illecito ed il lecito dei dogmi dei Taliban. La classe media o medio alta della capitale, quella educata nella tradizione persiana, si costringe ad un silenzio e ad un’invisibilità segni della propria sconfitta e della propria inettitudine. In fin dei conti, c’è sempre una priorità di cui tenere conto: quella della sopravvivenza e del guadagno. Con il commercio.
Se la funzione della morale, infatti, offre la parvenza teorizzatrice di un modus vivendi, quella del profitto giustifica ampiamente l’inesistenza di un valido corpo istituzionale. Grazie all’inconsistenza dello Stato, chiunque svolga un’attività commerciale, dalla vendita al trasporto di merci, può ampiamente ritenersi libero da tasse, balzelli e regolamentazioni di qualunque natura. Sulle vie del commercio, il regime dei Taliban ha amplificato itinerari precisi: tra l’Asia centrale e il Pakistan, questo snodo ha accresciuto i traffici piû disparati, con una particolare predilezione per quelli illeciti. Il contrabbando, per esempio, che si dipana dalle repubbliche ex sovietiche e dal Pakistan verso il porto franco del Dubai. Il traffico di stupefacenti, che si irradia verso la dorsale russa per approdare ai mercati europei e americani. Il traffico di armi, letteralmente una festa per la disponibilità del grande deposito dismesso dell’ex colosso sovietico. Di questi grandi flussi, i Taliban fanno tesoro senza quasi sporcarsi le mani, sottraendo congrue percentuali di pedaggi per ognuna delle innumerevoli vie aperte a questi scambi. Questo circolo “virtuoso” permette al regime di sottrarsi all’influenza economica di molti paesi stranieri, scegliendo come meglio gestire l’autonomia finanziaria. Ad esempio, investendo in “guerra”.
Probabilmente la guerra, dopo la morale e il commercio, è l’unico corpo che suggerisce un minimo di strutturazione, prevenendo un centro e tante periferie. A soddisfare queste esigenze ci pensa la città di Kandahar che, per questa ragione, viene ritenuta la vera base del regime talibano. A capo di questa centralizzazione degli affari di guerra c’è il comandante dei fedeli, il Mullah Omar Akhund, una personalità così elevata tanto da apparire solo ai suoi collaboratori e occultarsi, invece, alla vista degli “empi”. La figura del Mullah Omar, tramandata alle cronache in un’eccezione mitologica, è quella di un mujahid che combatte contro il regime societico, perde un occhio in battaglia e, adesso, predispone le strategie contro gli oppositori al regime, stabilendo la linea nei rapporti internazionali, confermando o meno le alleanze. La shura, il consiglio dei saggi islamici, è la sua assise che, nel 1997, lo nomina Amir ul Momeenin, cioè Emiro dei Credenti. La sua figura diviene cruciale nell’ultimo conflitto contro gli Usa, ed i suoi alleati occidentali e islamici. È lui, infatti, a confermare al mondo l’asilo e l’alleanza con Osama bin Laden, oltre che la più comleta ospitalità ai “salafisti jihadisti” che collaborano con il miliardario saudita.
Come è possibile capire, il regime dei Taliban non è strutturato come uno Stato, piuttosto esso si rappresenta come una comunità organizzata sulla base di regole deobandite, estese all’intera popolazione. Ecco perché l’Afghanistan risulta essere ben lungi da qualunque altra realtà planetaria in ambito islamico: nulla a che vedere, cioè, con la Repubblica islamica iraniana né, tanto meno, con il regime sudanese di Hassan el Turabi. In questi contesti statali esiste un apparato amministrativo ben oliato, un controllo razionale dell’islamizzazione, anche se autoritaria, un concetto di politica estera persino espansionistica. Ai Taliban poco importa di allargare un controllo oltre la propria attuale influenza, al punto da trovare, oggi, quasi esclusivamente negli Emirati Arabi Uniti l’unico partner commerciale disponibile, dopo l’irrigidimento dei sauditi nei confronti del loro discendente Osama. La loro cultura deobandita non lascia spazio ad una ricerca del miglioramento statale, tanto è avvertito qualunque disincanto per ogni aspirazione di “città virtuosa”. Per i Taliban deobanditi quello che conta è la comunità, che altro non può essere che un aggregato di credenti, disciplinati da un insieme di fatwe che conducono a vivere in conformità con la shari’a. Inevitabilmente, ad un certo punto della propria storia, la vicenda dei Taliban diviene enigmatica. Il respiro del loro regime imprime, all’interno, solo uno schema sterile e autoritario mentre, all’esterno, può solo contare nell’espansione di una jihad portatrice della tradizione deobandita. In questo senso, un fenomeno oltre confine si è innescato nel Kashmir, grazie ad un gruppo paramilitare deobandita, fondato nel 1993, con il nome di Harakat-ul Ansar, poi denominato Harakat-ul Mujahedin, quando gli Usa lo hanno classificato quale movimento terroristico, nel 1997. I tantissimi giovani, poveri, del Punjab che corrono ad arruolarsi in cellule come l’Harakat, giovano enormemente al governo pachistano che, almeno sino all’inizio del più recente conflitto che ha sconvolto l’area, è sempre stato disponibile a sovvenzionare questi movimenti per assediare il settore indiano più vicino ai propri confini. Ma, come è stato possibile vedere dopo l’11 settembre scorso, si è rivelata fallimentare quella politica tesa a rigettare su un nemico esterno, le tensioni sociali interne. Cosa faranno, adesso, quei mujaheddin che, dopo l’attacco statunitense all’Afghanistan, si trovano isolati nella zona del Kashmir? Rivolgeranno sul fronte interno la reazione ad un loro isolamento, così da determinare un doppione, ad esempio, del gruppo di terrorismo anti-sciita Lashkar-e Jhangvi, per attaccare lo Stato pachistano?
Ad Islamabad il tema è tutto sul tappeto, e solo all’inizio del suo svolgimento.
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