Secondo gli esperti dell’intelligence Usa, Osama bin Laden e il mullah Omar, capo dei Taliban, sarebbero vivi e vegeti, ma non si sa dove si trovano. Intanto, è prevedibile uno scontro con l’Iraq di Saddam Hussein, e si profilano altri nodi di tensione
Ad un anno dal pauroso attacco alle Torri Gemelle, a New York, e al Pentagono, a Washington, non si può certo affermare che l’inferno di fuoco scatenato sul territorio dell’Afghanistan abbia sortito risultati di grande rilievo.
Si è giunti, dopo un anno di tensioni insidiose, all’estate del 2002. E, ancora, il governo Bush insiste nel sostenere che la campagna statunitense in Afghanistan è destinata a durare anni. Ovvero: in un paese che è stato definito “liberato” dalle forze anglo-americane, con un governo insediato al posto del sanguinoso e fantoccio regime talebano, si riafferma la volontà di azioni militari “convenzionali e non” sul territorio già martoriato da più di 30 anni di guerra. Per gli Stati Uniti, si dice, la reiterazione dell’intervento è dovuta al fatto che la metà della leadership dei Taleban è ancora intatta.
Un sconfitta, dunque? Parrebbe di sì, visto che le più grandi macchine da guerra del mondo, Usa e Regno Unito, non sono sinora riuscite a sconfiggere un manipolo di scolaretti cresciuti nelle madrasa. Per questo (si lascia intendere) le operazioni contro i Taleban e la rete di al Qaida di Osama bin Laden “continueranno per tutto il tempo necessario”. La battaglia “sarà lunga, forse meno lunga della guerra fredda”, ma si deve “pensare in termini di guerra fredda”. A cosa è servito, allora, l’inferno di fuoco a cui è stato sottoposto l’Afghanistan? “Abbiamo liquidato la metà dei principali esponenti di al Qaida – affermano gli statunitensi – e quasi la metà della leadership dei Taleban”.
Al Qaida. Se fa meditare la notizia che solo la metà dei Taliban è stata (come dire?) eliminata, resta un assoluto mistero la reale condizione della formazione capeggiata dal nemico del mondo Osama bin Laden. Su quest’ultimo, inoltre, le voci appaiono contrastanti, anche se entro un certo limite. Il limite, cioè, stabilito dalla assoluta certezza che egli sia vivo. Vivo e in buona salute anche se, secondo alcune fonti, si vocifera che nel dicembre scorso sarebbe stato ferito in una fase del conflitto. Tra i sostenitori di questa tesi, un giornalista arabo, Abdel-Bari Atwan, direttore del quotidiano al-Quds al-Arabi, con sede a Londra. Il giornalista sembra intrattenere legami con alcuni collaboratori del capo della rete al Qaida. Ma anche per l’intelligence statunitense le cose starebbero più o meno così. Per gli 007 della Casa Bianca, il mullah Omar, leader dei Taleban, e bin Laden, sarebbero vivi e vegeti, anche se – si precisa – si ignora del tutto dove essi vivano di preciso. In questo scenario, spesso in un’atmosfera di dichiarazioni che assumono il ridicolo tono del grottesco, il presidente Usa esterna come può. Un’autentica chicca, una delle tante risposte date ai giornalisti che gli chiedevano conto di Osama bin Laden, in questi mesi estivi. “Non so – ha annunciato George Bush – se bin Laden sia vivo e dove sia. Ma se è vivo, lo prenderemo. E, se non è più vivo, lo abbiamo già preso”. Autentica real politik. Del resto, anche per chi volesse detenere la palma della migliore informazione in merito, c’è da dire che voci di un ferimento (o di condizioni di salute precarie) del capo di al Qaida, dall’inizio della campagna afgana, si sono sempre diffuse a più riprese, senza mai trovare assolutamente uno straccio di riscontro.
Anche gli esponenti del nuovo governo afgano brancolano nel buio. O meglio, così fanno intendere. Secondo loro, ad esempio, il capo dei Taleban, mullah Omar, si nasconderebbe sulle montagne dell’Afghanistan centrale. “Il mullah Omar – ha dichiarato, tra gli altri, il ministro degli Affari tribali afgano, Arif Noorzai – è vivo ma non possiamo dire con precisione dove si trovi”. Approssimativamente, comunque, si indica l’area tra Ourouzgan, Bamian e Ghor, tre province centrali del paese. Che ciò venga palesato dal ministro Noorzai assume, però, un certo significato. Il ministro, infatti, che tiene stretti contatti con i capi tribali delle tre province che sfuggono largamente all’autorità del governo centrale di Kabul, precisa che, secondo le proprie “informazioni, i suoi alleati (del mullah Omar, ndr.) lo ospitano e cercano di ottenere missili antiaerei dai paesi che si oppongono agli americani”. Noorzai, inoltre, aggiunge una cartina del percorso compiuto dal mullah dopo la caduta dell’ultimo bastione di Kandahar: rifugio sulle montagne di Tora Bora, nella provincia orientale di Nangahar, poi pesantemente bombardate dagli statunitensi, da lì trasferimento prima a Ghazni e poi nella regione centrale del paese.
