La criminalità organizzata di stampo siciliano è, prima d’ogni altra cosa, un fenomeno aberrante dello spirito: vive nei compromessi, si cela nelle debolezze collettive, si annida negli angoli bui. Si tratta di una anomalia tutta italiana delle anime
Qual’è in Italia la situazione della legalità oggi? Perché pare sia rilevata in questo campo, a livello internazionale, una “anomalia italiana”?
La prima minaccia alla legalità in Italia è costituita dalla criminalità mafiosa. Questo è il Paese tristemente noto nel mondo proprio per la mafia - che è parola italiana per quanto di origine araba - diventata di uso universale. Niente di simile alla mafia (e alle altre tre “mafie” che operano in Calabria, Puglia e Campania) esiste nel resto dell’Europa occidentale.
Dieci anni fa, in piena crisi di regime, con le tradizionali coperture politiche che si scollavano, la mafia tentò lo scontro aperto con lo Stato, compiendo due stragi, di Capaci e di via D’Amelio, di audacia e ferocia senza precedenti. Fu per lei un errore.
La mafia non può stare sotto i riflettori dell’opinione pubblica. È un animale che vive nella penombra. La dimensione che le è congeniale è quella del potere indiretto, della dominazione ferrea ma sfuggente. La mafia, prima ancora che un rilevante fenomeno criminale, è una perversa categoria dello spirito: alligna nei compromessi, si cela nelle debolezze collettive, sfuma nel fondo paludoso delle anime dei singoli. Chi preferisce non vederla può non vederla. Basta tenere separati fatti, non considerarli tasselli di una strategia consapevole, non ravvisare in pratiche criminali socialmente pervasive il manifestarsi di una volontà unica organizzata. Lunga e non mai definitivamente vinta è stata la battaglia per farne riconoscere pubblicamente la stessa esistenza. La mafia è in sé un paradosso: “tanto più c’è - si potrebbe dire - quanto più non c’è”.
In seguito ai due attentati in cui perirono i giudici Falcone e Borsellino, la moglie del primo e gli uomini delle loro scorte, l’opinione pubblica in Italia ebbe un forte sussulto, che produsse, negli anni successivi, gli effetti migliori, anche se non necessariamente duraturi, nella lotta contro di essa. Il fatto che si sia ora tornati a parlare poco della mafia, l’assopimento dell’opinione pubblica riguardo al problema, è di per sé la sua vittoria più grande.
Tra coloro che sono impegnati anche oggi su questo fronte, non manca chi lancia l’allarme: la mafia è tutt’altro che battuta, anzi, sta rinsaldando i suoi legami e le sue influenze sociali e politiche. Ed in effetti tornano le assoluzioni cavillose per i capi, le liberazioni “per errore”, i tempi lunghi dei processi, le voci di trattativa tra la mafia e lo Stato.
La nostra cultura della legalità, che aveva prodotto nel campo della lotta alla mafia strumenti giuridici e pratiche di contrasto considerati preziosi e innovativi anche a livello internazionale, poiché in grado di garantire equilibrio tra le esigenze proprie dello Stato di diritto e quella di combattere efficacemente un fenomeno straordinariamente complesso come quello mafioso, pare rischi ora di fare passi indietro.
Ma il problema della mafia non esaurisce la gamma delle possibili articolazioni dell’illegalità nel nostro Paese, anche se ne rappresenta in un certo senso la logica estrema e la sintesi. Oltre alle altre organizzazioni criminali territoriali, come la Camorra e la ’Ndrangheta, o la Sacra Corona Unita, che sono però realtà meno complesse e potenti di quella siciliana, per quanto non meno pericolose e sanguinarie, c’è anche ad ammorbare il clima della convivenza civile il problema della corruzione, politica e amministrativa, che, nelle regioni di mafia, si intreccia con questa, ma che esiste anche nelle altre.
“Mani pulite” ebbe inizio, sempre - e non a caso - nel pieno della “crisi di fine regime”, dieci anni fa a Milano.
