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luglio / agosto/2002 - Interviste
Mafia
Caselli racconta la nuova “Cosa Nostra”
di

Il magistrato ripercorre le tappe delle inchieste della Procura di Palermo. Dai tempi del giudice Falcone ad oggi, ecco cosa è cambiato e quali sono state le vittorie e le sconfitte dello Stato

Erano le 17,58 del 23 maggio del 1992 quando una potente carica esplosiva, collocata sotto un tratto dell’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, veniva fatta deflagrare con un comando a distanza dai “picciotti” del boss Totò Riina. Nell’esplosione rimanevano uccisi il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, ed i tre agenti della scorta: Antonino Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. La stessa sorte, appena cinquantasette giorni dopo quel tragico sabato pomeriggio di maggio, veniva riservata dagli uomini di Cosa Nostra al procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino, ed ai cinque componenti della sua scorta, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Agostino Catalano e Eddie Walter Cosina, dilaniati dall’esplosione di un’auto imbottita di tritolo mentre il magistrato si accingeva a pigiare il campanello del portone di casa della madre, ubicata in una zona residenziale del capoluogo siciliano: era il 19 luglio del 1992.
A dieci anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, abbiamo intervistato Gian Carlo Caselli, già Procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Palermo dal gennaio del 1993 all’estate del 1999.
Dottor Caselli, a dieci anni dagli eccidi di Capaci e via D’Amelio che bilancio si può trarre dalle iniziative di contrasto a Cosa Nostra che sono state poste in essere in questo lasso di tempo?
Non dobbiamo mai dimenticare che dieci anni fa il nostro Paese era letteralmente in ginocchio. Stavamo aspettando soltanto il colpo finale alla nuca. Con Capaci e via D’Amelio, infatti, non erano morti soltanto Falcone, Borsellino e gli altri che erano con loro. Era morta anche la nostra speranza. La speranza di vivere in un Paese che non fosse dominato da un sistema criminale.
Le stragi erano state di una violenza tale che era del tutto evidente che dietro ci stava un disegno politico e la voglia di condizionare qualcuno in vista di qualcosa. Chi e in vista di che cosa non lo sappiamo neanche adesso esattamente. Comunque, che non si trattasse soltanto di criminalità bensì anche di terrorismo mafioso con connotazioni politiche era ed è assolutamente evidente.
Sembrava, allora, che non ci fosse nulla da fare e che fossimo destinati a vivere sotto la cappa di piombo di questo potere barbaro e occulto. Abbiamo avuto, pertanto, un momento di fortissimo sbandamento, disorientamento e confusione.
Poi, fortunatamente, il nostro Paese ha saputo riprendersi. C’è stato un momento magico, purtroppo presto interrotto, di unità di tutte le istituzioni senza nessuna distinzione di casacca e, soprattutto, privo di steccati politici. C’è stata una mobilitazione che ha assunto i connotati persino della ribellione di popolo. In particolare, migliaia di giovani hanno riempito le strade di Palermo in occasione del primo anniversario della strage di Capaci. Giovani i quali, manifestando in questo modo massiccio, volevano dire che non erano disposti a vivere in un Paese controllato e dominato dalla mafia. Ebbene, sulla spinta delle istituzioni unite e dell’opinione pubblica massicciamente mobilitata sono state approvate leggi importanti, mirate e calibrate sulla realtà specifica, concreta ed effettiva in cui il fenomeno mafioso si manifesta. Leggi che Falcone e Borsellino avevano chiesto quando erano in vita e non avevano ottenuto. Leggi che, per un verso, sono intrise del sangue di Falcone e Borsellino in quanto sono state approvate dopo la loro morte e, dall’altro, impregnate anche dalla loro intelligenza perché si tratta delle leggi che loro avevano ideato, forti dell’esperienza e della conoscenza del fenomeno mafioso.
Vuole ricordarci alcune di queste leggi?
Innanzitutto la legge sui pentiti. Senza conoscere i segreti di Cosa Nostra, la mafia non si sconfigge. I pentiti sono stati mafiosi e quindi rivelando questi segreti rendono la lotta contro Cosa Nostra più efficace. C’è stata, poi, la legge sul trattamento carcerario dei mafiosi detenuti. L’introduzione nell’ordinamento dell’articolo 41 bis, il cosiddetto carcere duro, che ha posto fine a quello scandalo che vedeva i mafiosi al carcere dell’Ucciardone comportarsi come se si trovassero al Grand Hotel.
