Dal 1897 ad oggi il difficile percorso dell’idea sionista Scontri, morti, guerre, attentati in un rapporto che non si concilia, quello tra ebrei e palestinesi
Tutto è iniziato quando a Basilea, il 29 agosto 1897, Theodor Hertzl fonda il Movimento sionista internazionale con il fine di riportare gli ebrei in Palestina. L’anno precedente lo stesso Hertzl aveva pubblicato Der Judenstaat (Lo stato degli ebrei) che è poi divenuto il manifesto del sionismo politico. Il presupposto dell’analisi di Hertzl è abbastanza semplice: non esiste alcuna possibilità di integrazione o assimilazione degli ebrei nelle società “cristiane”; l’antisemitismo è un fenomeno ineluttabile e avrà necessariamente conseguenze catastrofiche; occorre, con urgenza, trovare un rifugio per gli ebrei; l’unica soluzione possibile è quella politica, cioè la creazione di uno Stato per gli ebrei in Palestina.
In effetti è sbagliato dire che tutto è iniziato nel 1897. Il problema era nato secoli prima, con il nascere della persecuzione e della discriminazione antiebraica soprattutto nelle società cristiane (nelle società musulmane gli ebrei erano molto più accettati ed integrati) e si era mantenuto nei secoli come un carattere costante con punte di ignobile accanimento.
In quel periodo - siamo alla fine dell’Ottocento - la Palestina era un tranquillissimo dominio dell’Impero Ottomano dove la gente viveva di agricoltura e di pastorizia. Anche se l’intenzione era quella, il Congresso sionista di Basilea, per non urtare il sultano ottomano, non parla di creare uno Stato e si limita a far riferimento ad un insediamento “protetto dal diritto pubblico” (e non dal diritto internazionale).
Gli esordi del sionismo si rivelano difficili: i negoziati con il sultano falliscono, le grandi potenze esitano a concedere sostegno a Hertzl, la Chiesa cattolica si dimostra ostile. Ad un certo punto, dopo diversi tentativi, Hertzl riesce a far approvare la proposta di assegnare agli ebrei un territorio in Uganda, ma questa proposta non suscita molto entusiasmo tra gli stessi ebrei.
Il sionismo ottiene la propria consacrazione con la Prima Guerra Mondiale, che segna anche la definitiva disgregazione dell’Impero Ottomano: gli inglesi nel 1917 conquistano la Palestina e viene pubblicata la dichiarazione Balfour in cui si fanno richiami espliciti e talvolta letterali del programma di Basilea. La Gran Bretagna ottiene nel '23, dalla Società delle Nazioni, il mandato di amministrare la Palestina. L’atteggiamento britannico, appare ben presto ambiguo: Churchill spiega che è necessario creare un territorio nazionale in Palestina per il popolo ebraico, ma ciò non significa che tale territorio debba coincidere con l’intera Palestina. Gli arabi non riconoscono ovviamente alcun valore alla dichiarazione Balfour, ma ciò non impedisce che inizi una prima massiccia ondata migratoria di ebrei (i quali - non bisogna mai dimenticarlo - si salvarono in questo modo dallo sterminio nazista). La proporzione fra ebrei ed arabi, che era di 1 a 40 all’inizio del XIX secolo, diventerà di 2 a 1 nel 1947, dopo la seconda massiccia ondata migratoria che si verificò al termine della Seconda Guerra Mondiale e che coinvolse molti scampati dai campi di sterminio.
La contestazione araba va intensificandosi, in particolare dal '36, e negli anni successivi si registreranno numerose vittime tra gli ebrei in cerca di una propria patria e i palestinesi che non vogliono essere cacciati dalla loro terra. Nel dopoguerra la lotta degli ebrei assume anche forme spiccatamente terroristiche, con attentati dinamitardi e simili.
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva un piano di ripartizione territoriale tra israeliani e palestinesi, che poi verrà sensibilmente modificato.
Il 15 maggio 1948 viene dichiarato lo “Stato di Israele”. È insediato un governo provvisorio, sotto la guida di David Ben Gurion. Viene eletta un’Assemblea costituente, incaricata di adottare una Costituzione per il paese. Questo compito non verrà portato a termine ed ancora oggi, Israele non possiede una Costituzione formale: un segno, questo, ed una conseguenza del fatto che sulla definizione dei propri confini e dei propri rapporti con la realtà palestinese, il sistema israeliano si rifiuta o non è capace di dire qualcosa di definitivo e di chiaramente impegnativo per sé e per gli altri, i propri vicini: su questi temi, le posizioni israeliane in questi 50 anni si sono sempre mantenute su un piano di ambiguità se non di ipocrisia.