Nonostante quella esperienza, che ha contribuito a scuotere e ha modificato irreversibilmente gli assetti politici del Paese, ancora oggi nelle classifiche internazionali riguardanti i livelli di diffusione delle pratiche di corruzione, l’Italia si colloca nelle posizioni basse. Per esempio, secondo il Bribe Payers Index 2002, definito in base ad un sondaggio tra 835 esperti d’affari di diversi paesi, risulta che al primo posto della graduatoria dei paesi virtuosi in rapporto al problema della corruzione viene l’Australia, seguita dalla Svezia, dalla Svizzera - a pari merito - e dall’Austria. l’Italia, quanto a corruzione, viene in graduatoria dopo tutti i paesi più avanzati e perfino dopo la Malesia e Hong Cong e, di poco, prima della Corea del Sud e di Taiwan.
Se uno volesse fare il tifo per l’Italia - come si fa per lo sport - nella gara con gli altri paesi nel campo della legalità, dovrebbe prepararsi ad inghiottire più di qualche boccone amaro. Eppure non è solo questione di orgoglio sportivo. In gioco c’è ben di più.
L’Italia è anche il Paese delle stragi e dei misteri. Per esempio, stragi politiche come quella di piazza Fontana e piazza della Loggia, e gli altri numerosi attentati che nel corso degli anni Settanta e Ottanta hanno insanguinato il Paese, le stesse ombre, mai dissipate, del caso Moro, la vicenda di Ustica, tanto per ricordare solo alcuni dei casi più eclatanti, non trovano ancora, a distanza di decenni, soddisfacente trasparenza e conclusione giudiziaria.
Ci sono però anche fenomeni, abnormi rispetto alle medie europee, nel campo dell’evasione fiscale di massa, del lavoro nero, ma anche dell’abusivismo edilizio, della mancanza di rispetto dell’ambiente, che hanno devastato irrimediabilmente parti importanti, e le più belle, del Paese. Milioni di cittadini italiani non pagano il bollo auto, né il canone televisivo.
Nell’Ue l’Italia, come Stato, si trova ai primi posti nella graduatoria delle condanne per non applicazione o infrazione delle norme comunitarie. Una delle ragioni delle resistenze all’ingresso del nostro Paese della moneta unica era, oltre che il nostro abnorme deficit pubblico, anche il timore che la criminalità mafiosa e le pratiche non corrette nelle attività economiche ed amministrative, diffuse da noi, potessero venire esportate anche nel resto d’Europa.
Se a tutto questo si aggiunge la notoria scandalosa lentezza della nostra Giustizia, per la quale l’Italia è spesso condannata dal Tribunale europeo per i diritti del cittadino e dalle organizzazioni internazionali di difesa della legalità, come Amnesty International, la selva intricata di leggi in vigore nel nostro Paese (come numero, più di quattro volte la media europea), il quadro che ne risulta è piuttosto sconfortante.
La situazione richiederebbe un impegno politico forte, nel senso della moralizzazione, della diffusione della cultura della legalità, del rafforzamento, grazie ad essa, del senso di appartenenza dei cittadini alla comunità nazionale e allo Stato.
Ma il governo, espressione della maggioranza uscita dalle elezioni del 2001, si trova oggi in forte contrapposizione con la magistratura, la quale, compatta, denuncia il pericolo di un suo asservimento al potere politico e minaccia forme estreme di protesta. Anche a livello internazionale non sono mancate le prese di posizione allarmate.
Per esempio, Herta Däubler-Gmelin, ministra della Giustizia della Germania, dichiarava nel marzo 2002 che: “L’Europa non ha in comune solo la moneta unica. Ha anche la democrazia e lo Stato di diritto. Esiste un caso Italia che preoccupa l’Europa. Ma in Italia vi sono vigorosi segni di resistenza”. A parte l’intonazione ottimistica della conclusione della dichiarazione, la segnalazione dell’esistenza di un “caso Italia” di un ministro della Giustizia di un paese nostro partner - e per giunta di primaria importanza del’Ue - è un fatto di per sé clamoroso e non può non richiamare la nostra attenzione di cittadini italiani. La ministra della Giustizia tedesca parlava evidentemente di un “caso Italia” non solo riferendosi a questi dati riguardanti la criminalità e le pratiche della illegalità diffusa. Allarme in Europa suscita il fatto che il Presidente del Consiglio abbia numerosi procedimenti giudiziari a suo carico in corso e che possieda almeno tre reti tv, oltre che ad un vasto impero economico.