Insomma, un coacervo di fattori (istituzioni, opinione pubblica, nuove leggi, etc.) consentirono allora un forte recupero di efficienza e di entusiasmo da parte delle Forze dell’ordine e della magistratura. Ed i risultati obiettivamente non tardarono ad arrivare. L’elenco dei latitanti che sono stati arrestati in questi anni è interminabile e, tra questi, figurano personaggi di notevole caratura criminale: da Totò Riina a Calogero Ganci, dai Madonia ai Brusca, da Leoluca Bagarella a Pietro Aglieri, dai fratelli Graviano a Mariano Tullio Troia, etc. Vengono sequestrati, poi, beni mafiosi per decine di migliaia di miliardi di lire, requisiti veri e propri arsenali di armi, ricostruiti delitti gravissimi ed individuati i responsabili, a partire dagli esecutori materiali delle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Ma la mafia non è soltanto un’organizzazione di feroci criminali.
La mafia, infatti, non è soltanto crimine organizzato, ma è anche due cose in più: controllo del territorio e relazioni esterne. Controllo del territorio significa estorsioni e relazioni esterne significa alleanze, intreccio di interessi, collusioni, protezioni e coperture da parte di pezzi della politica, delle istituzioni, dell’economia, della finanza, etc. Se non ci fosse il controllo del territorio e, soprattutto, se non ci fossero queste relazioni esterne, la mafia sarebbe una banda di gangster uguale a tante altre bande di gangster che esistono dovunque e che sorgono, si sviluppano e poi scompaiono. La mafia, invece, ce l’abbiamo da un centinaio di anni e, in tutto questo lasso di tempo, è cambiata, si è radicata e si è estesa. Ciò è potuto accadere grazie anche a queste complicità e a queste alleanze. Pertanto, se non si indaga anche su questo versante non si indaga su tutta la mafia, s’indaga sull’ala militare della mafia, su un pezzo della mafia. Noi magistrati della Procura di Palermo abbiamo indagato su queste relazioni esterne (parlerò poi dei risultati ottenuti) perché c’erano tutti i presupposti in fatto e in diritto per farlo.
Dopo l’arresto dei latitanti, i sequestri dei beni mafiosi e l’individuazione degli esecutori materiali di tanti delitti che cosa è accaduto?
Sembrava allora che le cose andassero bene. Era evidente che pezzi consistenti di Cosa Nostra si stessero sgretolando. Vi era una crisi profonda di Cosa Nostra e la slavina di pentiti ne era la dimostrazione. D’altro canto, non ci si pente in maniera così consistente se non si ha fiducia nello Stato e nelle sue possibilità di vincere e, nello stesso tempo, se non si è convinti della profonda crisi dell’organizzazione di appartenenza.
Solo che ad un certo punto qualcosa è cambiato. Che cosa cambia? Voglio citare Paul Ginsborg, lo storico inglese che insegna all’Università di Firenze e che è diventato recentemente ancora più famoso con il cosiddetto movimento dei girotondisti. Ginsborg dice che si è realizzato un momento altissimo nella lotta alla mafia dal punto di vista della democrazia. È sembrata possibile una riscossa contro la mafia in favore della legalità, in favore di una nuova concezione della società civile. La rottura era a portata di mano. Poi però questa rottura, nonostante i grandi successi raggiunti sul piano investigativo-giudiziario, non c’è stata. Perché? Ginsborg analizza il perché dal punto di vista dei magistrati, soprattutto di quelli della Procura di Palermo. I magistrati non si sono resi conto fino in fondo di quanto il sistema mafia permeasse l’intero sistema sociale della Sicilia occidentale. I magistrati cercavano di ripristinare la legalità ma, ad un certo punto, si rendono conto di essere mal tollerati non soltanto dagli abitanti dei quartieri popolari di Palermo, ma anche dalla borghesia ricca e di una parte di quella colta. I magistrati venivano visti come dei rompiscatole, perché la legalità impediva la vita normale.
