home | noi | pubblicita | abbonamenti | rubriche | mailing list | archivio | link utili | lavora con noi | contatti

Giovedí, 22/10/2020 - 14:44

 
Menu
home
noi
video
pubblicita
abbonamenti
rubriche
mailing list
archivio
link utili
lavora con noi
contatti
Accesso Utente
Login Password
LOGIN>>

REGISTRATI!

Visualizza tutti i commenti   Scrivi il tuo commento   Invia articolo ad un amico   Stampa questo articolo
<<precedente indice successivo>>
luglio / agosto/2002 - Interviste
Mafia
A Capaci, quel giorno di maggio
di

Dal libro di Maurizio Torrealta “La trattativa” (Editori Riuniti) pubblicato due mesi fa, abbiamo tratto e pubblichiamo ampi stralci del capitolo IX e integralmente il capitolo XIII dedicati rispettivamente alle uccisioni di Falcone e di Borsellino

È il 23 maggio 1992. Pochi minuti prima delle ore 18,00, esplode una potentissima carica di esplosivo, collocata in un cunicolo sotto l’autostrada tra Punta Raisi e Palermo, al km 4 nei pressi dell’uscita per Capaci e provoca la morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.
Gli effetti dell’esplosione sono così forti che vengono registrati dai sismografi dell’Osservatorio geofisico di Agrigento. L’esplosione provoca un cratere di circa 14 metri di diametro e 3 metri e mezzo di profondità.
Il corteo di macchine colpito dall’esplosione è formato nell’ordine, da una Fiat Croma marrone con i tre agenti di scorta; dalla Fiat Croma bianca con a bordo il magistrato, la moglie e l’autista; infine dalla Fiat Croma azzurra che è la seconda macchina di scorta.
L’esplosione investe l’auto sulla quale viaggiano gli agenti della Polizia Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani e quella che segue immediatamente dopo, cioè quella condotta da Giovanni Falcone con a fianco la moglie Francesca Morvillo e con l’autista Giuseppe Costanza che occupa il sedile posteriore.
Nel momento immediatamente successivo allo scoppio, l’agente Corbo e gli altri colleghi, che viaggiano insieme a lui nella terza macchina, malgrado le ferite riportate, cercano di soccorrere i due magistrati e l’autista. Con l’aiuto dei primi soccorritori li estraggono dall’auto. Per Giovanni Falcone, però devono attendere l’intervento dei Vigili del Fuoco perché è rimasto incastrato fra le lamiere dell’auto.
Nonostante la potenza dell’esplosione tutti gli occupanti della Croma sono ancora in vita: Francesca Morvillo respira ancora, anche se ha perso conoscenza, mentre Giovanni Falcone mostra di rispondere con gli occhi alle sollecitazioni che gli vengono dai soccorritori. Malgrado gli sforzi dei soccorritori e dei medici entrambi i magistrati spirano nella serata per le emorragie causate dalle lesioni interne, mentre per l’autista Costanza la prognosi riservata viene sciolta dopo trenta giorni.
Nei primi momenti dopo l’esplosione non si trova traccia dell’autovettura blindata che era in testa al corteo e si pensa che gli agenti siano addirittura riusciti a sfuggire all’attentato e che siano corsi avanti a chiedere soccorsi. Solo nella serata la Fiat Croma viene ritrovata completamente distrutta, in un terreno adiacente all’autostrada a ben 62 metri di distanza dal cratere, con i corpi dei tre occupanti privi di vita.
Gli investigatori, nei sopralluoghi fatti nei giorni successivi, scoprono un posto di osservazione del luogo dell’attentato nel quale vengono trovati numerosi mozziconi di sigarette e rami tagliati di fresco per ampliare la visibilità sull’autostrada. Viene svolto l’esame del dna sulle tracce di saliva trovate nei mozziconi di sigarette. In seguito, dopo la confessione di Gioacchino La Barbera e di Mario Santo Di Matteo di avere partecipato alla preparazione ed alla esecuzione della strage, sono stati fatti esami comparativi tra il loro dna e quello trovato sui resti di sigaretta e questi esami hanno dato esito positivo (di alta compatibilità).
Le indagini della Dia prendono il via dalle indicazioni di Giuseppe Marchese, membro di Cosa Nostra, che poi diventerà collaboratore di giustizia. Siamo intorno al settembre 1992.
Giuseppe Marchese, per dimostrare la serietà dell’intenzione di abbandonare Cosa Nostra, indica agli inquirenti un gruppo di persone che sulla base della esperienza all’interno dell’organizzazione, è altamente probabile abbia avuto a che fare con la realizzazione dell’attentato: si tratta di Nino Gioé, Gioacchino La Barbera e un certo Mario Santo Di Matteo.
