Quando un anno fa successero i fatti di Genova, il quotidiano il manifesto pubblicava una mia lettera, mentre altri organi d’informazione pubblicavano alcune mie dichiarazioni. Sia nella lettera che nelle dichiarazioni rilasciate alle agenzie di stampa, rivolgevo alle parti in causa, manifestanti e poliziotti violenti, un appello alla ragione e alla non violenza.
Il giorno seguente la pubblicazione delle mie posizioni su quanto era accaduto a Genova, l’ho trascorso andando, come sempre, al mattino in ufficio a svolgere il mio normale lavoro, mentre il pomeriggio lo trascorsi con gli amici dell’Associazione Libera di Don Luigi Ciotti all’Università per la Legalità di Casal di Principe (Caserta) dove da alcuni anni gli aderenti all’Associazione si danno appuntamento per riflettere sulle questioni della legalità in questo Paese.
Voglio brevemente raccontare il diverso modo di essere accolto nei due ambienti che è emblematico del clima che in quei giorni si respirava e di un diverso modo di intendere la testimonianza di un impegno civile.
Al mattino in ufficio, intorno a me avvertivo un pesante clima di ostilità e di disappunto che portava qualche mio collega a pronunciare persino domande del tipo: “Ma certe persone, dopo quello che vanno scrivendo, ancora le fanno rimanere in Polizia?”
Il pomeriggio, invece, trascorso tra la gente comune che rappresentava la società civile, intorno a me si respirava tutto un altro clima fatto di apprezzamenti e di approvazione per quanto avevo sostenuto. Quando le amiche e gli amici dell’Associazione Libera mi hanno visto entrare nella sala riunioni della sede dell’Università per la Legalità, dove da lì a poco si sarebbe svolto un dibattito sulla globalizzazione del crimine (altro becero aspetto della globalizzazione liberista), mi hanno accolto con questa frase: “Finalmente ecco un poliziotto democratico”.
Nell’ascoltare quelle due parole “poliziotto democratico”, ho immediatamente avvertito contemporaneamente due sentimenti contrapposti. Da un lato ho avvertito un ragionevole e immenso piacere, per l’apprezzamento che quell’ambiente aveva per la mia persona e le mie idee.
Dall’altra ho avvertito un disagio. Un disagio che non era il mio, ma quello dei miei colleghi che avvertivo essere considerati (da un mondo fatto di persone che credevano nei valori della democrazia, dell’agire solidale, del rispetto degli altri e della non violenza) come non democratici.
Un disagio che metteva in evidenza, davanti agli occhi delle telecamere di tutto il mondo, come i fatti di Napoli del febbraio 2001 e quelli di Genova avevano creato una rottura tra la società e la Polizia che noi poliziotti democratici, insieme a tanti altri lavoratori, negli anni Settanta, avevamo tanto faticosamente costruito.
Purtroppo non è stato un fatto isolato, ma la stessa e identica sensazione l’ho avvertita anche quando, più tardi, Giovanni Moro, presidente di Cittadinanzattiva, mi chiamava a Roma per parlare dei fatti di Genova all’assemblea nazionale della sua Associazione.
Dove ricercare le cause di questa diversa lettura di un impegno sociale se non nelle diverse culture e nelle diverse formazioni? Posso tranquillamente affermare, per l’esperienza diretta che ho dei due contesti sociali (Polizia e mondo del volontariato), che la differenza sta nella cultura e nella formazione. Nella Polizia vige l’educazione all’arroganza, mentre dovrebbe essere pratica quotidiana (in ossequio agli insegnamenti di Socrate che era considerato il più sapiente degli uomini proprio perché sapeva di non sapere) l’educazione all’ignoranza (o almeno alla modestia), l’educazione al rispetto degli uomini ed ai suoi diritti.
Fatti come quelli di Napoli e di Genova non si vedevano da molto tempo e forse a quei livelli non si erano neanche mai verificati. Quelle immagini, in qualche modo, hanno rievocato metodi che nei paesi di cultura anglosassone erano stati messi al bando ancor prima che in Francia venissero definitivamente aboliti nel 1789, divenendo, sin da quegli anni, oggetto delle critiche illuministiche. Principi posti a fondamento della Dichiarazione universale dei diritti umani.
A distanza di un anno è necessario riflettere, per capire come siano potuti accadere quei fatti orribili in una società moderna e democratica.
Io credo che in un Paese civile sia un diritto manifestare le proprie idee, ma non è un diritto, per nessuno, manifestare con il volto coperto con chiari intenti bellicosi. Ma sono convinto anche che chi è chiamato istituzionalmente a contrastare questa illegalità debba essere messo in condizione di farlo con la fermezza e l’autorevolezza necessaria, ma non deve presentarsi con la stessa faccia di coloro che sono nell’illegalità.
