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luglio / agosto/2002 - Interviste
Pari opportunità
Annullare i limiti ancora esistenti
di Giancarla Codrignani

La Costituzione, all’art. 37, riconosce alle donne lavoratrici gli stessi diritti dei colleghi maschi, ma i meccanismi delle istituzioni rallentano questo processo

La riforma dell’art.51 mi interessa molto: periodicamente noi donne siamo così gentili verso l’altro genere da far conto che sia una gran bell’idea oggi, come nei decenni passati, una parlamentare (Erminia Mazzoni, Udc) abbia denunciato i colleghi che le hanno chiesto “dove pensassimo di arrivare con questo provvedimento” e che uno di loro, Giulio Conti, An, abbia precisato: “credo che il dibattito sulla parità dei sessi sia una bella cosa ma, poi, apprendere che, per motivi sessuali, bisogna entrare pariteticamente alla Rai mi sembra un po’ troppo” (giuro che ha detto così). Per questo bisogna tornare a metterci in guardia, a partire da questa proposta, di cui è necessario parlare.
In primo luogo sottolineerei la prospettiva procedurale: una riforma costituzionale è soggetta a doppia lettura in entrambe le Camere.
In secondo luogo parlerei proprio delle garanzie. La Costituzione - art.51 - dice: “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Se tutto va liscio, ci sarà l’aggiunta: “A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. È o non è rilevante, tenendo conto che, se ci fosse stata volontà politica, il vecchio articolo consentiva tutte le leggi paritarie possibili da parte di una Repubblica che deve rimuovere gli ostacoli che si frappongono al pieno sviluppo della persona umana e alla partecipazione dei lavoratori (art.3)?
Leggendo i resoconti pubblicati sul Paese delle donne debbo confessare la mia difficoltà: le donne,a partire dalla relatrice Elena Montecchi, sono state molto brave e si sono battute con molta competenza e valore. Tuttavia le condizioni di eguaglianza di accesso secondo i requisiti stabiliti dalla legge sancite fin dal 1948 vengono semplicemente “promosse” con appositi provvedimenti di “pari opportunità”. Io volevo invece trovare nella Costituzione la garanzia in termini di diritti più che di pari opportunità.
L’art.37 riconosce alle lavoratrici gli stessi diritti del lavoratore! Ma, come sempre, i meccanismi falsamente neutri delle istituzioni condizionano i desideri delle donne. Ho faticato anch’io nelle istituzioni e conosco le frustrazioni di un impegno oneroso che non viene riconosciuto dalle altre nel senso che ci avevi messo tu. D’altra parte, se è vero, per tutte le leggi e le riforme, che il Parlamento le vara ma tocca alla società civile farle applicare, nel caso della società femminile - vecchia storia - bisogna mettere insieme:
1. lo studio giuridico della proposta;
2. la pressione politica sui partiti di appartenenza;
3. il confronto con le altre donne: a) degli altri raggruppamenti, b) delle associazioni e della società civile;
4. le mediazioni per portare la proposta ad essere approvata: a) con i maschi del proprio gruppo, b) con gli - e le - alleati/e;
5. la constatazione che davanti al risultato ti senti sola.
Che cosa possono fare le parlamentari quando le richiamano a tener conto dei precedenti e a ricordare la sentenza della Corte costituzionale che impedisce di chiedere direttamente i diritti di genere e non riescono neppure a replicare che questo succede perché la Corte ha un’incompetenza fondamentale, quella di essere composta quasi esclusivamente da uomini? O quando deputati e senatori maschi si vergognano di sentirsi enumerare i 68 paesi che precedono l’Italia nella statistica delle presenze femminili nei Parlamenti, ma si contentano di promettere “pari opportunità” e “azioni positive”?
