La vicenda degli agenti di Polizia, inquisiti per presunte violenze ai manifestanti no-global, ripropone lo stato di vaga confusione negli Uffici giudiziari partenopei. La “pugnalata alle spalle” inferta a Cordova
L’epilogo della vicenda Cordova a Napoli è stato soltanto accelerato dalla burrascosa vicenda degli arresti di poliziotti con l’accusa di violenze nei confronti dei manifestanti antiglobalizzazione in quella giornata del 17 marzo 2001 che oggi appare sempre più chiaramente come la prova generale della sanguinosa giornata e nottata del 21 luglio successivo a Genova. Sulla quale indagano i magistrati di quel capoluogo, che hanno mandato avvisi di garanzia a ben 77 fra funzionari (anche di altissimo grado) e agenti, senza che ciò abbia sollevato proteste e sommosse.
Anzi: “...i poliziotti non hanno bisogno di un clima da stadio - sono le parole di Claudio Giardullo segretario Silp - non vorrei che si ripetesse da parte di esponenti del governo quella strumentalizzazione che abbiamo dovuto registrare dopo gli arresti di Napoli... chiediamo che l’accertamento dei fatti sia rapido”; e poco più in là è andato Giovanni Aliquò, segretario dell’Associazione nazionale Funzionari di Polizia: “...anche se la Procura può aver ecceduto, è necessario mantenere la massima fiducia. È evidente che alcune parti dello Stato non riescono a capire le difficoltà del nostro lavoro”.
A Napoli, negli anni scorsi, poliziotti, carabinieri, finanzieri e vigili urbani (si sono salvati solo i pompieri) sono stati avvisati, incriminati, arrestati, in quantità cospicue e con accuse spesso assai gravi, che altrettanto spesso sono naufragate davanti al riesame o davanti ai giudici di merito. Sono stati arrestati e tenuti in galera funzionari di primo piano. Per alcuni le accuse sono cadute, per altri il processo è ancora lentissimamente in corso.
Nei confronti di tutti i Corpi dello Stato la Procura napoletana s’è dimostrata sempre implacabile. Nessuna condiscendenza, massima severità; un poliziotto assai stimato e noto per la sua dedizione e capacità professionale, le accuse poi risultate calunniose, l’incriminazione e l’arresto, li aveva presi proprio male; assolto con formula piena e tornato in servizio, dato fondo ai risparmi e ai prestiti per pagarsi due anni di avvocati, ci ha rimesso la pelle dopo mesi di depressione seguiti da infarto fulminante.
E nessun esponente politico aveva trovato da obiettare, nemmeno uno di quelli che invece hanno fatto sentire così clamorosamente la loro voce in occasione degli arresti domiciliari emessi a carico di due funzionari e sei agenti accusati di aver prelevato negli ospedali coloro che andavano a medicarsi per le ferite riportate negli scontri (e anche chi era in Pronto Soccorso per motivi che nulla avevano a che fare con i disordini), di averli portati nella caserma “Raniero Virgilio”, di averli sottoposti a violenze varie e a perquisizioni del tutto ingiustificate. Ma eseguite su precisi ordini di qualcuno; forse con eccesso di zelo, ma non certo spontaneamente né di nascosto. E, caso strano, di quegli ordini sicuramente emanati non si trova traccia scritta: nella “catena di comando” chi sta più su ha già dichiarato di essere stato “equivocato”. E chi sta ancora più su e ha dichiarato di non saperne nulla, è stato subito promosso.
I segnali premonitori dell’epilogo burrascoso della burrascosa vicenda Cordova a Napoli risalivano a qualche tempo prima, con l’intensificarsi negli ultimi mesi di episodi sempre più sconcertanti, col ripetersi di gesti e il perdurare di atteggiamenti davvero singolari e assolutamente inediti in un ufficio giudiziario e nei suoi dintorni politici, che hanno avuto un peso specifico nella vicenda degi agenti. Significativa anche qualitativamente la sequenza degli eventi, sui quali il giudizio è affidato al lettore.
I giudici della Cassazione armati di pugnale che infieriscono sul procuratore di Napoli colpendolo per giunta alle spalle...! Si stenta a crederlo, ma è stato detto anche questo; e non su un tram affollato, né per bocca di qualche sprovveduto, bensì dal magistrato Luigi Bobbio che ha svolto le funzioni di sostituto procuratore proprio a Napoli e sempre al fianco di Agostino Cordova, fino a quando è stato eletto senatore nelle liste di Alleanza Nazionale. È accaduto qualche giorno prima che si scatenasse la bagarre sull’arresto di due funzionari e sei poliziotti accusati di violenze nei confronti dei manifestanti anti-globalizzazione. Ovvero quando gli animi non erano turbati dalla protesta di piazza, quando non si paventavano scorrerie di toghe rosse (chissà se a cavallo o su moto...) né se ne chiedeva a gran voce la cacciata dal Tempio della Giustizia.
