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settembre/2002 - Interviste
Immigrazione
Parlano i poliziotti dell’Ufficio
di Gianclaudio Vianzone

Due tutori della legge, in servizio presso la questura di Torino, espongono il loro pensiero sulla questione degli extracomunitari presenti in Italia anche alla luce della nuova legge approvata a Montecitorio

Con il gran parlare che si fa del “fenomeno immigrazione”, troppo spesso ci si dimentica che sotto i flussi migratori che hanno segnato la storia umana c’è sempre stata una massiccia responsabilità della squilibrata distribuzione del benessere.
Paradossalmente anche un Paese come l’Italia, che ad inizio 1900 ha visto congrue migrazioni dei propri figli, discute oggi di coloro che vengono nella nostra terra con toni allarmistici ed ostici.
Rincorrendo le ataviche paure umane, il timore della differenza, il senso dell’egoismo, politici di relativo senso etico hanno coniato slogan di vario genere per far vivere alla popolazione un problema sociale come se fosse invece un problema di mero ordine pubblico. Tattica efficace per accentuare le distanze, anche culturali, e sulla base di principi quale la “tolleranza zero” per ridurre gli spazi di diritto civile di chi è nato in condizioni meno fortunate delle nostre.
Sicuramente una grave responsabilità investe coloro che han fatto di tutto per rimuovere la memoria storica del nostro Paese, e così ci si è dimenticati delle storie che hanno addolorato l’Italia. Quanti rammentano la forte implicazione razzista che si inserì nel processo contro Sacco e Vanzetti negli anni ’20 in America? Certo la loro colpa più grande era di essere anarchici e pertanto di vedersi caricare responsabilità d’altri per essere condannati a morte; ma quanti rammentano le dure parole dell’accusa, quando per rafforzarne l’artefatta responsabilità penale indicava gli italiani come popolo di “pezzenti”, “animali” e “barbari”?
Passa il tempo ma gli uomini non migliorano. Ora l’italia è una grande nazione; così grande da far parte del G8. Ed ecco allora che in questa grandezza, in cui il lavoro si precarizza, la sanità diventa un lusso, la casa di proprietà un sogno, che non c’è posto per altri, soprattutto se hanno la pelle di colore diverso. Qualcuno ha anche provato a far prevalere l’equazione “immigrato = delinquente” salvo poi trovarsi smentito dagli imprenditori, che hanno fatto presente come quella forza di lavoro, di norma assunta in nero ed a condizioni antisindacali, fosse da interpretare come autentica risorsa.
Sì, risorsa, cioè qualcosa che è utile per essere sfruttata. In proporzione gli immigrati integrati sono pochi e poco o nulla viene fatto per attuare politiche di reale integrazione, per limitare la possibilità di alcuni “onesti” italiani di speculare sulla loro pelle.
Meglio piuttosto ridurre al mero rapporto lavorativo la presenza sul territorio nazionale dello straniero, dimenticando (o meglio fregandosene) che ha anch’esso famiglia, piuttosto che inasprire le sanzioni per chi assume cittadini extracomunitari con condizioni inaccettabili o affitta loro alloggi iperaffollati a costi spropositati ed a salubrità zero.
Ma poiché fa più scalpore ed attira di più l’attenzione (come tutte le notizie scabrose) è più utile parlare del fenomeno più appariscente nell’immigrazione: la delinquenza.
Considerazioni su chi è delinquente d’indole (che vale per tutti, anche gli italiani) e nella differenza che intercorre con chi, delinquente, lo diventa per esigenza di sopravvivenza, non si fanno, perché comporterebbero il porre in discussione l’attuale sistema e chi su questo lucra non ne ha voglia. Certo tali discorsi si sentono sovente, ma chi legifera pare non accorgersene.
Così, per dare un senso più ampio al discorso, ho ritenuto di discuterne con due persone che quotidianamente si confrontano con la realtà più onerosa delle istituzioni rispetto agli stranieri; due poliziotti che lavorano presso l’Ufficio immigrazione di una grande questura.
Il primo, Antonio Lanzano, Ispettore Sups, lavora da pochi mesi in tale ufficio; oltre ad una lunga esperienza professionale e sindacale che già in precedenza lo ha portato ad occuparsi di questa materia, ha un rapporto diretto con il mondo imprenditoriale che per il suo ruolo di responsabile di un ufficio, lo deve contattare per i dipendenti stranieri.