La concentrazione di potere nelle mani del Presidente del Consiglio è pressoché senza precedenti, nel nostro quanto negli altri paesi occidentali. Questa situazione determina di per sé una pericolosa confusione tra dimensione politico istituzionale, giudiziaria ed economica, mantiene uno strapotere nell’informazione della parte politica che ha in mano il governo, genera una tensione insostenibile tra esecutivo e magistratura, costituisce una minaccia di fatto - di per sé, a prescindere dalle intenzioni soggettive - dell’equilibrio democratico, che si fonda sulla logica dei “pesi e contrappesi”. A più di un anno dall’insediamento del nuovo governo, non si è ancora giunti a definire una legge soddisfacente per tutti sul cosiddetto conflitto di interessi.
Tutti questi elementi, tra loro eterogenei, vengono però a comporre il quadro generale della cosiddetta anomalia italiana.
Accanto a ragioni culturali e storiche antiche, che caratterizzano il nostro Paese, contribuiscono a mantenere una certa distrazione dell’opinione pubblica - salvo qualche temporaneo sussulto, come è avvenuto dieci anni fa dopo gli attentati in Sicilia e “Mani pulite” a Milano - anche fattori più recenti.
Negli ultimi anni, per la difficoltà del “pubblico”, cioè dello Stato e della politica, di seguire i rapidi cambiamenti della società civile, si è rafforzata in generale la tendenza a considerare non necessarie, se non inutili complicazioni, la mediazione degli interessi e la accettazione delle regole comuni. Si sono decantate la potenza e l’efficacia degli “spiriti animali” in economia, l’affermazione degli interessi immediati, individuali, di gruppo, di categoria, in politica. Questo “umore del tempo” ha senza dubbio ragioni serie alla sua origine. È un prodotto epocale, anche effetto della crisi ideologica di fine Novecento. Ma si innesta da noi in una tradizione premoderna, mai del tutto superata, di indifferenza o insofferenza di molti italiani per quanto è comune. E la legge è comune, è anzi l’essenza della società moderna.
La non troppo viva sensibilità per la cultura della legalità nel nostro Paese spesso non è stata considerata una pecca nazionale, ma, ancora oggi, da parte di molti, anche stranieri che amano l’Italia, una specie di aspetto trasgressivo, birichino, ma in fondo simpatico e creativo, del nostro temperamento nazionale. Chi non si ricorda dei film di Totò?
Ma come oggi una comicità come quella di Totò non sarebbe più possibile, in una Campania insanguinata dalle stragi di Camorra e dalle violenze quotidiane dei clan, non è pensabile una crescita equilibrata, su standard europei e dentro l’Europa, del nostro Mezzogiorno senza che il problema delle mafie venga una volta per tutte risolto o quantomeno ridotto drasticamente nella sua pervasività sociale. Senza che si imponga in tutto il Paese trasparenza e pulizia nella nostra amministrazione, nei nostri affari, nella nostra politica.
Il declino del collante religioso o ideologico tradizionale ha lasciato un vuoto che non viene ancora riempito da un nuovo spirito civile, che non contrapponga automaticamente e pregiudizialmente il privato al pubblico, la pratica illecita al principio del rispetto della legge. Eppure “virtù private”, che potrebbero essere tradotte anche in “virtù pubbliche”, non mancano. Non si può dire che gli italiani siano insensibili ai problemi sociali, se è vero - come è vero - che circa 10 milioni di essi sono in vario modo coinvolti in attività di organizzazioni del volontariato, e dedicano parte del loro tempo - dall’ambiente, alla povertà, all’emarginazione, ecc. - a problemi di grande rilevanza comune. Ma la notevole e crescente sensibilità per i problemi sociali stenta a tradursi anche in sensibilità e coscienza pubblica, in impegno diretto per la affermazione del senso dello Stato e della cultura della legalità.
