A diciotto anni dall’omicidio per mano mafiosa, un convegno, promosso dall’Università etnea, analizza la multiforme opera dell’intellettuale siciliano. Su Catania spira vento di normalizzazione e l’informazione continua ad essere reticente, come al tempo del delitto
“Io ho un concetto etico di giornalismo. Un giornalismo fatto di verità, impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, sollecita la costante attuazione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico di vite umane. Un giornalista incapace, per vigliaccheria o per calcolo, della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori che avrebbe potuto evitare, le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze, che non è stato capace di combattere”.
Con queste parole, nel 1981, in un editoriale del Giornale del Sud, Giuseppe Fava spiega cosa intende per giornalismo. Parole che, lo scorso 13 maggio, abbiamo ascoltato dalla voce della figlia Elena, lette in occasione della giornata di studi dedicata al padre dalla facoltà di Lingue straniere dell'Università di Catania, dalla Fondazione Fava e dall'Imes (Istituto meridionale di storia e scienze sociali). Il merito dell'iniziativa va in gran parte a Marzia Finocchiaro, la giovane ricercatrice che ha voluto il convegno su Fava “giornalista attento, appassionato, coraggioso, valido romanziere, saggista puntuale, fertile drammaturgo, attualissimo sceneggiatore cinematografico e sorprendente pittore”.
Ci sono voluti diciotto anni - tanti ne sono trascorsi dall'omicidio mafioso del 1984 - perché l'opera di Fava, “la grande attualità che ha la complessità di questa figura”, cominciasse a essere analizzata nel “tentativo di rintracciare un filo conduttore, unitario, di respiro europeo”, chiarisce il preside di Lingue, Antonio Pioletti, aprendo i lavori. “Fili che riguardano un periodo cruciale della nostra storia, dal dopoguerra al 1984: anni - precisa Pioletti - in cui inizia a svelarsi il rapporto tra mafia, politica e affari. Un rapporto di cui Fava, con le sue inchieste e, soprattutto, attraverso la rivista I Siciliani, ha squarciato gli intrecci”. Il professore Pietro Barcellona, dal canto suo, descrive Fava come “un grande siciliano” e ne sottolinea le “molte affinità con il Pasolini che ha fatto il processo al Palazzo: denunciavano le stesse cose”.
Giuseppe Fava nasce a Palazzolo Acreide (Siracusa), nel 1925, figlio di due insegnanti elementari, Elena e Giuseppe, di origini contadine; nel '43 si trasferisce a Catania, dove si laurea in giurisprudenza e si stabilisce definitivamente. Qui comincia a fare il giornalista, collabora con diverse testate regionali ma anche con periodici nazionali - La Domenica del Corriere, Tempo Illustrato -, scrive di cinema e di calcio, di teatro e di costume, realizza interviste memorabili come quelle a Calogero Vizzini e a Genco Russo, storici capi della mafia siciliana. Per anni è capocronista del quotidiano del pomeriggio, Espresso Sera, e quando, alla fine degli anni Settanta, tutti danno per scontato che diventi il direttore, l'editore gli preferisce un altro. Troppo libero, troppo incontrollabile per potergli affidare la direzione. Anche se si tratta di un piccolo giornale, pubblicato dal monopolista dell'informazione etnea, Mario Ciancio Sanfilippo, editore-direttore del quotidiano La Sicilia.
Quello che Fava instaura con la sua città adottiva è un rapporto d'amore-odio, intenso, passionale: “Io - scrive nel libro-inchiesta I Siciliani, pubblicato nell'80 - sono diventato profondamente catanese, i miei figli sono nati e cresciuti a Catania, qui ho i miei pochissimi amici ed i molti nemici, in questa città ho patito tutti i miei dolori di uomo, le ansie, i dubbi, ed anche goduto la mia parte di felicità umana. Io amo questa città con un rapporto sentimentale preciso: quello che può avere un uomo che si è innamorato perdutamente di una puttana, e non può farci niente: è volgare, sporca, traditrice, si concede per denaro a chicchessia, è oscena, menzognera, prepotente, e però è anche ridente, allegra, violenta, conosce tutti i trucchi e i vizi dell'amore e glieli fa assaporare, poi scappa subito via con un altro; egli dovrebbe prenderla mille volte a calci in faccia, sputarle addosso ‘al diavolo, zoccola!’, ma il solo pensiero di abbandonarla gli riempie l'animo di oscurità”.