I primi anni vengono consacrati all’organizzazione del nuovo Stato e delle sue istituzioni. Vengono costruite case, scuole, ospedali e istituita una cassa malattie. Il sistema economico-sociale, in cui gioca un ruolo importante ed in qualche misura “eroico” il Kibbutz (un’azienda agricola nella quale la proprietà è collettiva e le famiglie stesse sono organizzate secondo un modello comunitario) presenta una marcata impronta socialista; nei primi anni del dopoguerra, l’Urss simpatizza per la causa israeliana mentre sono le ex potenze coloniali a garantire gli interessi dei paesi arabi. Nei primi trent’anni di vita del paese, e precisamente fino al 1977, la scena politica nazionale è dominata dal Partito Laburista (originariamente con il nome Mapai). Nel frattempo nei primi anni '70 viene fondato il partito della destra nazionalista, il Likud (che significa coalizione) che dà voce ai sempre più forti sentimenti anti-arabi della popolazione e alle spinte verso la “Grande Israele” (cioè uno Stato israeliano che abbia non solo i territori conquistati nel 1967 e successivamente, ma anche tutta l’area territoriale occupata dagli ebrei migliaia di anni or sono e quindi anche gran parte dell’attuale Giordania, parte della Siria e parte del Libano) che, come tutti i nazionalismi, si nutrono di mitologie religiose e storiche. Il Likud riesce a raggiungere, e infine a superare, i laburisti, diventando così ora il partito di governo e relegando i laburisti ad un ruolo di subalterni comprimari.
Tornando agli anni immediatamente successivi alla proclamazione dello Stato d’Israele, la Lega Araba attacca subito il nuovo Stato, con il fine dichiarato di “gettare gli ebrei in mare”. In ebraico questa guerra (1948-1949) è definita sia “guerra di indipendenza” che “guerra di liberazione”. Malgrado la superiorità numerica e militare degli eserciti arabi (egiziani, giordani, siriani, libanesi, irakeni, sauditi), gli abitanti del nuovo Stato sconfiggono duramente gli avversari, grazie ad un maggiore spirito combattivo, ad una più agile strategia ed agli aiuti della comunità ebraica internazionale. Si pongono le basi per una ferrea alleanza tra Israele e gli Stati Uniti e sarà questa alleanza che caratterizzerà la successiva evoluzione della situazione o meglio la sua impossibilità di evolversi verso una soluzione stabile, in un contesto di divisione del mondo in due blocchi militari, di concomitante collegamento tra gli Usa e le satrapie arabe del petrolio e di alleanza tra i paesi socialisti e l’insorgente nazionalismo arabo, venato di socialismo (a quel tempo il fondamentalismo musulmano non era ancora un fenomeno degno di nota: erano gli occidentali ed anche gli israeliani che spesso lo alimentavano, per usarlo come antidoto al nazionalismo indipendentista). I palestinesi sono i grandi sconfitti di quella guerra che le dittature arabe avevano proclamato con tanta retorica e con poca serietà. Alla fine della guerra Israele si ingrandì rispetto al piano di spartizione Onu, occupando anche la parte orientale di Gerusalemme. La Transgiordania, che mutò il suo nome in quello di Giordania, incamerò i territori occupati dalle sue truppe durante il conflitto, sottraendoli all’ ipotizzato Stato arabo di Palestina. Quest’ultimo non vide mai luce. Nascono i campi profughi in Libano, Siria e Giordania con quasi due milioni di persone senza cibo né acqua: comunità turbolente e spesso invise anche agli arabi locali tanto che nel settembre 1973 (settembre nero) i giordani massacrano migliaia di palestinesi. La vita dei palestinesi in tali campi si trasforma presto in un inferno e così, del resto continua ad esserlo ancora oggi.
Altra guerra nel '56 (la guerra del Sinai) con relativa vittoria di Israele e così via fino alla guerra dei sei giorni nel 1967.Il presidente egiziano Nasser prese l’iniziativa di una nuova offensiva anti-israeliana. Il 22 maggio annunciò il blocco di tutte le navi che, passando attraverso il golfo di Aqaba, si dirigevano verso Israele. La risposta israeliana fu immediata. Dopo un terribile attacco aereo che distrusse gran parte dell’aviazione nemica, l’esercito israeliano mosse contro Egitto, Siria e Giordania, giungendo in sei giorni ad occupare la Cisgiordania con la parte araba di Gerusalemme, le alture di Golan e addirittura l’intera Penisola del Sinai. Poco dopo la conclusione del conflitto, l’Onu tenta di giungere ad un accordo negoziato. Viene adottata la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza (22 novembre 1967) che enuncia i principi sui quali dovrà essere costruita la pace fra Israele e i paesi vicini. La sua linea ispiratrice è, in sostanza, quella racchiusa nella formula “i territori in cambio della pace” ed è la formula che ancora oggi rappresenta l’unica strada seria per la ricerca della pace. La risoluzione viene approvata da Israele in linea di principio, ma con una riserva riguardante l'espressione “territori occupati”: secondo gli israeliani l’impegno per Israele non è quello di ritirarsi “dai territori” occupati - e cioè da tutti i territori occupati, ma di ritirarsi “da territori occupati” e cioè solo da alcuni di essi, non tutti: che vi sia in ciò una forte componente di ipocrisia appare chiaro.