E non solo il procuratore “...si sarà sentito pugnalato alle spalle da un soggetto, quale è la Cassazione, del tutto inatteso...”, ma nientedimeno “...siamo in presenza di un tentativo di condizionamento non ad opera di politici ma, paradossalmente, di una parte della magistratura“: per il senatore di Fini, la Cassazione non doveva permettersi: “Siamo di fronte ad un sostanziale deterioramento delle funzioni della Cassazione come giudice di legittimità. Questi apprezzamenti sarebbero già stati inauditi se fossero stati riferiti a una singola indagine, ma in questo caso riguardano addirittura il metodo di lavoro dell’ufficio. È un modo di fare ispirato alla politica, un tentativo di condizionare l’attività inquirente ”.
Che cosa avesse fatto e detto di tanto grave la Cassazione (che eravamo abituati a sentir chiamare solennemente “Suprema Corte”, “il più alto consesso”, “somma custode della legge”) è presto detto: nelle motivazioni con cui aveva respinto il ricorso della Procura di Napoli contro l’annullamento dell’arresto dei prefetti di Roma e di Siracusa nonché dell’ex vicesindaco di Napoli, c’era scritto chiaro e tondo che il ricorso stesso denota indici di una radicata tendenza a trasformare meccanicamente l’illegittimità o l’anomalia amministrativa degli atti e delle procedure, in illiceità penali. Si trattava, per chi non lo ricordasse, delle rottamazioni: sindaco e prefetto di Napoli nonché funzionari vari, avevano attuato una procedura rapida per rottamare 80mila dei circa 300mila inutilizzabili veicoli sequestrati o abbandonati che non solo giacciono costosissimamente nelle “depositerie”, ma provocano gravissimo inquinamento.
Per la procedura normale di confisca ci volevano da uno a tre anni nonché una ventina di adempimenti per ciascuna carcassa d’auto, con impiego di molte migliaia di addetti e tempi prevedibili di smaltimento al più presto entro il 2050. La procedura accelerata era stata discussa e concordata con la Procura, alla riunione c’era anche Cordova; e infatti il Tribunale del riesame aveva annullato gli ordini di carcerazione scrivendo: le procedure seguite dalla Prefettura di Napoli sono state già adottate a Milano, Roma e dalla Procura di Torre Annunziata; sono state suggerite dalla Regione e indicate al Prefetto dallo stesso procuratore, informato e aggiornato dallo stesso Prefetto... Ogni passo dell’iter di smaltimento delle auto era stato comunicato proprio all’ufficio del Pubblico Ministero. E la Cassazione rileva che le procedure per le confische erano talmente lunghe e contrastanti con l’urgenza di questi casi, che è stata varata una nuova disciplina con la Finanziaria 2002. Un sostituto che per primo s’era occupato del caso, che aveva invitato il Prefetto a fare quel che aveva fatto, s’era visto togliere il fascicolo per ordine del Capo. Quando osò esprimere sconcerto e far rilevare indignato che il Capo sapeva, ebbe subito una convocazione come testimone, e fu interrogato dalla collega inquirente la quale, con il dichiarato assenso del Capo, riteneva reato - degno dell’arresto di prefetti - quell’accelerazione delle procedure di rottamazione. Nessuna traccia di corruzione, non somme di denaro passate di tasca, nemmeno una vecchia gomma d’auto venduta per nuova, e neanche un rottame che fosse stato riciclato. Però per la prima volta - come si notava su tutte le prime pagine dei quotidiani italiani - veniva arrestato nientedimeno che il prefetto della Capitale, fino a pochi mesi prima in carica a Napoli. Due giorni dopo la “pugnalata nella schiena” da parte della Cassazione, la Procura chiede una proroga delle indagini sulle rottamazioni.
Quando 47, poco dopo aumentati a 60 (su circa 100) sostituti procuratori firmano un documento di solidarietà con il collega inquisito dalla collega con l’avallo del Capo, il Capo silenziosamente manda un grosso incartamento al Capo dello Stato e al Ministro della Giustizia.