Fava decide di affrontare quella “oscurità”, di combatterla, di affrancarsi da quella dipendenza. Si trasferisce a Roma, diventa conduttore di una trasmissione radiofonica Rai, Voi e io, scrive per Il Tempo e per il Corriere della Sera, segue la messa in scena di alcune sue opere teatrali, mentre Palermo oder Wolfsburg, film tratto dal suo romanzo Passione di Michele, riceve l'Orso d'oro al Festival di Berlino. Fava è autore della sceneggiatura, la regia è del tedesco Werner Schroeter. Un film sull'emigrazione e sulla Sicilia contadina che in Italia non è mai stato proiettato.
È la primavera del 1980 quando Giuseppe Fava torna a Catania. E ci torna per dirigere un quotidiano, il Giornale del Sud, che fa con una nidiata di giovani cronisti - età media, 23 anni - tra i quali il figlio Claudio, Riccardo Orioles, Michele Gambino, Antonio Roccuzzo, Elena Brancati, Rosario Lanza. Gli editori? “I loro nomi - ricorda Claudio Fava, nel libro La mafia comanda a Catania -, allora, dicevano poco: Salvatore Lo Turco, Gaetano Graci, Giuseppe Aleppo, Salvatore Costa. Tipi ambiziosi, astuti, pragmatici. Nient'altro”. Poi si scopre che Lo Turco frequenta il boss Nitto Santapaola, e che Graci ci va a caccia, con Santapaola.
In una città dove La Sicilia racconta la guerra in atto - cento morti l'anno - come una serie di “regolamenti di conti” non meglio specificati, il Giornale del Sud parla di mafia, di guerra tra clan contrapposti (Santapaola-Ferlito), di traffico di droga e di rapporti tra mafia e politica. Con tanto di nomi e cognomi. Non solo. Fava si schiera contro l'installazione dei missili Cruise a Comiso, provocando l'irritazione degli editori, che gli scrivono: “Non dimentichi che il nostro quotidiano si muove nell'ambito del Patto Atlantico”. “Il giorno dopo - racconta Claudio Fava - il Giornale del Sud usciva con otto cartelle di editoriale ironico, sprezzante, beffardo. Contro gli americani, i loro missili, i loro lacchè politici”. Insomma, il rapporto tra Fava e gli editori s'incrina presto, fino a diventare conflitto. E il giornalista è licenziato.
“Fava decide di stare dentro il conflitto - sottolinea al convegno Adriana Laudani, legale della famiglia nel processo agli assassini - e si dà gli strumenti per starci”. Insieme a un gruppo di giovani che lo segue dal Giornale del Sud fonda la cooperativa Radar, con l'intenzione di fare un giornale di cui loro stessi siano gli editori. “Quel giornalista - scrive il sociologo Nando dalla Chiesa, nell'introduzione al saggio di Rosalba Cannavò Giuseppe Fava. Cronaca di un uomo - in realtà, creò altri giornalisti, diede vita a un collettivo, fondò una testata tirandola fuori con tenacia dal mondo dell'immaginazione. Fu un maestro. Un maestro che ha insegnato a battersi, con l'arma della parola, a un gruppo di giovani”. Quei giornalisti, quella rivista - secondo dalla Chiesa - sono fautori di “un modello di giornalismo in grado di veleggiare da nave corsara nella grande palude della pacificazione”. Mentre Fava è “uno dei maggiori intellettuali siciliani di questo secolo”.
