Insieme ad altre quattro “famiglie” si divideva le attività illegali a New York. Il suo lavoro ufficiale era quello di fornitore di materiali idraulici. Rudolph Giuliani (da procuratore di Manhattan che per anni gli ha datto la caccia) disse di lui: “Uno psicopatico cui piace uccidere”
Lo potevi incontrare, dieci anni fa, mentre passeggiava tranquillo per le viuzze di quel quadrilatero in cui si è ridotta Little Italy, soprattutto fatta ormai da ristoranti che ti propinano quella che i turisti americani credono sia la cucina italiana. Quasi sempre al suo fianco c’era un tipo tracagnotto: il suo underboss, non a caso conosciuto nell’ambiente come Sammy the Bull, Sammy il toro. Sarà lui, Sammy Gravano, alla fine, il Giuda che lo tradirà come nelle migliori tradizioni; e sarà grazie alla sua testimonianza (oltre a svariate ore di intercettazioni ambientali) che i federali riusciranno a condannarlo, e buttar via la chiave della cella.
Si sta parlando di John Gotti, il potente capo della famiglia mafiosa dei Gambino, una delle cinque che si dividevano il mercato delle attività illegali a New York (le altre sono i Bonanno, i Colombo, i Genovese, i Lucchese). Gotti è morto il 10 giugno scorso: un tumore lo aveva azzannato alla gola e al collo, e per lui non c’è stato scampo.
Nei momenti di gloria, quando sembrava invincibile e onnipotente, giornalisti e ammiratori lo avevano soprannominato Dapper Don: perché era sempre impeccabilmente vestito, abiti da migliaia di dollari firmati dalle migliori sartorie; e dire che ufficialmente faceva il fornitore di materiali idraulici. “Ho fatto fortuna”, rispondeva beffardo, “e come un onesto lavoratore ora mi godo un po’ la vita”. Un altro soprannome glielo avevano appiccicato i cronisti giudiziari: “Teflon Don”, il boss di teflon, cioè colui al quale nulla resta attaccato; per anni si era fatto beffe di poliziotti e investigatori, che non riuscivano a incastrarlo; le accuse contro di lui scivolavano via, anche grazie ai bravissimi e agguerriti avvocati che lo difendevano, Bruce Cutler in testa: un tipo che puoi incontrare in quella parte di Manhattan che dà tra la Quinta strada e la Avenue of America, cappellaccio da cow-boy sul cranio rasato, enorme sigaro in bocca, lo sguardo di chi dice: “Pensa quel che vuoi, ma si fa come dico io”. I federali, per levarselo dai piedi, hanno fatto ricorso a un trucco non proprio ortodosso: il giudice Leo Glasser lo ha accusato di essere un mafioso, e di avere una parte attiva nelle stesse attività criminose del suo patrocinato, riuscendo in questo modo a eliminarlo dal collegio di difesa.
Sbruffone, arrogante, Gotti nulla aveva del mafioso come nell’immaginario collettivo si è abituati a credere e pensare. “La differenza di stile tra i vecchi mafiosi di origine siciliana e quello degli ‘eredi’ americani”, spiega Douglas Le Vien, sostituto procuratore distrettuale di Brooklyn, “è che negli Stati Uniti il boss arriva in limousine, sta piovendo, e un tirapiedi accorre immediatamente con l’ombrello. Una volta, quando i boss erano siciliani, erano loro ad accorrere con l’ombrello”.
Immagine suggestiva, che si riferisce a una mafia morta e sepolta da tempo. L’ultimo esponente di questo tipo di boss è forse Vincent Gigante, detto The Chin, boss dei Genovese. Ora è in carcere anche lui; era famoso per il suo modo di fare bizzarro e pazzoide: passeggiava in pigiama, con l’aria stravolta e gli occhi fuori dalle orbite per Mulberry Street. “Faceva il pazzo, ma è tutt’altro che pazzo”, assicurano gli investigatori. “Recitava: una commedia per sfuggire alle autorità”.
Di ben altra pasta, John Gotti. “Un gangster urbano che a un certo punto diventa mafioso. Un omicida patologico, uno psicopatico cui piace uccidere”, ha detto di lui Rudolph Giuliani, che da procuratore di Manhattan South, per anni, gli ha dato la caccia. “L’ultimo dei Mohicani, lo ha definito la figlia Victoria, una signora bionda ossigenata che da qualche anno sfrutta il cognome che porta scrivendo libri che la critica non degna di uno sguardo, ma vendono.
Johnny “boy” era nato nel 1940, nel South Bronx, quarto di una modesta famiglia italiana con undici figli. All’inizio, un bulletto come tanti, che grazie alle sue bravate si guadagna l’espulsione dalla Franklyn K.Lane High School. Sedicenne, fa parte di una gang dell’East New York e si “specializza”: scassinatore di banca, killer a contratto. È sotto l’ala protettrice di Charlie Fatico, uno dei boss dei Gambino; il salto di qualità il 22 maggio del 1973: quando, travestito da poliziotto, uccide James McBratney, un barman irlandese che aveva avuto una pessima idea: rapire e poi uccidere il figlio di Carlo Gambino, il mitico “don” che ha tra l’altro ispirato Mario Puzo per il suo The Goodfather. Gotti “provvede”; finisce in carcere, ma si guadagna la benevolenza e riconoscenza del clan; che lo premia, facendolo diventare il braccio destro di Aniello “Neil” Dellacroce, uno dei mafiosi più vicini a Gambino.