Questa debolezza dello spirito civile rischia di costituire un pericolo per il Paese. L’illegalità alla società non conviene, perché disturba o soffoca le attività economiche, scoraggia gli investimenti, distorce i consumi, vanifica l’attuazione delle strategie di sviluppo, deteriora complessivamente la qualità della vita. È di per sé evidente, e dimostrato su ampie basi scientifiche, l’esistenza di un nesso tra legalità e benessere, a livello mondiale.
Oggi c’è chi, a livello ideologico politico, si propone di fare dell’Italia una sorta di nuovo Far West, libero dagli impacci dello Stato e della legge. Ma la frontiera americana è stata - nel bene e nel male - il magma incandescente di una società in formazione, una realtà unica ed irripetibile nel suo genere, come i comuni italiani del Duecento. Ogni parallelismo con l’America è fuori luogo.
Negli Stati Uniti l’individualismo è figlio dell’etica protestante, sul piano ideologico, ed è stato obbiettivamente favorito dagli effetti delle migrazioni, che hanno sradicato gli individui dal loro ambito tradizionale, familiare e culturale. Lo sviluppo dello spirito capitalistico, come ha classicamente descritto Max Weber, non nasce da una banale brama di ricchezza, ma da una profonda, drammatica angoscia esistenziale del cristiano calvinista circa la sua salvezza eterna. Per lui Dio è un “Dio nascosto”, che cela nell’abisso del suo consiglio il destino riservato al fedele nell’eternità. Ciò che può fare il cristiano predestinato in questa vita è solo di cogliere, nel successo della sua vita e nella sua professione, i segni della possibile benevolenza divina. La ricchezza materiale è per il puritano una sorta di anticipazione rassicurante della sua salvazione eterna.
Quando negli Stati Uniti questa originaria impronta del suo spirito religioso sarà del tutto scomparsa, allora sarà venuta meno la loro identità profonda e il paese conoscerà certamente il suo declino.
Fenomeni come la mafia, negli Stati Uniti sono di natura etnica, destinati ad esaurirsi nel giro di alcune generazioni. Manca laggiù il vischioso sottofondo secolare premoderno che invece continua ad influire sull’Italia, a causa di un passato che qui resiste tenacemente. Il sociologo Ferdinand Tönnies distingueva la “comunità”, nella quale i singoli sono ancora chiusi nella famiglia, nel clan, e sono pesantemente subordinati alle norme imposte dalla tradizione, dalla “società”, l’organizzazione sociale nella quale gli individui sono liberati da questa soffocante tirannica protezione. Ma questa liberazione, che consente l’affermazione dell’individualità, per avvenire, deve prodursi all’interno dello spazio definito dalla legge dello Stato.
Il rischio concreto che corre oggi l’Italia è che l’antica diffidenza od ostilità, nei confronti della legge e dello Stato, la tradizionale difficoltà ad accettare la effettiva parità tra cittadini e la giustizia “pubblica”, si saldino sul piano ideologico e politico con un liberismo selvaggio, superficiale e culturalmente inconsistente - ma non per questo non pericoloso - che confonde la libertà con l’assenza di regole, e possa generarsi una mostruosità culturale, con pesanti effetti civili, sociali ed economici.
Se la subcultura dei clan, il clientelismo e il familismo, i poteri illegali territoriali, si fondessero - e i segni in questo senso purtroppo non mancano - con l’individualismo rozzo, non nato da una costruzione spirituale drammatica e profonda, come quella calvinista americana, ma dalla decomposizione ideologica e della sfiducia qualunquista nella dimensione pubblica, non si avrebbe la liberazione delle nuove energie che oggi si presume siano impacciate dai “lacci e laccioli” dei vincoli normativi, ma, insieme, lo sfascio pubblico e il soffocamento delle libertà individuali, il non impossibile distacco del Paese dall’Europa.