La sera del 26 aprile si scatena un comprensibile finimondo in questura: qualcuno ha fatto sapere a tutti che è arrivato l’ordine di arrestare, sia pure ai domiciliari, due funzionari e sei poliziotti; gli agenti s’ammanettano davanti al bianco edificio di via Diaz nel cuore della città, gli esponenti sindacali d’ogni colore dichiarano di sapere che “Cordova è con noi”, qualcuno informa che Cordova ha rifiutato per tre volte di controfirmare le richieste di custodia cautelare avanzate dai sostituti Francesco Cascini e Marco Del Gaudio, avallate dal procuratore aggiunto Paolo Mancuso, accolte dal gip Isabella Iaselli.
Si viene a sapere subito che il procuratore Capo ha confidato i suoi dubbi sulla validità delle accuse al confortevole orecchio del vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini , e anche questo è un evento da prima pagina, senza precedenti, roba che in magistratura non s’usava; ma c’è sempre una prima volta per tutto. La bagarre diventa imponente: i sostituti chiedono di sapere da che parte sta il loro Capo, le firme sotto il documento di protesta per la gestione della Procura diventano 64, il vicepresidente del Consiglio Superiore, Verde, si ricorda finalmente che la questione-Napoli andava affrontata prima, viene rievocato quel libro bianco degli avvocati che cinque anni fa, benché documentasse fatti clamorosi e non smentiti (anche sotto il profilo delle spese per decine di procedimenti finiti nel nulla) non fu preso in considerazione dal Consiglio Superiore e nemmeno dalla Corte dei Conti. E ancora: i poliziotti indagati sono in tutto poco meno di cento, i “no-global” invece solo otto, il ministro Scajola dice “basta con i pm intoccabili” e “chi sbaglia paghi”, Berlusconi ringrazia pubblicamente i poliziotti, Bossi dichiara che certi magistrati sono pericolosi (e nessuno osa ricordargli la campagna leghista a base di letame lanciato sui poliziotti durante le proteste degli allevatori che non vogliono pagare le quote-latte); il Capo della Polizia Gianni Di Gennaro dichiara che “la carcerazione non era necessaria”, lui che aveva scritto quel civile documento in cui, alla vigilia del G8 di Genova, invitava gli agenti a considerare i manifestanti pacifici non come nemici da picchiare ma come portatori di un diritto al dissenso.
Sulla stampa compaiono notizie relative alla testimonianza del vicequestore Paolo Tarantino già capo della Digos, organismo ben competente in materia di provocatori e di violenti ma stranamente esautorato in occasione della manifestazione del 17 marzo. Di provocatori e di violenti non se ne prese neanche uno, e Tarantino è stato mandato a dirigere il commissariato di Nola; ha dichiarato ai magistrati che non sono state comparate le foto dei fermati negli ospedali con i filmati che ritraggono i violenti devastatori e assalitori; che nessuno della Digos andò alla caserma Raniero Virgilio; che i feriti erano già ovviamente identificati dai drappelli ospedalieri e quindi non c’era alcun bisogno di portarli in caserma per sapere chi erano; che non ci furono indagini che giustificassero quei fermi, infatti non convalidati in grandissima parte.
Su un quotidiano locale appare una intervista significativa: un professore della provincia di Salerno racconta di una assemblea nel suo liceo di giovani reduci dagli scontri di Napoli, ancora sotto choc per le cariche contro il corteo pacifico e gioioso, che s’era fermato nei giardini di piazza Municipio. E racconta di un funzionario di Polizia che aveva preso la parola per chiedere scusa a nome di tanti funzionari e agenti che solo silenziosamente potevano dissentire, e all’amarezza per l’accaduto aveva anche aggiunto l’allarme: “non andate a Genova...!”
Dal 6 maggio in poi sono le esternazioni del procuratore Cordova a tenere banco. Invita pubblicamente i suoi sostituti al riserbo e al rispetto del segreto istruttorio. Declina l’invito ad un convegno in Calabria dichiarando “sono daltonico nel senso che non distinguo i colori politici, la mia dedizione kantiana al dovere mi ha portato ad essere considerato in certi contesti un corpo estraneo e di questo mi onoro”, ma nessuno aveva posto problemi di politica e di dovere, e non si chiariva chi e dove fossero i contesti così indegni del procuratore. Frasi del genere erano state già dette qualche anno fa davanti ad una Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, ma in quell’occasione a Cordova era stato fatto notare che nessun appartenente alle molte categorie da lui elencate, in definitiva esercitava alcuna ostilità nei suoi confronti (men che mai i giornalisti: solo diritto di cronaca e di critica) né lo ostacolava nel ripristino della legalità. E lui, per protesta, denunciando una mancata tutela, s’era dimesso dall’Associazione Nazionale Magistrati.