Quello che è accaduto a Napoli e a Genova ha trovato le Forze di polizia e di intelligence impreparate a fronteggiare un nuovo modello di ordine pubblico. I servizi di sicurezza (tanto numerosi quanto inefficienti in questo Paese) quale ruolo hanno avuto in queste vicende? È mai possibile che un camion carico di mazze possa essere stato collocato nel centro della manifestazione, pronte per essere distribuite al momento opportuno, senza che nessuno dei nostri “agenti segreti” abbia avuto il minimo sospetto?
I funzionari di Polizia che prima di essere chiamati a gestire e a coordinare l’ordine e la sicurezza di così grandi eventi erano preparati a contrastare il fenomeno mafioso, avevano la preparazione professionale per essere all’altezza del nuovo compito, dove la capacità di negoziare è ritenuta fondamentale?
Anche in relazione all’uccisione del povero Carlo Giuliani, potrò sicuramente sbagliarmi, ma non è sembrato molto logico mandare nel bel mezzo di una guerriglia urbana una macchina priva di qualsiasi sistema di blindatura con a bordo dei carabinieri ragazzi di venti anni, mentre per i “grandi” si è prevista la blindatura più totale. L’elenco delle domande potrebbe continuare all’infinito ed io le sintetizzo tutte così: “Gli strumenti utilizzati a Genova per mantenere l’ordine pubblico sono stati quelli giusti?” La mia risposta è no
Tuttavia, al di là di quello che è successo nelle piazze di Napoli e di Genova e dei modelli di prevenzione e di contrasto utilizzati, quello che emerge in tutta la sua gravità e che alcuni poliziotti, passati i momenti dello scontro di piazza, non hanno saputo considerare sacrosanto il corpo dell’arrestato. E questa è una cosa gravissima per un Paese democratico e civile che si ispira ai principi di libertà.
L’autocritica per quanto accaduto, deve essere di tutti, compresi quegli uomini politici che a Genova dirigevano direttamente le operazioni di ordine pubblico dalle sale operative delle Forze dell’ordine. Dal punto di vista dei sindacati di Polizia credo che alcuni rappresentanti sindacali dovrebbero essere più accorti nelle loro affermazioni e nelle loro false manifestazioni di “solidarietà”, per qualche tessera in più.
Da questo punto di vista mi chiedo quanto abbiano pesato, su quanto accaduto a Napoli il 17 marzo del 2001, le parole di un comunicato istigatore diffuso dal Siulp di Napoli proprio cinque giorni prima: alla luce dei recenti fatti sembra davvero molto, visto che addirittura lo stesso sindacato si sta caratterizzando per essere (consapevole o inconsapevole) strumento di un’altra battaglia, quella tra il governo e la magistratura, alla quale i poliziotti dovrebbero davvero essere estranei.
In questo particolare e delicato momento per il Paese, in cui sembrano essere state messe in discussione le garanzie costituzionali di tutti i cittadini, compresi i poliziotti, è necessario fare ricorso al più alto senso della ragione e dello Stato affinché il solco scavato tra la società civile e le istituzioni non diventi più profondo.
Prima e soprattutto dopo i fatti di Genova, le iniziative dei dirigenti nazionali e locali del Silp per la Cgil si sono mosse lungo questa direttrice. Altre sigle sindacali, tentando di accreditarsi come unici difensori dei poliziotti, stanno portando un subdolo attacco al nostro lavoro di dialogo e di confronto con chiunque abbia mostrato l’interesse comune di respingere ogni forma di violenza.
In questa fase sono in gioco interessi che vanno oltre la difesa corporativa della categoria e scambiare l’esigenza di costruire un confronto ed un dialogo con chi sembra essere “dall’altra parte” con la rinuncia a difendere i poliziotti, non solo è sbagliato, ma falso. Il dialogo può portare solo all’eliminazione dei conflitti violenti. La violenza nelle piazze, che qualcuno sembra voler ancora alimentare, in ogni caso, non potrà che ripercuotersi specialmente sui poliziotti impegnati al mantenimento dell’ordine.
I poliziotti sanno che stabilire la verità sui fatti di Napoli e di Genova è nel loro esclusivo interesse, perché non vogliono vedere spezzato il rapporto che in questi anni è stato costruito tra la Polizia e la società civile. Non vogliono tornare a essere un Corpo separato dalla società come è stato sino agli anni Sessanta. Vogliono continuare ad essere non solo cittadini tra i cittadini, ma cittadini per i cittadini
Quanto all’Amministrazione della pubblica sicurezza e al governo vorrei ricordare quanto affermò Ashcroft, un ministro della Giustizia americano, davanti ad alcuni scandali che coinvolgevano agenti dell’Fbi: “Nelle istituzioni ci sono sempre problemi e anche l’Fbi ha i suoi. Da come li combatterà si deciderà se resterà o no una grande istituzione”.
Varrà anche per le Forze di polizia italiane? Da quello che sta avvenendo in relazione alle contraddittorie dichiarazioni dei funzionari sembra proprio di no.
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