Alle ore 16,58 del 19 luglio 1992 una violentissima esplosione, in via Mariano D’Amelio a Palermo provoca la morte di Paolo Borsellino, Procuratore aggiunto presso la Procura distrettuale della Repubblica di Palermo, e degli agenti di scorta Claudio Traina, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e Eddie Walter Cosina.
L’esplosione è provocata da una carica di elevato potenziale collocata probabilmente all’interno di una auto parcheggiata vicino all’ingresso del numero 19-21 nel palazzo dove Paolo Borsellino va con una certa frequenza a trovare l’anziana madre quando è ospite della figlia Adele che vive in un appartamento al quarto piano. Le analisi chimiche rivelano tra i componenti della carica esplosiva la presenza di T4, tritolo e pentrite, il peso viene approssimativamente stimato in 90 chili circa di esplosivo collocato probabilmente nel vano dell’auto utilizzata come autobomba.
Nei pressi del luogo dell’esplosione viene trovato un blocco motore che appartiene alla macchina probabilmente utilizzata come contenitore della carica esplosiva. Il blocco motore, che presenta il numero di serie ancora visibile, appartiene ad una Fiat 126 rossa intestata a Maria D’aguanno, rubata e denunciata il 10 luglio 1992 presso i Carabinieri della stazione di Palermo-Oreto da Pietrina Valenti.
Viene anche trovata sul luogo dell’esplosione la targa di un’altra Fiat 126 intestata a Anna Maria Sferrazza, il cui furto è denunciato la mattina del 20 luglio 1992 da Giuseppe Orofino, titolare di una carrozzeria, dove l’auto di Anna Maria Sferrazza è stata lasciata per riparazioni. Il fatto particolare è che la macchina non è stata rubata, sono stati rubati invece i documenti e la targa.
Gli investigatori decidono di intercettare l’utenza telefonica di Simone Furnari marito di Pietrina Valenti la signora che ha fatto la denuncia di furto della 126 che si sospetta contenesse l’esplosivo. Dall’ascolto gli investigatori stupiti scoprono un episodio di violenza carnale commesso su Cinzia Angiuli da parte di Luciano Valenti, fratello di Pietrina Valenti, da parte di Roberto Valenti e di Salvatore Candura; quest’ultimo quando viene interrogato dagli inquirenti su questo fatto comincia a dare chiari segni di inquietudine, che fanno nascere il sospetto, suffragato dall’ascolto delle intercettazioni telefoniche, che possa essere implicato nel furto della Fiat 126 appartenente a Pietrina Valenti ed utilizzata probabilmente come autobomba. Questo sospetto viene confermato dalla confessione di Salvatore Candura, il quale ammette che il furto è stato commesso da lui su commissione di Vincenzo Scarantino, che insieme ai fratelli gestisce grossi traffici illeciti nella zona della Guadagna ed è imparentato con un esponente della criminalità mafiosa Salvatore Profeta, sposato con la sorella di Vincenzo, Ignazia Scarantino, inserito nella cosca mafiosa di Pietro Aglieri ed implicato in vari processi penali per associazione mafiosa, armi, droga, tra i quali anche il procedimento per il primo maxi processo di Palermo istruito dai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Il 26 settembre 1992 viene arrestato Vincenzo Scarantino per strage, furto aggravato ed altro. Le indagini subiscono una svolta improvvisa ed imprevista quando inizia a collaborare con la giustizia Francesco Andriotta, che riferisce che tra il giugno e l’agosto del 1993, quando era detenuto, ha passato in carcere molto tempo con Vincenzo Scarantino; quest’ultimo gli ha confidato, dopo avere saputo dell’arresto di Giuseppe Orofino, che Orofino gli aveva commissionato il furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba per la strage di via D’Amelio, che il furto della targa era stato denunciato volutamente il giorno 20/7/1992 da Orofino approfittando della chiusura domenicale della sua officina per giustificare il ritardo. Andriotta racconta anche di avere saputo da Scarantino che il fratello di un esponente mafioso vicino ai Madonia nella fase preparatoria dell’attentato aveva intercettato una utenza telefonica per conoscere gli spostamenti di Paolo Borsellino e che ai preparativi della strage ed alle operazioni di caricamento dell’esplosivo aveva partecipato anche il cognato Salvatore Profeta.