In quel periodo Gotti comincia a dedicarsi al traffico e allo spaccio della droga, attratto dalle enormi possibilità di guadagno che il “business” assicura. I vecchi boss però non sono d’accordo Carlo Gambino in testa sono contrari a che i “picciotti” si sporchino le mani con “quella robaccia”.
Così quando Carlo muore e viene sostituito da Paul Castellano, è fatale che il clan si spacchi e i due boss entrino in rotta di collisione. Castellano è il boss designato, con potere di vita e di morte su tutta la “famiglia”; ma anche Castellano commette degli errori: platealmente tradisce la moglie con la cameriera colombiana; vive arroccato in una villa di Long Island, pochissimi contatti con la “base mafiosa”; e tuttavia due agenti dell’Fbi, Joe O’Brien e Andris Kurins riescono a piazzare una quantità di microspie in tutta la casa, e tutti gli affari della “famiglia” non sono più un segreto per gli investigatori. Insomma: Castellano è un personaggio ingombrante, e Gotti capisce che lo può togliere di mezzo senza che la cosa comporti problemi. Nel dicembre del 1985, Castellano e il suo braccio destro Thomas Bilotti stanno andando a cena allo Sparks Steak House di Manhattan, e una squadra di killer li falciano senza dar loro possibilità di scampo. Gotti e Gravano, a bordo di una Lincoln parcheggiata vicino al luogo del delitto, osservano compiaciuti.
È l’apogeo. Gotti domina una “famiglia” composta da trecento membri e duemila associati, la più potente di New York; e pompa denaro dal traffico di droga, ma anche dal racket, il gioco d’azzardo, il traffico di documenti falsi, le “protezioni” sindacali, l’edilizia… Non c’è settore produttivo dove non vi sia lo zampino di Gotti. Il settimanale Time gli dedica una copertina, lo paragona ad Al Capone; attori famosi come Anthony Quinn, James Caan, Michey Rourke lo frequentano a cena per nulla preoccupati della sinistra fama che lo accompagna. “Johnny è un buon padre di famiglia”, mi ha detto Carlo Vaccarezza, proprietario del ristorante “Da Noi”, che Gotti frequentava due-tre volte la settimana. “Gli piace andare al club con gli amici, bere un caffè italiano, gli piace il foot-ball, il calcio, la pesca, i cavalli. È un benefattore. Contro di lui hanno imbastito una montatura. Solo perché si è italiani si viene chiamati mafiosi. Se vedi un gruppo di irlandesi, di neri, di cinesi, non dici nulla; se però vedi degli italiani, ecco che subito si parla di mafia. Due italiani parlano tra loro, ed è già mafia…”.
Un’immagine riduttiva che Giuliani e gli altri magistrati di Manhattan e Brooklyn non hanno mai condiviso; e gli hanno scatenato una guerra senza esclusione di colpi. Per qualche anno, Gotti è riuscito a farla franca. Per esempio, nessuno è mai riuscito a provare che abbia ucciso un vicino di casa italo-americano, John Favara.
Questa di Favara è una storia che merita di essere raccontata, dà l’immagine di un Gotti feroce e sanguinario come pochi. Favara è a bordo della sua automobile; improvvisamente sbuca, a bordo della sua bicicletta, Frank, uno dei figli di Gotti. Non c’è niente da fare, e l’urto è violento. Il ragazzino muore sul colpo. Da quel momento di Favara non si saprà più nulla. Il tam tam mafioso racconta di una squadra di otto picciotti che lo prelevano e lo portano davanti a Gotti. Quest’ultimo si incarica di ucciderlo con le sue mani, sezionandolo con una sega elettrica; i resti del poveretto vengono poi gettati nell’Atlantico ben zavorrati con il cemento. Tutti sanno che in quella “scomparsa” c’è la sua pesante mano, ma lui se la ride: ha un alibi di ferro, decine di persone sono pronte a testimoniare che si trovava in vacanza in Florida.