Il mensile I Siciliani arriva nelle edicole dell'isola nei giorni di Natale del 1982. Il primo numero è un volume di 164 pagine che in copertina "strilla" i tre servizi portanti: I cavalieri di Catania e la mafia, È difficile essere giudici in Sicilia, La donna e l'amore nel Sud. L'inchiesta principale, che accenderà i riflettori nazionali sulla città, s'intitola I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa, un autentico atto d'accusa nei confronti di quattro tra i maggiori imprenditori del Sud, Mario Rendo, Carmelo Costanzo, Francesco Finocchiaro e Gaetano Graci (quest'ultimo, uno degli editori del Giornale del Sud), titolari di quattro gruppi imprenditoriali da diecimila posti di lavoro complessivi.
Quattro mesi prima, a Palermo, la mafia ha ammazzato il generale-prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. È proprio dalla Chiesa, nell'agosto dell'82, a puntare il dito verso Catania: “Con il consenso della mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo”, rivela a Giorgio Bocca. Dalla Chiesa arriva in Sicilia dopo un'agghiacciante sequenza di omicidi eccellenti senza eguali nel mondo occidentale che, tra il '79 e l'82, insanguina Palermo: cadono il giornalista Mario Francese, il segretario provinciale della Dc Michele Reina, il capo della Squadra Mobile Boris Giuliano, il consigliere istruttore Cesare Terranova, il presidente della Regione Piersanti Mattarella, i capitani dei Carabinieri Emanuele Basile e Mario D'Aleo, il procuratore capo Gaetano Costa, il segretario regionale del Pci Pio La Torre. Una carneficina da fare impallidire persino la Colombia dei narcos.
Fava lo ammazzano la sera del 5 gennaio 1984, a Catania, dopo undici numeri della rivista, dopo che i potenti della città provano a comprarsi lui e il suo giornale. Ricevendo sempre rifiuti. “Io c'ero in redazione - racconta al convegno Antonio Roccuzzo, uno dei carusi di Fava - nel gennaio 1983, il giorno in cui, un mese dopo l’uscita del primo numero del mensile, arrivò l'offerta di Rendo: ‘Vi compro la rotativa’. Rifiutata. E c'ero nove mesi e nove numeri dopo, quando - era l'ottobre 1983, tre mesi prima del 5 gennaio 1984 - arrivò il ministro Salvo Andò a offrire a Fava e a noi la gestione di una nuova emittente. Offerta rifiutata”. Infine arriva l'offerta di Graci: 200 milioni per entrare nella proprietà del giornale. Rifiutati.
Nell'ultimo editoriale scritto per I Siciliani, nel novembre del 1983, Fava racconta le impressioni maturate dopo la messa in scena della sua più recente opera teatrale, che parla di scandali e corruzioni tra i potenti: “Anteprima dell'Ultima violenza, nella sala ci sono tutti i rappresentanti del potere nel territorio, i buoni e i cattivi, i giusti e gli iniqui, i galantuomini e i mascalzoni. Sulla scena per tre ore sfilano i personaggi equivalenti”. Alla fine è un'ovazione collettiva, tutti applaudono, tutti si complimentano. E Fava commenta così: “Il clima morale della società è questo. Il potere si è isolato da tutto, si è collocato in una dimensione nella quale tutto quello che accade fuori, nella nazione reale, non lo tocca più e nemmeno lo offende, né accuse, né denunce, dolori, disperazioni, rivolte. Egli sta là, giornali, spettacoli cinema, requisitorie passano senza far male: politici, cavalieri, imprenditori, giudici applaudono. I giusti e gli iniqui. Tutto sommato questi ultimi sono probabilmente convinti d'essere ormai invulnerabili”.
Questo senso d'invulnerabilità è documentato da una serie di fotografie. Al centro di ogni foto c'è Nitto Santapaola, assieme a lui, di volta in volta, c'è il sindaco, il presidente della provincia, il questore, il prefetto, un deputato regionale dell'Antimafia, un segretario di partito, qualche giornalista, il rapmpollo di uno dei quattro cavalieri, il genero di un altro cavaliere… Quelle foto sono la prova più evidente delle collusioni denunciate da Fava. Lui non sa della loro esistenza. In Procura, invece, lo sanno benissimo: le trovano durante una perquisizione, a casa di un mafioso ammazzato. E le tengono nascoste. Finché uno scrupoloso capitano dei Carabinieri non spedisce quelle foto a Palermo, al giudice Giovanni Falcone. Stanno agli atti del maxiprocesso.