Gli investigatori dedicano una particolare attenzione alla ricostruzione degli spostamenti di Paolo Borsellino nel giorno della strage e nei giorni precedenti, per capire come gli attentatori sono riusciti ad individuare, nonostante le cautele adottate per proteggere gli spostamenti del dott. Borsellino, il momento in cui il magistrato si è recato nell’abitazione di via D’Amelio dove si trovava la madre, luogo ottimale per l’esecuzione di un attentato perché scarsamente protetto e privo persino di una zona rimozione all’ingresso dell’abitazione. I componenti della famiglia Fiore-Borsellino raccontano agli investigatori di aver visto un operaio intento ad armeggiare nella cassetta dei fili telefonici con una panda azzurra della Elte e raccontano anche che già da un paio di mesi prima della strage notavano strane anomalie nel funzionamento del telefono. Gli investigatori decidono allora di analizzare la rete telefonica del condominio di via D’Amelio n. 19 per vedere se è rimasta traccia di intercettazioni sulla linea della famiglia Fiore-Borsellino. Questa analisi mette in evidenza che le anomalie di funzionamento possono derivare da una intercettazione abusiva realizzata in modo rudimentale attraverso un circuito di derivazione poi rimosso. Questa ipotesi investigativa viene confermata nelle dichiarazioni di Cecilia, figlia di Rita Borsellino e nipote del magistrato assassinato, e dal fidanzato Emilio Corrao, che raccontano di avere notato, pochi giorni prima dell’attentato un operaio intento a lavorare sulla cassetta dove passano anche i cavi telefonici sul pianerottolo dell’abitazione, e di aver visto una panda azzurra parcheggiata sotto il palazzo con la scritta “Elte”. Forniscono poi una descrizione precisa dell’operaio e lo riconoscono sia fotograficamente che di presenza nel corso del dibattimento, come Pietro Scotto, che lavora come dipendente della ditta “Elte s.p.a.” presso la zona del “Centro lavori falde” in cui ricade anche via D’Amelio dove è stata realizzata la strage.
Sulla base di questi elementi e delle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, che il 24 giugno 1994 ha iniziato a collaborare, vengono rinviati a giudizio Vincenzo Scarantino, Giuseppe Orofino, Salvatore Profeta e Pietro Scotto.
Il primo processo per la strage di via D’Amelio si conclude il 26 gennaio del 1996: la Corte D’Assise presieduta da Renato Di Natale (oggi Procuratore aggiunto a Caltanissetta) condanna all’ergastolo Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto, mentre il collaborante Vincenzo Scarantino viene condannato a 18 anni. La condanna di Scarantino è diventata definitiva in quanto la sentenza non viene appellata dall’imputato. I pm sono Carmelo Petralia e Anna Maria Palma.
Il processo ha un percorso molto complicato. Fin dall’inizio la collaborazione di Scarantino è stata tormentata. Il pentito ha ammesso di aver partecipato alla strage e ha poi ritrattato più volte. Nel 1998 Scarantino ha deciso di fare un altro “dietro front” e in aula ha dichiarato di “aver accusato solo innocenti” e di essersi inventato le accuse “spinto da magistrati e investigatori”. La Procura nissena ha ordinato il suo arresto revocandogli il programma di protezione.
I giudici del primo processo di appello hanno rimesso in discussione l’impianto accusatorio, assolvendo Pietro Scotto e Giuseppe Orofino, condannati all’ergastolo in primo grado. Il primo era considerato il tecnico che dispose l’intercettazione sulla linea della madre del magistrato, il secondo era il titolare dell’autocarrozzeria nella quale la 126 venne imbottita di tritolo. Questa è la storia del processo cosiddetto Borsellino primo, il processo contro i manovali della strage.