L’altra è una collega che ha chiesto di garantirle la riservatezza; lavora da molti anni in tale ufficio ed ha avuto così modo di trarne una grande esperienza umana e professionale.
Ecco le domande che abbiamo loro rivolto.
Quali sono, secondo voi, i problemi più frequenti che incontrano gli operatori degli Uffici stranieri nel rapportarsi con l’utenza e che si potrebbero risolvere con maggior impegno dell’Amministrazione? Come risolvereste voi questi problemi?
La collega - I rapporti tra gli operatori dell’Ufficio immigrazione ed i cittadini stranieri sono sostanzialmente di due tipi: il primo è di carattere amministrativo e riguarda tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti presenti in Italia che si recano allo sportello per richiedere il rilascio o il rinnovo del proprio permesso di soggiorno o di altri tipi di autorizzazione il cui rilascio è di competenza dell’Ufficio immigrazione (nulla osta al visto di ingresso in Italia per motivi vari); l’altro è di carattere “repressivo” e riguarda gli stranieri che si trovano in Italia in condizione di clandestinità e che vengono fermati dalle Forze dell’ordine e accompagnati presso l’Ufficio immigrazione per essere muniti di provvedimento di espulsione o, se già colpiti da tale decreto, per essere accompagnati alla frontiera dello Stato o per essere associati al Centro di accoglienza temporaneo.
Dal punto di vista dell’incidenza numerica è il primo tipo di rapporto ad essere più consistente e quindi i problemi che possono verificarsi nel rapporto tra operatori e stranieri, statisticamente è più facile che si verifichino in questa sede. Fortunatamente dal punto di vista umano non ci sono grossi problemi poiché gli operatori dell’Ufficio immigrazione, indipendentemente dal loro orientamento ideologico nei confronti della problematica dell’immigrazione, sono tenuti a svolgere il loro lavoro nel rispetto delle più elementari regole di educazione e nel rispetto della normativa a cui devono far riferimento. Il tutto fatti salvi episodi sporadici di eventuali contrasti tra utente e operatore che, del resto, possono verificarsi in qualsiasi ufficio pubblico indipendentemente dalla nazionalità delle persone interessate. È semmai dal punto di vista della qualità del servizio che l’operatore dell’Ufficio immigrazione presta nei confronti dello straniero che nascono spesso dei problemi che comunque sono indipendenti dalla volontà degli uni o degli altri: il numero di stranieri che ogni giorno accede allo sportello dell’Ufficio immigrazione è esorbitante rispetto al numero degli operatori in servizio. Questo determina il formarsi di code lunghissime che costringono gli stranieri a stazionare per molte ore nei locali dell’Ufficio stesso prima di accedere allo sportello, fatto che talvolta causa situazioni di tensione e nervosismo da parte di tutti.
Il problema dell’organico, basso rispetto alle esigenze, non riguarda solo gli addetti allo sportello, ma tutto l’Ufficio immigrazione, ovvero anche gli addetti alla definizione della pratica. E a causa di questo problema le attese per il ritiro dell’invocata autorizzazione da parte dello straniero arrivano fino ai sessanta giorni; questi tempi, così esageratamente lunghi, creano grossi problemi ai cittadini stranieri che magari a causa di questo ritardo rischiano di non poter essere assunti da un eventuale datore di lavoro o di non poter accedere al Servizio sanitario (questo solo per coloro che richiedono il permesso di soggiorno per la prima volta, poiché gli altri possono esibire la ricevuta attestante l’avvenuta richiesta di rinnovo per poter rinnovare la tessera sanitaria) o, ancora, rischiano di non poter far rientro in Italia in caso di una temporanea uscita dal territorio nazionale.
L’organico dell’Ufficio immigrazione, pur essendo aumentato in questi ultimi anni, non è adeguato alla crescita esponenziale del numero di cittadini stranieri qui presenti. In questo senso, secondo me, l’Amministrazione potrebbe impegnarsi maggiormente per far fronte a questo problema che, comunque, è un problema di tutta la questura di Torino e che deve essere risolto a livello centrale, ovvero da parte del ministero dell’Interno.