L’Italia, priva di una robusta spina dorsale di leggi, adeguatamente semplificate, ma rispettate, e di norme etiche sociali condivise, sarebbe difficilmente capace di sostenere la sfida culturale ed economica, imposta dalla globalizzazione, e di collocarsi nella fascia “alta”, nella divisione internazionale del lavoro. Il rispetto comune della legge è la prima e più basilare manifestazione di coesione e della capacità cooperazione costruttiva di una società e la condizione del suo benessere.
Ma un paese non può avere solo un progetto economico, deve avere anche una aspirazione alla affermazione umana generale dei suoi cittadini. Poiché una nazione è fatta di individui, è ovvio che non c’è vero sviluppo sociale senza uno sviluppo individuale, culturale, morale e civile. È questa la condizione vera per il miglioramento della qualità della vita (che non consiste solo in una maggiore disponibilità di beni).
Nella subcultura della illegalità (sia “arcaica” che - diciamo così - “postmoderna”) il problema del rispetto di regole generali valide per tutti non esiste, manca l’idea stessa ed il senso del bene comune, del “pubblico” come insieme equilibrato di diritti e doveri di tutti i cittadini. Di conseguenza manca anche, effettivamente, l’idea di individualità libera. C’è una differenza sostanziale tra l’individuo che liberamente, cioè consapevolmente, aderisce alla comunità in cui vive, rispetta i suoi valori, le sue norme, condivide i suoi progetti, e quello incapsulato e oppresso nella vischiosità delle relazioni familiari, di clan, di gerarchie di potere illegale, o anche solo, insieme, soggetto e vittima delle pratiche di corruttela e all’arbitrio amministrativo incontrollato. Mentre il primo ha diritti, è libero, nello spazio aperto della legge, cioè dalla “volontà generale”, il secondo deve chiedere sempre favori, ed è perciò sottomesso alla volontà e all’arbitrio di tutti coloro che, per una ragione o per l’altra, dispongono di un qualche potere. Non si deve dimenticare quanto, più di due secoli fa, affermava Montesquieu: “La libertà è il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono; e se un cittadino potesse fare quello che esse proibiscono, non vi sarebbe più libertà, perché tutti gli altri avrebbero questo potere”. Libertà dell’individuo e legge non sono in alternativa, ma anzi sono inseparabili l’una dall’altra.
L’individuo non può svilupparsi in una sorta di perenne stato di minaccia, che lo costringe sempre alla ricerca di favori e protezioni. Ha bisogno di uno spazio relativamente sicuro, in cui possa fare emergere i suoi liberi interessi, le sue propensioni, la sua creatività. L’individuo libero è il prodotto finale riuscito di una società equilibrata che gli ha assicurato la necessaria, basilare certezza dei suoi doveri e dei diritti.
La legge di per sé non è solo imposizione di limiti, di divieti, è anche, positivamente, patto e progetto, condizione e fondamento della convivenza e della cooperazione. Senza un forte spirito pubblico che si sostanzia nelle leggi condivise e rispettate, senza che la società sia considerata, per se stessa, un bene comune, si impone la logica della frantumazione e una inesorabile prospettiva di declino.
Il fastidio per le norme comuni, l’individualismo anarcoide, che pretende di essere nuovo, sono solo l’altra faccia del clientelismo, della corruzione politica ed amministrativa, del familismo, della soffocante, incivile prepotenza. Non sono nulla di “moderno”, ma il segno della eterna furbizia dei subalterni, dell’arte di arrangiarsi dei popoli che non sanno fare di meglio. Sono - per quanto ci riguarda - manifestazioni del riemergere di qualcosa che purtroppo ben conosciamo nella storia italiana: l’atavica debolezza e sfiducia in sé di una società che teme di non essere in grado di farsi carico di se stessa. Di ciò che può dare luogo al desiderio regressivo di affidarsi a un uomo della provvidenza, alla vacua “stanchezza della libertà” che prepara catastrofi.
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