Era successo a livello nazionale. Ora succede a livello internazionale. Uno degli effetti classici del terrorismo è il ricorso - da parte degli Stati - a leggi speciali restrittive della libertà, norme e interventi di emergenza che si giustificano con la necessità di far fronte agli attacchi criminali, ma che poi coinvolgono e riguardano tutti i cittadini. È un problema annoso, di difficile soluzione, ma che rischia ogni volta di creare mostruosità giuridiche. È passato ormai un anno dall’attentato alle Torri Gemelle di New York. Un anno intenso, durante il quale gli Stati Uniti hanno tentato di reagire alla tragedia che per la prima volta ha colpito il loro paese e la loro gente sul territorio nazionale. All’attentato il governo americano ha reagito in due modi: preparandosi e attuando subito nuove guerre esterne (questa volta contro un nemico che rimane invisibile: prima in Afghanistan, ora in Iraq) e con l’irrigidimento di tutte le misure di Polizia interna. Alla reazione degli Usa corrisponde poi una reazione della comunità internazionale che in questo caso – a differenza di quel che era successo con le guerre cosiddette “umanitarie” - non sembra affatto volersi appiattire sui voleri della superpotenza. Al momento in cui prepariamo questo numero della nostra rivista, per esempio, solo il premier inglese Tony Blair si è schierato nettamente con Bush a proposito della necessità di un nuovo attacco militare all’Iraq. Molte critiche sono state invece le posizioni espresse dai politici tedeschi alla vigilia delle loro elezioni politiche, quasi a dimostrazione che la guerra non è vista più, almeno in Europa, come uno strumento da utilizzare senza considerare i tragici e spesso inutili effetti (a fini dello scopo che si dichiara: Saddam Hussein, in fondo, sta ancora al suo posto dopo tutte le guerre americane).
Sia sulla guerra che sulle misure di Polizia è stato molto intenso il dibattito in questo anno che è passato da quell’evento dell’11 settembre, che per molti ha “cambiato il mondo”. Ora tocca anche all’Europa mostrare una sua autonomia politica e giuridica reale rispetto agli Stati Uniti. E infatti l’Unione europea ha già dato segnali interessanti, anche se spesso contraddittori. Anche qui nel vecchio Continente i problemi della lotta al terrorismo assumono sostanzialmente due facce dal punto di vista politico generale: la scelta sulla guerra (ora il tema in discussione è l’Iraq) e le scelte sulle politiche della sicurezza. Su questo secondo punto il mese di settembre è stato carico di appuntamenti importanti. Al Consiglio dei Ministri europeo di metà mese si sono discusse per esempio le ultime proposte in tema di controllo. In particolare ha suscitato scontri politici di diversa natura la proposta del governo danese di registrare tutte le conversazioni e le comunicazioni elettroniche di ogni genere, dalle telefonate tramite apparecchi fissi, fino alle telefonate tramite cellulari, passando per la registrazione completa e generale di tutti i messaggi sms, scritti e audiovisivi (mms). Naturalmente nell’occhio (e nelle orecchie) del controllo passerebbero anche tutte le comunicazioni via computer e Internet.
In particolare, secondo sempre la proposta danese, tutti i fornitori di Internet e tutti i gestori di telefonia mobile e fissa dovrebbero registrare e conservare tutte le telefonate dei cittadini europei, le loro e-mail, i messaggi sui telefonini. I gestori dovrebbero, sempre secondo questa proposta, tenere un grande archivio (che conservi i dati di anno in anno) da poter mettere a disposizione della Polizia in ogni momento. Su questo tema e sulla proposta specifica del governo danese è intervenuto Stefano Rodotà, che attualmente presiede il gruppo dei Garanti della privacy europei. Prima ancora della ufficializzazione della proposta danese, il presidente dei Garanti ha annunciato la sua volontà di porre il problema della gestione del controllo delle informazioni ai massimi livelli. Per questo Rodotà ha deciso di sollevare la questione alla Conferenza mondiale della privacy che si è tenuta il 9 settembre a Cardiff.
Secondo Rodotà bisogna stare molto attenti a non commettere l’errore di sovrapporre le giuste esigenze di sicurezza a quelle del rispetto dei diritti dei cittadini. “Conservare tutte le comunicazioni telefoniche, che peraltro sarebbero accessibili solo alla Polizia – spiega il Garante – mi sembra in contrasto con le norme costituzionali e con i limiti previsti in Italia per le intercettazioni. Sarebbe come una licenza di intercettazione globale e l’intervento della magistratura ci sarebbe solo al momento di accedere ai dati”. E poi chi controllerebbe i controllori? La vecchia domanda in questo caso è ancora più giustificata perché, almeno secondo l’iniziale proposta danese che sarà sicuramente modificata o quantomeno aggiustata, dovrebbero essere gli stessi gestori privati a organizzare la banca dati alla quale poi “appozzare” al momento del bisogno. Si produrrebbe così una situazione inedita e per ceri versi paradossale. I privati (le società di gestione di Internet e telefonia) che controllano e gestiscono le informazioni di altri privati (i cittadini) per conto del potere pubblico (Polizia e magistratura). C’è stato quindi anche chi, come Andrea Monti, presidente dell’Alcei, l’Associazione per la tutela dei diritti civili on-line, che ha fatto notare i rischi di spionaggio industriale. Che cosa impedirebbe ad aziende che vogliono curiosare nelle faccende di altre aziende di farlo? Certamente le regole, ma con un mega-archivio di dati come quello che si formerebbe chi può essere considerato veramente affidabile?
È difficile trovare soluzioni corrette, anche perché come ha detto più volte il sociologo Fabrizio Battistelli che si occupa da anni di problemi di sicurezza e di guerra, spesso si tende a dividersi tra guerrafondai e pacifisti assoluti. Per la prima categoria di persone il problema della difesa dei diritti fondamentali si pone in secondo piano perché il problema principale è quello di annientare con ogni mezzo il nemico (vero o presunto che sia). Per i pacifisti assoluti, al contrario, si deve essere sempre contro il ricorso alla forza armata nel rispetto dei diritti, anche quando i diritti stessi sono calpestati da chi il problema proprio non se lo pone. La questione è antica quasi quanto l’umanità, o almeno quanto Caino. Per rimanere, per ora, al problema del controllo, ci sembra che la posizione di Rodotà sia la più equilibrata. “Nel documento approvato dal gruppo europeo dei Garanti nel dicembre 2001, dopo l’11 settembre – ha detto Rodotà in una intervista a un quotidiano – è stato ribadito che non si può prospettare un’alternativa secca tra sicurezza e privacy, ma si deve sempre trovare un punto di equilibrio, che non può mai sacrificare integralmente la privacy, anche perché la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea l’ha proclamata diritto umano fondamentale”.
Paolo Andruccioli
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