Lanzano - Sicuramente la mancanza di formazione: se l’Amministrazione dell’Interno si preoccupasse di formare e di aggiornare il personale degli Uffici immigrazione, si riuscirebbe a dare con competenza le giuste risposte alle domande poste dall’utenza. Ad esempio, in alcuni casi per rinnovare o rilasciare un permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato, vengono chieste le copie fotostatiche di alcune pagine del libretto di lavoro. In assenza delle stesse, viene sospesa la valutazione della pratica e dato un termine per produrre la documentazione richiesta. Tutto ciò sarebbe giusto se non fosse cambiata la legislazione: oggi il libretto di lavoro non viene più rilasciato, ma l’Amministrazione dell’Interno non lo ha ufficialmente comunicato ai propri uffici. Si può ben immaginare l’idea che si fa un cittadino del paese più remoto del mondo, quando si rende conto che la civile Italia ha diversi uffici della Pubblica amministrazione che non dialogano tra loro.
Se i diversi uffici della Pubblica amministrazione, almeno a livello locale, dialogassero tra loro con riunioni tecniche per far conoscere i diversi metodi applicativi e le problematiche riscontrate nello svolgimento del proprio lavoro, ogni ufficio potrebbe meglio comprendere cosa fare per permettere all’altro di lavorare bene e all’utente di raggiungere il proprio scopo.
La modifica alla legge sull’immigrazione, in qualche modo, prende in considerazione la creazione di sportelli unici, purtroppo non sembra che inserisca in tali strutture gli Uffici immigrazione delle questure.
C’è poi un problema legato all’informatizzazione: i computer, rispetto all’utilità che potrebbero avere presso gli Uffici immigrazione, sono pressoché inesistenti.
Oggi bisognerebbe passare dalla richiesta manoscritta dell’utente all’inserimento dei dati, direttamente dall’operatore dell’Amministrazione dell’Interno in un sistema operativo, assegnando un codice ad ogni domanda. In tal modo ogni utente, straniero o italiano che sia, potrebbe, attraverso il codice, verificare su un sito Internet a che punto è la propria pratica. Non solo!Un sistema computerizzato connesso ad una banca dati attraverso un sistema come Intranet, permetterebbe a tutti gli Uffici immigrazione di interagire nel campo amministrativo o giudiziario che sia, con grossi guadagni in termini di tempo, velocizzando procedimenti che oggi invece hanno tempistiche assurde.
Ritenete che la normativa vigente consenta pienamente il diritto ad una coesione famiiare degli immigrati?
La collega - La normativa vigente prevede la coesione familiare tra stranieri qui regolarmente soggiornanti ed i loro congiunti all’estero solo in presenza di determinati requisiti: in primo luogo deve essere documentata la presenza di un reddito derivante da fonti lecite, reddito che deve essere proporzionale al numero di persone che si intende ricongiungere; un altro requisito che bisogna possedere è quello di una sistemazione alloggiativa adeguata che rientri nei parametri minimi previsti per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica.
L’Istituto del ricongiungimento familiare, nel corso degli anni si è molto snellito dal punto di vista dell’iter burocratico: per esempio con l’attuale normativa, per ottenere il nulla osta al visto di ingresso da presentare alla rappresentanza consolare italiana nel paese straniero, non bisogna più esibire la documentazione estera relativa al vincolo di parentela presso la questura; la stessa va esibita direttamente alla rappresentanza consolare, unitamente al nulla osta; questo elimina tutti quei problemi che si verificavano con la vecchia normativa per cui se un documento estero era errato o mancante di qualche timbro, doveva essere rispedito nel paese di origine per la correzione con un notevole dispendio di tempo e di denaro.
Inoltre, uno straniero che si trova in Italia in modo regolare, ma provvisorio, magari con un permesso di soggiorno per motivi di turismo o di studio, a differenza di ciò che avveniva con la vecchia normativa, può richiedere il rilascio di un permesso di soggiorno per “motivi familiari” senza dover necessariamente lasciare il territorio nazionale, sempre che il suo familiare di riferimento possegga i requisiti anzidetti.
Poi, in caso di figli minori qui presenti anche in condizione di clandestinità, è possibile la regolarizzazione di fatto della loro posizione di soggiorno, purché conviventi con i propri genitori qui regolarmente soggiornanti, indipendentemente dai requisiti di casa e reddito.
Certo il problema resta per coloro, e non sono pochi, che lavorano in nero e che pertanto non posseggono “fonti lecite” di reddito. I lavoratori in nero si trovano così nella condizione che, oltre a non avere il riconoscimento del proprio lavoro dal punto di vista contributivo-previdenziale, non dispongono di un reddito documentabile e quindi non possono dimostrare il possesso di questo requisito.