L’8 maggio tutti i giornali riportano in prima pagina le dichiarazioni di Cordova davanti alla Commissione parlamentare Antimafia: “visto che non mi viene consentito di ripristinare la legalità comincio a coltivare l’idea di abbandonare Napoli”. Non è dato di sapere chi gli impedisce una simile missione salvifica, di cui peraltro è il solo procuratore italiano a ritenersi e dichiararsi esplicitamente investito. I responsabili di tanta iattura devono essere senz’altro i sostituti del suo stesso ufficio nonché i magistrati del gip e delle sezioni giudicanti: Cordova non lo dice, ma chi altri possono esser mai? La seconda parte della frase lascia chiaramente intendere che è la capitale meridionale la sede dove regna sovrana l’illegalità, concetto che Cordova ripete da tempo; quindi narra di 700 camorristi in libertà per 40 richieste di arresto inevase dall’ufficio dei gip, di due inchieste sul voto di scambio (una a destra e una sinistra, rigorosa par condicio) delle quali non era stato sufficientemente informato. Poi lui ha già due volte denunciato che una magistrata del suo ufficio convive con un medico indagato per aver rilasciato certificati a sospetti camorristi. Quindi il gran finale dopo i fuochi d’artificio: a proposito dell’arresto dei poliziotti, lui effettivamente dissentì nel corso dell’inchiesta, manifestando “perplessità sulla genuinità delle prove”.
Anche questa era una prima volta: mai prima d’allora un procuratore s’era permesso di manifestare pubblicamente dissenso dall’operato di suoi sostituti alla vigilia dell’udienza davanti al Tribunale del riesame. A Napoli (e non solo) i sostituti sono esterrefatti, i gip sconcertati: non esistono richieste giacenti da troppo tempo, 700 camorristi liberi per loro ritardi è un’invenzione, un’assurdità; il ministro riannuncia per l’ennesima volta che manderà gli ispettori i quali peraltro sono già da un mese a Napoli per ispezioni di routine e non avevano notato nulla di tanto anormale; i penalisti proclamano 3 giorni di sciopero; l’ex ministro Paolo Cirino Pomicino, festante e fiero delle assoluzioni e delle prescrizioni che ripuliscono il certificato penale suo e di una imponente schiera di vanamente processati per Tangentopoli, elogia pubblicamente il suo giudice. Si tratta di una “toga rossa” dichiarata, già segretario di Md, e nessuno protesta. Nemmeno l’avvocato Taormina, che anzi se la piglia con il questore Nicola Izzo: non avrebbe difeso adeguatamente i suoi uomini.
La sera del giorno dopo il procuratore Cordova, con un comunicato di 37 righe dichiara di non aver voluto attaccare i gip ma di aver solo sottolineato la carenza di organico, e quindi sostiene di aver parlato davanti alla Commissione parlamentare Antimafia “con modalità che avevo motivo di ritenere riservate”. Anche in questo caso, lui è l’unico a pensarla così.
Il quotidiano Il Mattino rileva che in tema di criminalità - l’unico che avrebbe dovuto esser trattato in quella sede - Cordova ha portato alla Commissione Antimafia gli stessi dati di due anni fa, elencando 149 clan camorristici di cui 59 operanti nella città di Napoli, dato che non tiene conto dei rimescolamenti, delle alleanze e della imprenditoria camorristica, e degli aggiornamenti.
Sui quotidiani dell’11 maggio la notizia che il procuratore ha presentato domanda per l’incarico di procuratore generale a Roma, dove però per anzianità lo supera l’attuale procuratore Vecchione.
Il 12 maggio appare la buona notizia che porta entusiasmo in questura e nei commissariati: il Tribunale del riesame (presidente Maria Ferorelli, giudici Stefania Daniele, Irma Musella) annulla gli ordini di carcerazione, dichiara insussistente il reato di sequestro di persona, la retata negli ospedali fu legittima ma nella caserma furono commessi i reati di violenza, lesioni, minacce. Gli indagati possono essere scarcerati perché essendo sospesi dal servizio non possono reiterare il reato né minacciare ritorsioni. Poco dopo gli otto vengono reintegrati nel servizio.
