Il problema idrico dell’Isola (che risale all’Ottocento) rivela la presenza interessata di alcuni boss mafiosi che speculano sul prezioso liquido, “vendendolo” ai Comuni
Il lavatoio è appena fuori dal centro abitato. Qui, fino agli anni Sessanta, le donne andavano insieme a fare il bucato, poi tornavano a casa, con le ceste in equilibrio sul capo e stendevano al sole i panni appena lavati. Ora, come allora, l'acqua sgorga libera da un grosso tubo, scorre dentro la grande vasca e scivola fuori dallo scarico perdendosi nelle campagne sottostanti. In paese sono alla disperazione: l'acqua, dai rubinetti delle case, esce due ore ogni tre giorni; le campagne sono assetate.
Il paese di chiama Niscemi, in provincia di Caltanissetta, a pochi chilometri da Gela. L'anno è il 1997.
Accanto al lavatoio si ferma una piccola autobotte, scendono giù un uomo e un bambino. In mano hanno delle scope, l'uomo anche una pelle di daino gialla e una spatola da stuccatore. Si avvicinano alla vasca e cominciano a pulirla con le scope. Poi, quando tutto il muschio che c'era sul fondo è stato raschiato via, grazie anche alla spatola, l'uomo tappa lo scarico con la pelle di daino, la vasca comincia a riempirsi, l'uomo allora agguanta il grosso tubo collegato all'autobotte, lo immerge nell'acqua e aziona la pompa che comincia a succhiare. “Riempio l'autobotte: 500 litri. Poi vendo l'acqua ai contadini: 700mila lire. In un giorno riesco a fare tre, quattro carichi”, spiega l'uomo. Poi si rimette a lavorare.
Scene come questa, in Sicilia, sono state e sono all'ordine del giorno.
Ormai l'acqua è preziosa come l'oro. Oro blu.
Eppure, in Sicilia, l'acqua c'è. Secondo il generale Roberto Jucci, ad Agrigento, dove i rubinetti fanno il proprio dovere solo una volta ogni due settimane, ce n'è più che a Reggio Emilia, dove non è mai esistita crisi idrica. Jucci è un ex generale dei carabinieri, che, all'inizio del 2001, il governo Amato mandò in Sicilia come commissario straordinario, con l'intenzione di risolvere il problema idrico. Il Centrodestra protestò: crisi idrica? Quale crisi idrica? Infatti, quando, all'inizio dell'anno è scaduto il mandato di Jucci il governo Berlusconi non gliel'ha rinnovato, lo ha mandato a casa. L'ex generale aveva cominciato un censimento dei pozzi, pubblici e privati, che nell'isola non esiste. E non deve esistere. Così come l'acqua raccolta nei 44 invasi costruiti dagli anni Cinquanta in poi non deve andare da nessuna parte. Deve restare lì, finché non evapora. E le reti idriche devono restare i colabrodo che sono oggi, continuando a perdere per strada il cinquanta per cento del liquido che li attraversa.
Perché? Perché è un business, un affare tra i più redditizi. In termini di potere e di denari.
Attualmente, la gestione delle acque, in Sicilia, è frammentata fra 3 enti regionali, 3 aziende municipalizzate, 2 società miste, 19 società private, 11 consorzi di bonifica, 284 gestioni comunali, 400 consorzi fra utenti e altri 13 consorzi. Jucci pensava di istituire un'Autorità che sovrintendesse e coordinasse tutti questi enti. Sarebbe finita la pacchia.
“In un simile contesto, Cosa Nostra realizza grandi affari - sottolinea Franca Imbergamo, pubblico ministero della Dda di Palermo - grazie alla gestione diretta dei pozzi e delle autobotti. Quelle che non controlla direttamente le taglieggia, devono pagare la percentuale”.
Ecco degli esempi concreti. Quattro anni fa, al comune di San Giuseppe Jato, arrivò un'ingiunzione di pagamento di 61 milioni di lire. A chiedere quei denari era il boss, allora latitante, Salvatore Genovese, che durante il biennio 1987-1988 aveva effettuato numerosi trasporti d'acqua per conto del comune. Nello stesso periodo in cui Genovese trasportava acqua per conto del municipio di San Giuseppe Jato, a Scordia, nella Piana di Catania, un altro boss, Giuseppe Di Salvo, all'epoca al soggiorno obbligato a Bologna, si candidava al consiglio comunale del suo paese e per ingraziarsi gli elettori, prometteva di regalare al comune un pozzo d'acqua.
“Da svariati decenni il problema idrico, in Sicilia, viene sfruttato per fini elettoralistici; viene fatto incancrenire - ricorda la dottoressa Imbergamo - per potere gestire l'emergenza e concludere affari. Affari ai quali la mafia non è certo estranea, interessata com'è ai subappalti di dighe, dissalatori e opere di canalizzazione. Molti mafiosi, ad esempio, hanno perso la vita nella guerra per accaparrarsi il movimento terra in alcuni lavori pubblici legati alla crisi idrica”.
Secondo Umberto Santino, presidente del Centro di documentazione "Peppino Impastato", le guerre di mafia per il controllo dell'acqua, nell'isola, risalgono alla seconda metà del 1800: “Nell'ottobre del 1874 viene ucciso a Monreale, il centro vicino Palermo sede del famoso duomo arabo-normanno, il fontaniere Felice Marchese. Il delitto s'inserisce nel conflitto tra due organizzazioni mafiose rivali, i Giardinieri e gli Stoppaglieri, che è la prima guerra di mafia documentata. Successivamente, nell'agosto del 1890, si avrà un altro omicidio. Questa volta a cadere è il guardiano dell'acqua dell'Istituto psichiatrico di Palermo, Baldassare La Mantia, che si era rifiutato più volte di favorire i fratelli Vitale, gabelloti (affittuari) e capimafia della frazione palermitana Altarello di Baida”.
Più di recente, alla fine degli anni Ottanta, Gela ha conosciuto una guerra di mafia, con centinaia di morti, esplosa proprio per il controllo dei subappalti della diga Disueri. Infine - è cronaca recente - ai primi di maggio, a Racalmuto, il paese di Leonardo Sciascia, e a Lucca Sicula sono stati arrestati tecnici comunali, imprenditori e mafiosi: avevano truccato le gare d'appalto per il rifacimento delle reti idriche comunali.
In tutto questo baillame, Totò Cuffaro, presidente della Regione e commissario al posto di Jucci, tutto ciò che riesce a dire è: “Speriamo che quest'estate piova”. Altrimenti potrebbe tentare con la danza della pioggia.
S. G.
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