Oltre tutto, dovendo dimostrare di ricevere un reddito in ragione del numero di familiari che si intende avvicinare, può capitare per esempio che un lavoratore straniero che ha una famiglia di quattro persone (moglie e tre figli), possa inoltrare la richiesta di visto di ingresso solo per due o tre persone perché magari non guadagna abbastanza per ricongiungere tutto il nucleo; in questo caso l’interessato è costretto così o a rinunciare alla presentazione della richiesta o a frammentare il nucleo familiare o ancora a scegliere la via della clandestinità per i familiari che la legge non permette di avvicinare.
Il requisito della disponibilità economica, introdotto dal legislatore allo scopo di garantire alla famiglia così ricongiunta, un decoroso tenore di vita, finisce di fatto col non tenere conto delle reali difficoltà che può avere un lavoratore straniero: innanzitutto, come già osservato, non tiene conto di coloro che lavorano in modo sommerso, spesso non per propria scelta; non tiene conto poi di quelle situazioni in cui il lavoratore straniero disporrebbe materialmente del reddito richiesto, ma si trova nella condizione di non poterlo dimostrare perché una parte del suo salario viene pagata “fuori busta” per volontà del datore di lavoro che in questo modo riesce a versare un numero inferiore di contributi nelle casse dell’Inps.
Certo c’è una certa miopia verso queste situazioni, ma tutto sommato, almeno rispetto al passato, la normativa garantisce l’avvicinamento dei propri familiari in tempi ragionevoli, anche se il tutto è relativo alle sole persone regolarmente soggiornanti.
Lanzano - L’attuale legislazione permette per certi versi la coesione familiare in modo sin troppo facile, nel senso che chi chiede di far entrare in Italia un proprio familiare deve dimostrare, tra le altre cose, un reddito che, secondo il mio punto di vista, non fa altro che accrescere il popolo dei poveri, mentre per altri versi complica la vita, ovvero vi sono degli aspetti burocratici non facilmente superabili. Non che si debba permettere al ricco o al dirigente di avere i familiari, mentre al poveraccio no; bisogna semplicemente permettere alle persone di vivere decentemente in Italia. Sicuramente deve essere permesso agli stranieri di ricongiungersi ai propri cari, ma le condizioni reddituali devono essere più confacenti allo stile di vita dell’italiano tipico.
Bisognerebbe, poi, eliminare la legalizzazione dei documenti secondo la vigente procedura. È inammissibile che per legalizzare un certificato si debbano fare giornate di coda davanti ai cancelli di una autorità diplomatica italiana, per poi ottenere, non la legalizzazione, ma solo l’appuntamento per recarsi ad ottenere quanto di cui il richiedente necessita. Bisognerebbe prendere in considerazione la possibilità di legalizzare i documenti presso le autorità diplomatiche stranieri in Italia, e poi farli tradurre da traduttori autorizzati e successivamente asseverarli.
E la nuova legge “Bossi-Fini”?
La collega - La legge Bossi-Fini, in materia di ricongiungimento familiare, è più restrittiva: non prevede più, per esempio, la possibilità di ricongiungere i genitori, ma solo i figli minori ed il coniuge. C’è da dire però che la legge stessa dovrebbe essere rivista e, date le pressioni dell’area cattolica, non è detto che questo ed altri aspetti vengano modificati, così come non è detto che alla fine sia in generale tanto diversa dall’attuale; e questo non per ravvedimenti che hanno a che fare con ragioni di salvaguardia dei diritti umani, ma semplicemente perché la classe dirigente sa benissimo che il fenomeno dell’immigrazione, che nasce da situazioni di disperata povertà che spinge la gente a spostarsi in zone del mondo dove poter assicurarsi almeno la possibilità di mangiare, finisce col diventare una sorta di business per piccoli e medi imprenditori occidentali. Non è difficile capire che il disperato bisogno di lavorare di persone che fuggono dalla miseria, costringe queste stesse persone ad accettare qualsiasi condizione di lavoro, permettendo all’imprenditore di giocare al ribasso non solo in termini salariali, ma anche in materia di diritti sindacali, ottenuti a fatica in questi ultimi anni di lotte sindacali.