Gotti non ha la saggezza dei vecchi patriarchi di mafia, che parlavano con i loro interminabili silenzi, e non dovevano imporre nulla, già i loro desideri erano ordini indiscutibili. Lui ama la bella vita, ostenta sfacciato la sua ricchezza. Non si capisce se è il cinema a ispirarsi a lui, o lui ai personaggi dei film. Il suo quartier generale è a Little Italy, al “Ravenite Social Club”, un locale che solo lui e i suoi fedelissimi possono frequentare. La Polizia riempie le due stanze di microspie. Niente. Il fatto è che Gotti quando deve parlare di cose delicate o lo fa passeggiando all’aria aperta; oppure nell’appartamento sopra il club, dove vive un’anziana signora di origine italiana, ben lieta di ospitarlo. Dal 1986 al 1990 viene processato tre volte, e sempre assolto. Ogni volta a Queens, dove vive in una villetta tutto sommato modesta, è festa come se fosse il 4 luglio: fuochi d’artificio, musica, hot dogs e hamburger offerti a chiunque ne voglia. È anche fortunato. I fedeli del defunto Castellano sistemano una carica di tritolo in una Buick parcheggiata di fronte al “Veterans & Friends Social Club”. L’ordigno era destinato a Gotti, ma chi ne viene ucciso è Frank De Cicco, un padrino che si era schierato con Gotti e contro Castellano. De Cicco aveva lasciato sull’automobile un biglietto da visita. Tornato a prenderlo, non fa in tempo ad aprire la portiera che viene fatto in mille pezzi. Chi ha azionato il dispositivo per l’esplosione aveva scambiato De Cicco per Gotti, che si salva.
Il 12 dicembre 1990, i federali riescono finalmente a incastrarlo: grazie alle registrazioni di decine di “cimici” sistemate un po’ ovunque, e alla testimonianza di un mafioso pentito, Philip Leonetti. Al termine di un processo show, anche grazie al tradimento di Gravano, Giuliani e la sua squadra di procuratori (ne fanno parte anche Luis Freeh, che poi diventerà capo dell’Fbi; e Richard Martin, amico di Giovanni Falcone) riescono a far condannare Gotti all’ergastolo. Il 23 giugno del 1992 per il boss dei boss che si credeva invincibile e imprendibile, si aprono le porte del carcere speciale di Marion. Non ne uscirà più.
Un declino che è anche il declino di Cosa Nostra. Dei settemila “soldati”, non ne restano che poco più di mille. Dei tre vice e dei 21 capodecina che costituivano la spina dorsale dei Gambino, solo due capimafia sono a piede libero. Alla vigilia della morte del boss la procura federale dello Eastern District di Brooklyn ha ordinato l’arresto del fratello Peter Gotti, e di altri sedici “picciotti”. Anche John Jr. Gotti, che sembrava destinato a raccogliere lo scettro del padre, è in carcere. “Gotti”, ha scritto Ralph Blumenthal sul New York Times, “si sarà anche preso gioco della legge, ma a ridere per ultima è stata la legge. Da simbolo dell’arroganza e dell’invulnerabilità della malavita ha finito col diventare se non l’epitaffio di questa, certamente un gran bel nome spuntato sull’elenco degli abbattuti dell’Fbi”. I Genovese possono contare su qualche centinaio di membri, sono specializzati in traffici “puliti”, come il gioco d’azzardo, il racket per la raccolta dell’immondizia e l’usura; i Bonanno e i Colombo sono famiglie più di nome che di fatto. Non hanno un boss e i “soldati” sono poche decine. Nel vicino New Jersey opera la cosiddetta “gang del gerovital”, tanto sono anziani gli affiliati. Una volta la famiglia Brano-Scarfo era potente. Ora vacilla, sotto i colpi dell’età e dei processi; in declino anche le “famiglie” che un tempo controllavano Filadelfia, Cleveland, Detroit, Saint Louis, Kansas City, Milwaukee, New Orleans.
A Cleveland c’è la famiglia Licavoli. Tempi difficili, per quella che era la più potente cosca dell’Ohio: dilaniata da contrasti interni, dovuti soprattutto per le divergenze di due boss, James Licavoli e Angelo Lonardi, oltretutto entrambi detenuti. A Boston è la famiglia Patriarca, a dettar legge. Il boss, Nicholas Bianco, è stato arrestato nel 1991; da allora la famiglia è senza un capo, e si regge sotto la guida “provvisoria” di Raymond Patriarca. Chicago, seconda capitale della mafia negli Stati Uniti, fa un po’ storia a sé. Le cosche non sono organizzate in “famiglie”. Piuttosto operano come “sindacato”. A Kansas City la famiglia dei Civella deve fare i conti con una quantità di problemi giudiziari. Il boss, Carl Civella, è stato messo in carcere per evasione fiscale: lo stesso “pretesto” usato per Al Capone. Come Capone morirà in cella.
Le reti mafiose che gestivano il middle west sono state sbaragliate in seguito alla sfortunata investigazione sulla cosiddetta “pizza connection”; e grazie soprattutto a una speciale legge anti-racket (la cosiddetta Rico), sono stati portati in Tribunale, e condannati, oltre duecento capi di Cosa Nostra, decapitandone così il livello gestionale più capace. L’uso della Rico ha portato inoltre una quantità di mafiosi piccoli e medi a violare il codice dell’omertà, e a collaborare con la giustizia in cambio di sostanziosi sconti di pena.
Ora, con Gotti finisce un’epoca. Non è solo un padrino che muore; è anche Cosa Nostra che quasi non c’è più. La vecchia mafia raccontata da Mario Puzo e Francis Ford Coppola con Il padrino, è definitivamente morta e sepolta; soppianta dalle triadi cinesi, dai colombiani, dalle cosche giamaicane, portoricane e russe.
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