Sulla base di tali indicazioni gli investigatori della Dia concentrano la loro attenzione sul paese di Altofonte e sulle persone indicate da Marchese che provengono da quel luogo. Anche le indicazioni di Baldassarre Di Maggio, membro di Cosa Nostra, indicheranno gli stessi personaggi, Gioacchino La Barbera e Antonio Gioé, come coinvolti nell’attentato.
Queste persone, che normalmente vivono nel comune di Altofonte, nell’epoca successiva alla collaborazione del Di Maggio, si sono allontanate dalla loro abitazione. Gli investigatori della Dia, attraverso intercettazioni e pedinamenti individuano il covo nel quale hanno trovato rifugio. Si tratta di un appartamento in via Ungaretti n. 17 a Palermo, all’interno del quale vengono installate, nel marzo del 1993, delle apparecchiature per l’intercettazione ambientale, che consentono di captare una compromettente conservazione tra La Barbera e Gioé, avvenuta nella notte tra l’otto e il nove marzo.
La Barbera, nel tentativo di spiegare al suo interlocutore l’ubicazione di un luogo a Capaci, fa riferimento a un’officina nei pressi del posto in cui egli è rimasto in attesa quando è stato eseguito “l’attentatuni”. La Barbera, per meglio far intendere a Gioé il luogo al quale si riferisce, gli disse: “Ma ti ricordi, dducu a Capaci? [...] In sostanza, dducu a Capaci, unni ci ficimu l’attentatuni [...]”.
Questa conversazione, emersa dalle intercettazioni da parte degli inquirenti, permette di individuare con certezza il gruppo di persone coinvolte nella strage e quindi di verificare con precisione il racconto dei pentiti.
Il 26 settembre del 1997, dopo quasi due anni e mezzo di processo e dopo ben 600 ore di Camera di Consiglio, alle 10,10 del mattino, il presidente di Corte Carmelo Zuccaro, in un silenzio spettrale, inizia a leggere la sentenza del processo di primo grado: “in nome del popolo italiano...”. In aula, dei 39 boss imputati, è presente solo Pietro Aglieri. Dopo 10 minuti di lettura della sentenza tutto il Paese riprende a respirare: 24 condanne all’ergastolo. 26 anni di prigione per Giovanni Brusca, l’uomo che ha premuto il bottone che ha fatto esplodere il tritolo. Sia a lui che a Salvatore Cancemi non viene riconosciuto il ruolo di pentito. Sarà loro riconosciuta la piena attendibilità come pentiti dalla sentenza d’appello. Questo è un altro aspetto da sottolineare: la senteza di appello, il 7 aprile del 2000, non solo confermerà queste condanne, ma estenderà gli ergastoli ad altre cinque persone e soprattutto il quadro verrà ulteriormente arricchito rispetto a quello delineatosi in primo grado con le ulteriori dichiarazioni dei collaboranti di cui è stato ammesso il riesame, come Brusca e Cancemi. Vedremo nei capitoli successivi le dichiarazioni di Brusca e Cancemi e le nuove ipotesi che si sono delineate sui mandanti. [...]
Tra le 29 persone condannate all’ergastolo nel processo di secondo grado ci sono almeno 2 personaggi di Cosa Nostra che hanno anche legami con ambienti diversi da questa organizzazione criminale. Uno di questi è Pietro Rampulla. Esponente della famiglia catanese Santapaola, l’artificiere della strage di Capaci ha fatto parte di Ordine Nuovo ed è risultato essere stato in contatto con l’ordinovista Rosario Cattafi, indagato dall’Autorità giudiziaria di Messina per traffico internazionale di armi e arrestato per i suoi legami con Cosa Nostra nell’ambito dell’indagine della Dda di Firenze sull’autoparco milanese di via Salomone. [...]
Tra i condannati all’ergastolo per la strage di Capaci c’è un altro personaggio di Cosa Nostra che ha legami con ambienti diversi da questa organizzazione criminale: è Pippo Calò, che è stato rinchiuso in prigione fin dal 1985 per le condanne ricevute in merito all’organizzazione dell’attentato terroristico al rapido 904 nell’anno 1984. Una sentenza passata in giudicato che deve essere ricordata per non dimenticare che Cosa Nostra si è spesso mossa con finalità terroristiche e con oscuri legami massonici. Ricordiamo brevemente i fatti. È l’antivigilia di Natale del 1984 quando una forte carica di Semtez composta da pentrite e T4 esplode nella galleria di San Benedetto Val di Sambro, nel tratto ferroviario Bologna-Milano. Tra le lamiere del rapido 904 rimangono 16 corpi privi di vita e altri 267 in gravi condizioni. È la strage di Natale! Il terrore dei sopravvissuti è lo stesso di dieci anni prima quando il 4 agosto 1974 un’altra bomba esplosa nello stesso posto aveva provocato 12 morti e 105 feriti (strage dell’Italicus).