Questo per sottolineare il fatto che, secondo me, c’è molta ipocrisia e contraddittorietà sul tema dell’immigrazione da parte della destra italiana che da una parte usa i toni duri ed intransigenti in nome di un’ambigua salvaguardia della cultura nazionale, e dall’altra deve fare i conti con la classe imprenditoriale, che la sostiene politicamente e che ha tutto l’interesse che ci siano sacche di persone che hanno un grande bisogno di lavorare a qualsiasi costo; il tutto per ridettare le norme in materia di lavoro e per spostare in generale l’asse normativo in senso più reazionario e conservatore.
Lanzano - Entrare nel merito della legge denominata “Bossi-Fini” non è semplice e sicuramente inopportuno; che l’attuale legge sia inefficace, è incontrovertibile: oggi molti extracomunitari rimangono anni senza un lavoro riuscendo sempre ad ottenere un permesso di soggiorno. Questo non può e non deve essere permesso, sia perché i tanti disoccupati in realtà vanno ad alimentare il mercato della manovalanza irregolare, sia perché si crea manodopera per la criminalità. Ecco perché ritengo importante che, così come ha previsto la nuova legge, uno straniero, una volta lasciato un posto di lavoro, se non ne trova un altro nell’arco di un certo periodo, debba lasciare il Paese.
Considerato che l’ultimo censimento conferma il numero degli italiani presenti nella nazione, ma include, stante la bassa natalità nostrana, tutti gli stranieri integrati, pensate che la normativa vigente e quella proposta dall’attuale governo siano indirizzate ad una piena integrazione multietnica o che, con l’alibi della salvaguardia culturale, di fatto respingano tale concetto?
La collega - Una simile riflessione la farei anche a proposito di questo quesito. Il problema è molto più subdolo e complesso rispetto alla più o meno marcata volontà di integrazione multietnica da parte dell’attuale governo. Nell’assetto complessivamente reazionario di questo governo, mi sembra di notare due anime: una più populista che arriva ad abbracciare idee xenofobe in nome di una salvaguardia dell’identità culturale italiana, molto pericolosa perché fomenta e giustifica episodi di intolleranza razziale nel vivere quotidiano. L’altra più liberista che, come già osservato prima, è interessata a salvaguardare i forti interessi economici della classe imprenditoriale. Il disegno finale, molto preoccupante, è quello di una generale volontà di “sculturizzazione” di tutta la società civile italiana e non (basti vedere la legge sull’istruzione).
C’è la tendenza ad aumentare il divario, peraltro già esistente, tra la scuola di sere A che dovrà formare la futura classe dirigente ( il cui suo essere di serie A ha poco a che fare con la cultura) e quella di serie B che dovrà formare la classe lavoratrice dove la parola cultura non si sa neppure cosa voglia dire. In quest’ottica non penso che ai centri di potere interessi più di tanto che in questa “sottoscuola” tra un marocchino ed un italiano ci sia o no una reale integrazione multietnica; l’obiettivo principale semmai, proprio attraverso questo impoverimento culturale, è quello di garantire un’omologazione dei costumi in senso essenzialmente consumistico, al di là, ma non nella conoscenza e nel rispetto, delle differenze etniche e religiose.
Lanzano - Premesso che sarebbe opportuno capire quale governo ha creato le condizioni per permettere una vera integrazione, la domanda che oggi bisogna porsi è se gli stranieri vogliono integrarsi. Bisogna smetterla di pensare che si deve capire la diversa identità culturale. Come viene chiesto all’europeo quando questo si sposta, di adeguarsi agli stili di vita del paese in cui va, allo stesso modo il cittadino extracomunitario deve adeguarsi alle regole, leggi e stili di vita dei paesi europei in cui decide di stabilirsi. È inammissibile che nel 2002 vi siano ancora degli uomini che considerano la donna un essere inferiore; è insostenibile sapere che determinati extracomunitari, poiché non considerano immorale oltre che penalmente perseguibile lo sfruttamento dei minori, si avvalgono degli stessi per trarne illeciti profitti.
Una cosa si dovrebbe prevedere: l’obbligatorietà, per chi decide di stabilirsi in Italia, di seguire corsi di educazione civica, affinché ciò che un italiano sa per trasmissione dalla sua cultura, lo straniero possa apprenderlo didatticamente.
Mi raccontate una vostra esperienza professionale che vi ha impressionato sotto il profilo umano ed una che invece vi ha fatto riflettere sulla differente situazione di alcune etnie?