Ma il 1° febbraio del 2002 nel corso del processo d’appello del cosiddetto Borsellino bis nuovo colpo di scena Scarantino cambia di nuovo versione: “Ho ritrattato perché mi hanno minacciato, la verità è quella che ho detto nel processo di primo grado”, confessa. La ritrattazione, secondo Scarantino, fu determinata da una serie di segnali mandati da Cosa Nostra e poi da precise indicazioni di Antonio, nipote di Pietro Scotto, il presunto telefonista dell’agguato, assolto nel processo di primo grado. “Scarantino e Antonio si sono incontrati casualmente e hanno preteso di non riconoscersi e di essere altre persone”. Antonio chiacchierava e l’altro parlava dei pentiti e diceva: “Sono morti che camminano... A un certo punto”, racconta Scarantino, “incominciai a vedere Tonino anche davanti alla scuola dei bambini e davanti casa, spesso mi chiedeva come stavano, come crescevano. Così un giorno andai a Modena da mio fratello e gli dissi che volevo ritrattare, lui doveva diffondere la voce a Palermo. E così fece”. Tonino allora gli svelò che sapeva tutto: “Ancora non l’hai capito - mi disse - io lo so che tu sei Scarantino, so tutto quello che fai. Cerca di ritrattare, devi dire che sono stati la Polizia e i magistrati che ti hanno fatto fare quelle dichiarazioni. Tu puoi uscirne fuori, ti facciamo dare l’infermità mentale, c’è una nuova legge, ti fissiamo un appuntamento con gli avvocati...”.
A complicare ulteriormente il processo è intervenuto un altro pentito: Giovan Battista Ferrante. Ferrante ha raccontato di avere appreso in carcere, da Salvatore Biondino e Salvatore Biondo, che l’esplosivo non fu piazzato nella Fiat 126 parcheggiata accanto allo stabile dove abitava la madre del magistrato ma in un bidone pieno di calce. Nelle immagini, girate da una telecamera amatoriale dei Vigili del Fuoco e acquisite agli atti del processo, non c’è traccia del blocco motore dell’autobomba ritrovato il giorno dopo alle 13 dal quale partirono le indagini sfociate poi nell’arresto dei boss ritenuti autori dell’eccidio.
Dunque, oltre al processo sugli esecutori, dalla strage di via D’Amelio prendono il via altri processi:
A) il cosiddetto Borsellino bis, il processo a 18 mafiosi, tra cui i boss Totò Riina e Pietro Aglieri, accusati di avere ordinato la strage del 19 luglio ’92. Per il processo d’appello del Borsellino bis, è stata riaperta l’istruttoria dibattimentale dopo l’ulteriore ritrattazione di Vincenzo Scarantino, Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi. Il 18 marzo 2002 la Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta ha inflitto 13 ergastoli nei confronti dei presunti mandanti ed esecutori della strage: Totò Riina, Salvatore Biondino, Pietro Aglieri, Giuseppe Graviano, Carlo Greco, Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia. L’ergastolo è stato inflitto anche a Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso e Gaetano Murana, che erano stati invece assolti in primo grado. Dieci anni di reclusione per associazione mafiosa, sentenza confermata, sono stati inflitti a Giuseppe Calascibetta e Salvatore Vitale, otto anni e sei mesi a Salvatore Tomaselli e otto anni ad Antonio Gambino.
B) Il Borsellino ter, in questo dibattimento sono imputati altri 26 boss, tra cui Mariano Agate e Benedetto Santapaola, accusati di essere responsabili a vario titolo della strage. Nove ergastoli sono stati confermati e altri due sono stati inflitti dalla Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta, nel processo Borsellino ter. Confermate le condanne per i boss Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Michelangelo La Barbera, Raffaele Ganci, Domenico Ganci. Condannati al carcere a vita Francesco Madonia, Giuseppe Montalto, Filippo Graviano, Cristoforo Cannella, Salvatore Biondo di 47 anni e Salvatore Biondo (omonimo) di 45 anni.
C) Sulla strage di via D’Amelio la Procura di Caltanissetta ha avviato un quarto troncone d’indagine, quello sui mandanti occulti e che riguarda gli intrecci tra mafia, imprenditoria e uomini politici.
|