Tornando al giornalista Atwan, egli da parte sua racconta che “i suoi (di bin Laden, ndr.) dicono che rimase ferito alla spalla da una scheggia” e che “adesso è in buona salute”. Secondo il giornalista arabo, il ferimento sarebbe avvenuto durante il lungo attacco delle forze statunitensi contro il suo quartier generale di Tora Bora in Afghanistan, nell’ormai lontano dicembre scorso. E ci sarebbe di più. Per Atwan bin Laden avrebbe deciso di non diffondere un altro suo video fino a quando al Qaida non avrà sferrato un altro attacco contro gli Stati Uniti. Dunque, un semplice problema di palinsesto, rimandato alla stagione autunnale che ci attende.
Poco, comunque, c’è da ironizzare sull’intera situazione dell’area. Uno stato di precarietà che, noto agli addetti ai lavori da molti anni, ormai si rende sempre più palese a tutta l’opinione pubblica. A partire dal fondamentale conflitto tra India e Pakistan, le due vere potenze nucleari rivali del sud-est asiatico. La “cura” riservata al territorio afgano dopo l’11 settembre, infatti, non sembra essere stata di grande giovamento ai due paesi. Cuore del contendere il Kashmir, dove, un giorno sì e l’altro pure, si susseguono stragi di civili su una scena che, in realtà, è di guerra guerreggiata. New Delhi non si stanca di lanciare accuse al paese vicino, indicandolo quale ispiratore dei massacri. Secondo la Polizia indiana, principali responsabili delle carneficine sarebbero due gruppi islamici, il Lashkar-e-Toiba e il Jaish-e-Mohammad, entrambi combattenti per l’annessione al Pakistan dell’intero Kashmir. Lungo la linea di demarcazione che, dal 1947, divide il Kashmir in due tronconi, sono dispiegati oltre un milione di uomini. Dall’attentato che nel dicembre 2001 fu compiuto contro il parlamento di New Delhi, un atto concretamente minaccioso per le istituzioni indiane, i due paesi hanno sempre più palesato la loro ostilità, evidenziando in maniera crescente la loro volontà di colpire “il nemico” e ponendo tutte le premesse per l’avvio di un conflitto in larga scala.
Il conflitto che invece si profila sempre più concretamente è quello che tenderà a colpire Saddam Hussein. In questo senso, gli Stati Uniti hanno per tutta l’estate diffuso “non notizie”. La linea comunicativa sull’evento è stata posta sulla rotta dell’incertezza. Quindi, si è lasciato trapelare che nessuno ha ancora preso alcuna decisione sul tipo di operazione da condurre contro l’Iraq. Al tempo stesso, però, non è mai smessa l’opera di allarme in merito ad un eventuale ricorso, da parte di Bagdhad, ad armi di distruzione di massa. Tra le frasi storiche, la seguente: “Gli avvenimenti dell’11 settembre non sono nulla se paragonati a ciò che possono fare le armi chimiche, nucleari e batteriologiche”. Ergo: gli Stati Uniti non possono “aspettare all'infinito”. E la ragione è semplice: “La situazione è troppo pericolosa per ignorarla, e sarebbe troppo rischioso attendere che siano gli iracheni ad attaccarci”.
La situazione, in realtà, è ben più matura di quanto affermato dal governo statunitense. “Il fallimento dei negoziati Onu-Iraq sulla riammissione degli ispettori – afferma in luglio Enrico Jacchia, direttore del Centro di Studi Internazionali – è il segnale che la Casa Bianca aspettava. L’impegno di Bush per l’iniziativa americana sarà attuato, ma senza preavviso e senza descrivere i piani ai governi europei. Forse un’eccezione sarà fatta per il governo russo dal quale è importante, per gli Usa, ottenere un atteggiamento perlomeno neutrale. Washington conta sulle proprie forze militari, come in Afghanistan, dove in pratica sono stati tenuti lontani gli europei, evitando i fastidi e i giudizi che gli americani si aspettavano sulla condotta delle operazioni. Non conoscere in anticipo le modalità e i tempi dell’iniziativa Usa non ci esime però dal valutare quel che faremo quando si concretizzerà”.
Verità o provocazione? Certo è che i tormentati assetti internazionali che, a pochi anni di distanza dalla caduta dell’impero sovietico, hanno iniziato a fibrillare in maniera sempre più evidente, pongono le comunità del pianeta di fronte ad un futuro non certo brillante. Le stratificazioni di potere e di influenza in diverse aree del mondo dicono che, nei prossimi anni, uno dei maggiori nodi di tensione riguarderà l’area centro asiatica. Una prospettiva scottante per l’Europa e un banco di prova dagli esiti misteriosi, soprattutto al cospetto di uno dei fondamentali dilemmi nella storia delle potenze del futuro: quale direzione prenderà il triangolo d’influenza, di alleanza, di attrito, di prevaricazione, tra Usa, Russia e Cina?
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