La collega - L’esperienza che racconto non è la più significativa o la più grave che mi è capitato di vivere, ma è quella più recente e che, in qualche modo, mi ha coinvolto in quanto donna.
Si tratta di una cittadina straniera in stato di gravidanza che si è recata nel mio Ufficio. Premetto che la normativa vigente riconosce alle donne straniere qui presenti in modo irregolare che si trovano in stato di gravidanza, o nei sei mesi successivi alla gravidanza, il diritto di avere un permesso di soggiorno, straordinario e provvisorio, relativo a questo periodo. La cittadina straniera che si trovava nel mio ufficio per definire questo tipo di istanza, si era presentata unitamente ad un cittadino italiano che potevo supporre fosse il padre del nascituro. Io stavo spiegando alla convenuta che, se il figlio che sarebbe nato fosse stato riconosciuto da un padre italiano, sarebbe anch’egli nato cittadino italiano e che, in virtù di tale aspetto, la madre avrebbe avuto il diritto di richiedere il rinnovo del proprio permesso di soggiorno provvisorio per ottenerne uno di lunga durata per motivi di famiglia. A quel punto la persona italiana che accompagnava la cittadina straniera è intervenuto dicendo che lui probabilmente era il padre del nascituro, ma che prima di riconoscerlo lo avrebbe voluto sottoporre ad un esame del dna per avere la certezza che si trattasse davvero di suo figlio. Dopo questo intervento la cittadina straniera è rimasta impietrita, ha cominciato a guardare il suo accompagnatore visibilmente ferita dalla sua esternazione tanto che alla fine non è riuscita a trattenere le lacrime.
Mi sono subito immedesimata in quella ragazza che, tra l’altro, era molto giovane e non riuscivo neanch’io a capire se la cosa più dolorosa che sentiva in quel momento era l’angoscia per l’incertezza legata alla regolarizzazione della propria posizione di soggiorno, l’umiliazione appena subita o il senso di pudore determinato dal fatto che tale umiliazione l’avesse vissuta in un ufficio pubblico davanti a persone perfettamente sconosciute.
Lanzano - Probabilmente esperienze che ti colpiscono umanamente non passano dagli sportelli degli Uffici immigrazione, il tipo di utenza con cui tratto è per la maggior parte gente che ha già il permesso di soggiorno o che lo chiede, avendone diritto, per la prima volta. Mi hanno colpito, invece, i modi con cui cercano certi utenti di certe nazionalità di aggirare gli ostacoli. Non di rado gli utenti minacciano di chiamare i giornalisti o certi politici se non ci adoperiamo per fargli ottenere ciò che vogliono. Grazie ad una informazione artefatta e grazie a certi politici che sono convinti che Polizia significhi arroganza e/o violenza, rischiamo di diventare ostaggi nelle mani dell’extracomunitario di turno, amico del religioso del proprio paese operante in Italia, o dell’extracomunitario che annovera tra le sue conoscenze lo pseudo sindacalista o politico a caccia di tessere e voti.
Probabilmente per migliorare il servizio immigrazione bisognerebbe toglierlo dalle dipendenze funzionali delle questure per dargli, sotto la dipendenza del ministero dell’Interno, un proprio assetto, una propria organizzazione e compiti molto specifici. Oggi tali uffici dovrebbero dipendere dalle “Zone” della Polizia di Frontiera alle quali dovrebbe spettare il compito di coordinarli e di coordinare gli interventi con le questure. Il personale degli Uffici immigrazione dovrebbe essere assegnato sulla base di organici determinati direttamente dal Ministero e non come oggi avviene, secondo interessi dettati da ragioni politiche.
L’intervista è conclusa.
Continuo ad interrogarmi: “ma se siamo un Paese così grande, così civile, perché abbiamo i centri di detenzione temporanea di cui nessuno ancora mi ha dimostrato la legittimità costituzionale?” Sono un’indegnità ed andrebbero chiusi e con meno “business” internazionali si potrebbe realmente creare una reciprocità collaborativa. Se i politici si calassero qualche volta fra le realtà quotidiane di chi opera su temi sociali importanti, come quello dell’immigrazione, forse partorirebbero leggi meno sbilanciate sull’aspetto speculativo economico e più aderenti all’umanità delle persone, ma probabilmente la realtà è sempre come quel bicchiere che per alcuni è “mezzo vuoto”, per altri “mezzo pieno”!

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