Che dietro alla strage di San Benedetto Val di Sambro fosse possibile scorgere la presenza di innominabili connivenze si comprese quando nel 1985 vennero ritrovate in una villa di proprietà di Pippo Calò a Poggio San Lorenzo, in provincia di Rieti, armi, esplosivo dello stesso tipo di quello utilizzato nell’attentato, congegni elettronici per causare l’esplosione a distanza e droga purissima di eccezionale qualità. Si intensificarono le indagini e giorno dopo giorno vennero alla luce le oscure trame che il Calò aveva tessuto a Roma. [...]
Leggiamo come i pubblici ministeri Libero Mancuso e Attilio Dardani, nel corso dell’istruttoria sulla strage di Bologna, descrivono i rapporti tra la malavita romana in rapporti con Pippo Calò e una certa massoneria: “Gelli comparso nell’anticamera di Occorsio alla vigilia del suo assassinio per la inchiesta sulla banda della Magliana aveva collegamenti con Abbruciati e Diotallevi, feroci capi di quella banda che ‘lavoravano per conto della P2’ ed erano cointeressati in giri finanziari molto elevati, specializzati nel riciclaggio del denaro proveniente dai gravissimi delitti sopra indicati [...]”.
Come si può notare la sentenza per la strage del rapido 904 rimane di estrema attualità.
E infine, prima di chiudere questo capitolo sulla strage di Capaci, che meriterebbe ben altro spazio ma che è già stata eccellentemente trattata nel libro “Chi ha ucciso Giovanni Falcone” scritto dal magistrato Luca Tescaroli, riportiamo alcuni brani dell’interrogatorio del membro di Cosa Nostra Francesco Di Carlo, che racconta che, mentre si trovava in carcere in Inghilterra, fu visitato per due volte da membri dei servizi segreti. Francesco Di Carlo aveva fatto conoscenza nel carcere con un siriano, Nezzar Hindawi accusato di aver fatto esplodere un aereo ed aver provocato la morte di circa 300 persone. Secondo Di Carlo l’incontro con gli uomini dei Servizi sarebbe stato organizzato dal siriano.
“[...] Pm Tescaroli: L’incontro propiziato da questo Nezzar con quei soggetti da Roma quando sarebbe avvenuto?
Di Carlo: [...] questo è avventuno nel ’90.
Pm Tescaroli: [...] quindi dopo il fallito attentato all’Addaura che è del giugno dell’89.
Di Carlo: Sì dopo.
Pm Tescaroli: E per quali motivi è avvenuto questo incontro?
Di Carlo: [...] mi hanno detto che già in Italia si pensava c’era chi lavorava per togliere Falcone [...] volevano un appoggio, dove appoggiare ed io c’ho indicato mio cugino Nino Gioé e poi so che si sono incontrati perché volevano fatti i favori dei detenuti e messi fuori i carcerati [...]
Pm Tescaroli: Sì senta ma chi erano queste persone di Roma?
Di Carlo: [...] c’era uno che sembrava italiano che parlava proprio. Ma c’erano altri che non erano italiani. [...]”
Di Carlo racconta che dopo 4 o 5 mesi, ha ricevuto un’altra visita fuori orario da un gruppo di persone che erano informate della prima visita. Di Carlo racconta di essersi spaventato e di aver deciso di non aprire bocca davanti a loro.
“[...] Mi ero preoccupato ed ho scritto una lettera sia a mio fratello Giulio ed a Nino Gioé che era il rappresentante della famiglia di Altofonte, indirizzata di farla leggere allo zio - sarebbe Totò Riina - ed ho avuto una risposta per telefono ‘stai tranquillo - qua e là -, lo so quello che stai passando’. Questa è la storia, più avanti non vorrei andare, però vorrei dire una cosa, visto le cose come camminano. Poi è morto mio cugino Gioé. Ma è sicuro che si è impiccato. Io dico una cosa, sicuramente, se mi succede qualche cosa non morirò per mano di Cosa Nostra, visto le cose come camminano.
[...] mio cugino Gioé si è incontrato, poi mi ha detto [...] ‘hanno mezza Italia nelle mani, possiamo fare tante cose’ [...] poi lo hanno arrestato e poi si è fatto la fine che ha fatto [...]”.

<<precedente indice successivo>>
 
<< indietro

Ricerca articoli
search..>>
VAI>>
 
COLLABORATORI
 
 
SIULP
 
SILP
 
SILP
 
SILP
 
SILP
 
 
Cittadino Lex
 
Scrivi il tuo libro: Noi ti pubblichiamo!
 
 
 
 
 

 

 

 

Sito ottimizzato per browser Internet Explorer 4.0 o superiore

chi siamo | contatti | copyright | credits | privacy policy

PoliziaeDemocrazia.it é una pubblicazione di DDE Editrice P.IVA 01989701006 - dati societari