La terminologia fa riferimento ad altre norme, alle quali altre donne in Parlamento hanno dato credibilità per costruire politiche di genere. Invece, perfino a livello europeo ci sono stati ridimensionamenti e i programmi d’azione parlano ormai di pari opportunità “per gli uomini e per le donne”, mentre nel nostro paese le “pari opportunità” si riferiscono più agli stranieri e agli immigrati che alle donne. Anche le “azioni positive”, pensate per risarcire dall’emarginazione storica, debuttarono con la contestazione di un giudice di sinistra, che si rifiutava di “favorire” un genere a danno dell’altro (è la stessa motivazione della Corte costituzionale nel 1995: per non favorire il genere femminile, si privilegi quello maschile, visto che la scelta è per necessità limitata a un’alternativa fra due dati) e di fatto sono disapplicate.
Ancora una volta, dunque, tocca a noi far sì che i limiti istituzionali vengano annullati dall’apporto “libero”, per così dire, di tutte, perché, se è giusto che nei Parlamenti non siamo una presenza residuale; la crescita numerica non sarà né facile né gratuita.
Intanto la quantità non potrà prescindere dalla qualità. Non va sottovalutato, però, il fatto che in numerosi paesi del Sud del mondo, che ci precedono nella graduatoria delle presenze parlamentari femminili, si possono eleggere donne e contemporaneamente tenere la popolazione femminile in condizioni di sottomissione perché manca la democrazia e il Parlamento è una formalità che conta poco. Per questo in Europa diciamo che la nostra presenza è segno di libertà che vale per tutti, donne e uomini.
Bisognerà allora darsi da fare perché, una volta modificata la Costituzione, le leggi applicative favoriscano la libertà femminile davvero.
Un primo banco di prova sarà nelle responsabilità che gli enti locali e segnatamente le Regioni dovranno assumere in ordine ai nuovi Statuti e nell’attuazione delle nuove norme costituzionali di riforma del titolo V. Occorre muoversi tempestivamente e controllare (senza illudersi che a sinistra si accettino spontaneamente le nostre esigenze) che le nuove norme non siano escludenti.
I meccanismi di sistema, in primo luogo partiti e raggruppamenti politici vecchi e nuovi (anche la “società civile” che utilizza i nostri girotondi senza darci protagonismo) vanno ricondotti alla differenza di genere per esigere che, sia nelle liste elettorali (ovviamente a partire dai capilista), sia nelle gerarchie di partito, le presenze femminili non solo ci siano, ma siano di donne non omologabili o, tanto meno, omologate. Le destre ci accusano di autoescluderci e usano la differenza per confermarci nel ruolo famigliare e negarci i servizi; ma le sinistre non sono decise nella condivisione dei diritti. Franca Bimbi ricorda che nelle nostre società “è più facile per le donne ottenere la parità nel fare la guerra che per gli uomini accedere ad una cultura di elaborazione pacifica dei conflitti”. Si impone, dunque, il lavoro di “conversione” del maschile come necessità storica almeno delle sinistre per il bene comune.
È qui, molto lontano dall’art.51, che occorre puntare: smettendo di mettere i nostri diritti dietro a quelli apparentemente comuni. Non può essere più come accade in famiglia, che noi stesse, per necessità o per amore, mettiamo le nostre esigenze all’ultimo posto. In politica non è vero che, soprattutto nell’emergenza, sia necessario mettere al primo posto la difesa del partito, dei segretari, del governo, della democrazia: siamo noi, donne non omologate, che possiamo contribuire a cambiamenti positivi per i partiti, i governi e la democrazia.
Dopo anni di perdita di senso della politica e di scadimento delle sinistre, occorre puntare i piedi e contestare anche chi da anni sta spingendo il 52% dell’elettorato al distacco, alla passività, alla tentazione di cambiare bandiera.
Una come me - dio mi perdoni - è d’accordo con Alessandra Mussolini quando dice, lapidaria, no women, no parties (e, per nostra fortuna, Fini non raccoglie).
Ma, davvero: senza donne, niente partiti.

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