Dopo il delitto, invece di partire dalle cose scritte da Fava, invece di partire da quelle foto insabbiate, la Procura di Catania “indaga a 360 gradi” e, secondo La Sicilia, si ipotizzano “questioni di natura privata”; i padroni della città, per voce del proconsole andreottiano Nino Drago, invitano i magistrati a “chiudere presto le indagini altrimenti i cavalieri se ne andranno”. Dopo due anni dall'entrata in vigore, a Catania viene applicata per la prima volta la legge La Torre che consente le indagini bancarie nelle inchieste di mafia: sono setacciati i poveri conti di Fava, dei suoi familiari e dei suoi collaboratori. Questa è la Procura di Catania, nel 1984. Questa è Catania.
Il quotidiano locale, nel corso degli anni, non perde occasione per intralciare le indagini e disorientare l'opinione pubblica, fino a tentare di screditare Maurizio Avola, il pentito che alla fine del 1993 confessa di avere partecipato all'omicidio e accusa il boss Nitto Santapaola e altri mafiosi di avere ammazzato Fava “per fare un favore ai cavalieri”. Se nel frattempo non fossero morti, anche Costanzo e Graci sarebbero stati indagati per il delitto. I giornalisti de I Siciliani, in occasione del tentativo di screditare Avola, denunciano Tony Zermo, inviato e editorialista di punta del quotidiano di Ciancio. Lo denunciano per favoreggiamento degli assassini di Fava, ucciso dieci anni prima. Una denuncia senza seguito, smarrita nei meandri del Tribunale etneo.
Il 10 luglio del 2001 la Corte d'Assise d'Appello di Catania conferma gli ergastoli inflitti in primo grado ai “mandanti”, Nitto Santapaola e Aldo Ercolano, mentre assolve i sicari Marcello D'Agata, Vincenzo Santapaola e Franco Giammuso, condannati in primo grado. È definitiva, invece, la condanna a 7 anni di reclusione di Avola. “Aspetto di vedere le motivazioni - dice l'avvocato Fabio Tita, legale di parte civile dei Siciliani - voglio vedere come la Corte concilia la condanna già passata in giudicato di Avola con le assoluzioni. Forse che Avola stava su un'altra auto con altri killer?”.
“Prima (e purtroppo anche dopo) che uccidessero Fava, e proprio per questo, non c’era libertà di informazione a Catania. Né c’è stato mai un vero mercato dei giornali. Non c’è mercato - sottolinea Roccuzzo - in una città da mezzo milione di abitanti nella quale c’è un solo giornale. ‘Non c’è spazio per due giornali’, dicono. Dove lavoro io oggi, a Reggio Emilia (certo non voglio fare paragoni, almeno in termini di ricchezza sul territorio), ci sono tre giornali locali per centomila abitanti. E a Catania, come è a tutti noto, si producono ben più e più gravi fatti da raccontare”. A Catania il monopolio dell'informazione scritta, radiofonica e televisiva è nelle mani di Mario Ciancio Sanfilippo, ex presidente della Fieg. Pensate che l'edizione siciliana del La Repubblica si stampa qui, nella tipografia di Ciancio, ma le cronache regionali possono leggerle nelle altre otto province dell'isola non a Catania: nei comuni etnei viene distribuita l'edizione nazionale, purgata delle pagine siciliane.