C’è un festival di dichiarazioni di politici. Un tifo da stadio, dichiarazioni da bar dello sport, messaggi di congratulazioni, c’è anche l’on. Gasparri che vuole le scuse dal Consiglio Superiore. Chissà perché.
Quel giorno appare anche un’altra notizia: un ispettore della Polfer di Napoli, con 23 anni di anzianità e stato di servizio ineccepibile, ha ricevuto formale rapporto perché in servizio nella Stazione Centrale non portava il manganello appeso alla cintura. Inutile l’argomentazione che l’anello si era improvvisamente spezzato, e che pertanto l’ispettore avrebbe dovuto impugnare l’attrezzo oppure abbandonare il servizio per andare a cercarsi un anello nuovo. Ora rischia un richiamo; il sindacato Uilps fa notare che lo sfollagente, assolutamente inopportuno in una stazione ferroviaria, è attrezzo specifico per servizio di ordine pubblico, e che c’è espresso divieto di impiegare personale della Polfer in tale servizio.
L’assemblea generale dei magistrati convocata per riflettere sulle dichiarazioni di Cordova davanti all’Antimafia vede circa 200 presenze; viene approvato un durissimo documento di censura per il discredito gettato sui magistrati, solo sei astenuti nessuno contrario. Cordova si dichiara “amareggiato” e si domanda perché i sostituti abbiano espresso tanto dissenso nei suoi confronti “davanti ai giornalisti”.
Con notevole risalto viene riportata l’archiviazione del procedimento contro l’intera giunta comunale di Napoli (Bassolino in testa) accusata di abuso d’ufficio per aver concesso alla Rai l’uso di un immobile comunale per le riprese della popolarissima fiction poliziesca La squadra: l’abuso consisteva - secondo la Procura: due anni di indagini, decine di faldoni e interrogatori - nell’aver concesso l’immobile alla Rai senza aver interpellato il Consiglio circoscrizionale il cui parere non era peraltro vincolante e nemmeno obbligatorio. Il Gup ha archiviato in venti minuti. È il sesto naufragio di un’accusa della Procura contro la Giunta comunale di Napoli, già assolta per i Boc, per la pubblicità allo stadio, per il restauro della Villa comunale, per il Piano regolatore, per i telefonini comunali sui quali, sosteneva la Procura, non si può telefonare a casa propria. In corso un settimo procedimento (in mano allo stesso pm inquirente per La squadra) contro amministratori regionali provinciali e comunali per aver ceduto ad una società inglese parte della gestione dell’aeroporto di Capodichino (che adesso è considerato un gioiello).
Nella prima Commissione del Csm anche i tre che si erano sempre pronunciati a sostegno di Cordova bloccando ogni iniziativa precedente, sono adesso profondamente scossi per quello che Cordova ha detto nei confronti dei suoi colleghi e a proposito di un’indagine in corso, alla vigilia del riesame; ma sono anche esterrefatti per una lettera di Cordova che chiede al Csm di sapere se la relazione del consigliere Emanuele Smirne (del 19 febbraio: favorevole all’archiviazione delle accuse contro Cordova!!!) fosse stata secretata e se era depositata quando sulla stampa ne sono apparsi alcuni stralci. Strana domanda, velato riferimento forse alla circostanza che siano stati i consiglieri a divulgare quella relazione. Qualcuno ha ricordato la montagna di denunce e querele sporte da Cordova, e le parole dell’ex procuratore generale di Napoli Renato De Tullio: “Se non fossi andato in pensione, Cordova avrebbe denunciato anche me”.
Il decreto di incolpazione reca la data del 16 maggio, viene aperta la pratica di trasferimento per incompatibilità ambientale con 5 voti su 6 (unico contrario il presidente della Commissione, Ronco, laico di Forza Italia); si è discusso a lungo anche della eventuale incompatibilità funzionale, ovvero della incapacità a svolgere la funzione di procuratore, ma la questione sarà affrontata solo se dall’istruttoria emergessero elementi in tal senso. Cordova viene convocato ai primi giorni di giugno. Carlo Nordio, magistrato di Venezia che lo difende, deve leggere le carte. Una settimana dopo Cordova riscontra discordanze fra quanto da lui detto e il verbale della Commissione antimafia. E si rinvia.
Macabro manifesto affisso non si sa da chi nel centro storico di Napoli: la foto del commissario Luigi Calabresi nella bara sotto il titolo “Momenti indimenticabili” e la didascalia “il commissario Calabresi al suo funerale”. Segnale eloquente di quali siano davvero i problemi criminali da affrontare.
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