Per molto tempo quella formula ha rappresentato la chiave di volta ma anche lo scoglio, di ogni negoziato. Nel frattempo le condizioni dei profughi palestinesi si aggravano sempre di più: circa trecentomila profughi, si spostarono in Giordania e nel Libano. Il loro disagio si tradusse in un rafforzamento dei gruppi di guerriglieri, confluiti nel 1969 nell’Olp - Organizzazione per la Liberazione della Palestina -, guidata da Yassser Arafat, che all’origine mirava espressamente alla distruzione di Israele e alla creazione di uno Stato arabo indipendente in tutta la Palestina. Le unità combattenti dell’Olp (i feddayin) cominciarono ad agire con attentati terroristici (si ricordi l’uccisione degli atleti israeliani ai Giochi Olimpici di Monaco del 1972), dirottamenti aerei, incursioni in territorio israeliano, a cui puntualmente Israele rispondeva con bombardamenti sui territori confinanti, in particolar modo Giordania e Libano, dove i feddayin avevano le loro basi.
Nel 1973 gli arabi ci riprovano di nuovo e precisamente sabato 6 ottobre, festa dello Yom Kippur (giorno di digiuno molto rispettato in Israele, durante il quale il paese si ferma). In un primo momento l’attacco egiziano riuscì a superare la resistenza dell’esercito israeliano, che solo una ventina di giorni dopo ristabilì le condizioni di partenza. Il mito della superiorità militare israeliana era stato, dunque, scalfito dall’andamento della guerra del Kippur.
Gli anni passano ma la situazione rimane inalterata: centinaia di morti da entrambe le parti. L’acme si raggiunge con la nascita della prima Intifada (in arabo significa rivolta, risveglio o risorgimento). Infatti alla tragica morte di otto operai palestinesi causata da un camionista israeliano il 7 dicembre 1987 seguì dopo poco questa insurrezione popolare durata sette anni. Si tratta della rivolta dei palestinesi dei territori occupati contro gli israeliani, contro la colonizzazione israeliana nei territori. In questa prima Intifada, a cui seguirà nel settembre 2000 una seconda, la protesta si espresse con scioperi, boicottaggi e varie altre forme di disobbedienza civile. Vi furono anche azioni simbolicamente “violente”. I palestinesi usavano l’arma di cui disponevano più facilmente, i sassi, per attaccare soldati e coloni: da qui il nome “guerra delle pietre”. A questo punto la ricerca di un compromesso capace di rompere la spirale della violenza e del non riconoscimento era diventata inevitabile, anche perché questo tipo di ribellione ad un’oppressione sempre più antistorica - dopo che ovunque nel mondo erano finiti i domini coloniali e dopo che l’illegittimità dell’occupazione dal punto di vista del diritto internazionale non veniva più contestata quasi da nessuno - aveva suscitato molte simpatie ed aveva creato una situazione di progressivo isolamento per Israele. Nel 1991 iniziano una serie di negoziati tra le due parti. È la prima volta. Ma in questa fase non si registra alcun progresso. Sarà necessario attendere l’elezione del governo di sinistra guidato da Isac Rabin (giugno 1992). Dopo una serie di negoziati segreti, l’accordo verrà solennemente firmato a Washington, alla presenza del presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, il 13 settembre 1993, con il titolo di Dichiarazione dei principi (detta comunemente “Oslo 1”). Non siamo ancora alla pace ma qualcosa inizia a muoversi sul serio. Vi sono però alcuni elementi ostili all’accordo che intraprendono un’azione di delegittimazione del governo, di cui l’omicidio di Rabin (4 novembre 1995), ad opera di un estremista religioso, costituisce la logica conseguenza. Altri settori accolgono, invece, l’accordo in modo quasi euforico. L’immagine di Israele nel mondo si modifica: l’economia decolla e gli investitori stranieri premono alle porte del paese. Purtroppo questa schiarita dura ben poco: soprattutto a causa dello scoppio della seconda Intifada (settembre 2000) verificatosi successivamente all’uccisione di cinque palestinesi che protestavano all’indomani della visita del leader israeliano di destra Ariel Sharon.
Per alcuni gli accordi di Oslo non erano un trattato di pace tra lo Stato d’Israele e l’Olp. La loro funzione principale doveva essere quella di avviare un lungo e graduale processo di pace nel corso del quale entrambe le parti avrebbero dovuto imparare a rispettare i diritti reciproci. Ma purtroppo la fiducia nel processo di pace inizia a scemare: gli israeliani hanno finito per diffidare di Arafat e dei suoi seguaci, i palestinesi hanno pensato che gli israeliani non avessero alcuna intenzione di acconsentire alla nascita di uno Stato palestinese, funzionante e soprattutto indipendente.
Uno spiraglio di luce si era intravisto nel gennaio 2001 a Tãbã. Si tratta di un accordo raggiunto dai negoziatori israeliani e palestinesi con la mediazione americana ma anche in questo caso l’intesa è saltata per le difficoltà politiche di Barak e per la diffidenza di Arafat.
Il resto è cronaca di questi mesi. Sharon minaccia Arafat. Arafat lancia la seconda Intifada e contempla il terrorismo come arma. Sempre in attesa che qualcuno restituisca la parola a chi sappia e soprattutto voglia avviare il dialogo.
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