Così, mentre in Procura, dopo gli anni di Tangentopoli e di Mafiopoli, torna a spirare vento di normalizzazione, un galantuomo come il presidente del Tribunale per i minorenni, Giambattista Scidà, va in pensione col marchio infamante, impresso dal Csm, di “magistrato aduso a formulare nei confronti dei colleghi accuse del tutto gratuite”. Ha denunciato scandali, Scidà. Viene fatto passare per viosionario, pazzo, calunniatore. La città si stringe attorno all'anziano giudice, la cui rettitudine morale è nota a tutti; in pochi giorni vengono raccolte più di quattromila firme di persone che gli esprimono solidarietà. Firme inviate al presidente Ciampi e al Csm. Durante un'affollata assemblea, un docente universitario afferma: “C'erano due rompiscatore in questa città: uno lo hanno ammazzato, Fava; l'altro, Scidà, lo stanno infamando”. Persino la Commissione parlamentare antimafia si schiera con Scidà, tessendone le lodi in due fitte pagine della relazione su Catania. Per l'organo di autogoverno dei magistrati, invece, Scidà è solo un uomo da bruciare.
Intanto La Sicilia, pochi giorni prima del convegno su Fava, rimpiange “la grande imprenditoria dei cavalieri del lavoro spazzati dall'ondata giustizialista seguita al delitto Dalla Chiesa”. Il pezzo è firmato da Tony Zermo. Nel 1998, sempre Zermo, sceglie il giorno successivo all'anniversario del delitto per recriminare sulla scomparsa dei cavalieri, così bravi e potenti “da attirare non solo ammirazione, ma anche invidia, tanto che qualcuno, negli anni bui li soprannominò i ‘quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa’ come se i mali della città dipendessero da loro”. Fava derubricato a “qualcuno” “invidioso”.
Solo la voce di Claudio Fava si leva contro le mistificazioni del quotidiano di Ciancio: “Quell'onda giustizialista a cui si riferisce Zermo non è mai esistita nei confronti di Rendo, Graci, Costanzo e Finocchiaro. C'è stata semmai, e per lungo tempo, una risacca di impunità”. Il giornalista, oggi europarlamentare dei Ds, nella lettera inviata (e pubblicata) al quotidiano aggiunge che, quella di Zermo, gli sembra: “un'affermazione tragicamente ingenua: pensare cioè che quel modello d'affari, fabbricati a tavolino sulle esigenze e gli appetiti di un manipolo di imprenditori, sia stato davvero una ragione di sviluppo per Catania e per la Sicilia. È vero esattamente il contrario. Pochi signori definivano il destino della spesa pubblica mentre decine di altri imprenditori restavano ai margini, soverchiati, soffocati o risucchiati. Lei - scrive Fava, rivolgendosi al direttore del quotidiano - ricorderà, come tanti, quell'inimitabile intervista di uno dei cavalieri che a un giornale nazionale spiegava: ci siamo seduti e abbiamo deciso: a me le dighe, a te gli aeroporti e così via. Un ragionare degno di un'economia sudamericana. Basata su rapporti di forza e privilegi consolidati: non certo su meriti imprenditoriali. Che erano assai scadenti. Tant'è che, appena il mercato ritrovò il rigore delle regole, quei cavalieri furono spazzati via”.
Dalle parole di Claudio Fava emerge chiaramente come La Sicilia non coltivi quella “memoria storica” che Nando dalla Chiesa attribuisce a Giuseppe Fava. “Il giornalismo di Fava - sostiene il sociologo, oggi senatore dell'Ulivo -, favorito dal suo rapporto fortissimo con la dimensione della storia, costruisce e ricostruisce i fatti, rielabora le informazioni, non si stanca di raccontarle. In questo senso ho detto altrove che Fava non era stato ucciso perché avesse capito di più, ma perché aveva dimostrato il coraggio di riproporre, di ricordare, laddove gli altri correvano a dimenticare, a seppellire. Con lui viene ucciso il giornalismo che sta nella storia Con Fava è stato ucciso un intellettuale, uno specifico modo di intendere la funzione dell'intellettuale nella Sicilia degli anni Ottanta”.
Un giornalismo e un modo d'essere intellettuale che, con ogni probabilità, non piace nemmeno a Ferdinando Latteri, rettore dell'Ateneo di Catania, esponente di Forza Italia, che nel suo breve saluto ai convegnisti riesce a non citare nemmeno una volta Giuseppe Fava. Resta la promessa del preside di Lingue, Antonio Pioletti, il quale, parafrasando Francesco Saverio Borrelli, s'impegna a “continuare, continuare, continuare”.
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