Un’altra delle cause di questa mancata rottura, è stata la campagna martellante e denigratoria promossa contro la magistratura da una parte politica e televisiva. Di quale parte politica si tratta è superfluo specificarlo in quanto facilmente riconducibile al centro-destra. Nel libro “L’eredità scomoda”, scritto dal sottoscritto insieme ad Antonio Ingroia e Maurizio De Luca, abbiamo comunque fatto l’elenco di tutti gli attacchi subiti con tanto di nomi, cognomi ed indirizzi.
La terza causa della mancata rottura, deriva dallo scarso entusiasmo del potere politico dal 1996 in poi. E qui, naturalmente, il discorso riguarda anche la maggioranza di centrosinistra del tempo. Nel senso che, sono sempre parole di Ginsborg, la questione mafia cessa di essere priorità dell’azione di governo, con tutte le conseguenze che ne deriveranno.
Quali sono state le conseguenze?
Vorrei fare prima una considerazione. A prescindere dalla reazione di certi interessi che si sono sentiti minacciati da un’azione di ripristino della legalità a tutto campo, che è poi semplicemente l’applicazione del principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, quello che viene fuori, riflettendo non soltanto su questi anni ma sulla storia della mafia in generale, è un limite culturale: quello di percepire la mafia come un problema esclusivamente di ordine pubblico cogliendone la pericolosità soltanto in situazioni di emergenza, cioè quando la mafia mette in atto strategie sanguinarie, e di trascurarne invece la pericolosità quando essa adotta strategie attendiste.
Questo limite culturale fa dimenticare la lunghissima storia di violenze della mafia e la sua straordinaria capacità di condizionare pezzi della vita politica ed economica. Fa dimenticare che la mafia è una associazione criminale che è diventata un vero e proprio sistema di potere criminale.
A questo proposito, vorrei invitare a leggere l’ultimo libro scritto da Luciano Violante: “Il ciclo mafioso”. Un libro davvero interessante, anche se certe cose mi sarebbe piaciuto leggerle non soltanto adesso ma qualche anno fa. Forse Violante, il quale allora era Presidente della Camera, non le poteva scrivere così, ma qualcun altro per lui avrebbe potuto scriverle e dirle.
Ma torniamo alle conseguenze che la situazione precedentemente descritta ha comportato nell’azione di contrasto a Cosa Nostra. Difficoltà sono sorte innanzitutto a causa di una qual certa revisione della legislazione in materia.
Si è registrata una minore efficienza della differenziazione del circuito carcerario. In particolare, la chiusura delle supercarceri di Pianosa e dell’Asinara ha determinato di fatto una diminuzione del rigore che col 41 bis si era voluto instaurare e che aveva consentito di ottenere importanti risultati e, tra questi, la rescissione dei legami di comando, sia interni che esterni, dei mafiosi detenuti con le attività criminali di Cosa Nostra.
Uomini e mezzi sono stati chiamati a fronteggiare altre emergenze criminali, a volte reali e a volte enfatizzate, quali le nuove forme di terrorismo, l’immigrazione clandestina, la cosiddetta criminalità diffusa e, conseguentemente, è venuta meno quella priorità accordata all’antimafia.
C’è stata, poi,una furibonda campagna contro i collaboratori di giustizia strumentalizzando anche alcuni casi obiettivamente gravi come, ad esempio, quello del pentito Balduccio Di Maggio che torna a delinquere. Fatto gravissimo che, però, non ha nulla a che vedere con la generalità del problema. Alla fine viene varata una nuova disciplina legislativa che sicuramente non ha prodotto effetti incentivanti. Da qualche anno, infatti, non ci sono più pentiti di rilievo. Forse la causa di tutto ciò non è dovuta tanto all’introduzione della nuova normativa quanto, piuttosto, alla conseguenza di questa campagna martellante di delegittimazione dei pentiti che si è accompagnata ad una strategia di Cosa Nostra che, vista l’inutilità della rappresaglia sanguinaria contro i pentiti e i loro familiari, è passata ad un’altra tattica: quella del padre che accoglie il figliol prodigo, cioè offrendo assistenza ai familiari, pagando le spese legali e quant’altro nei confronti di chiunque tentenni per indurlo a non pentirsi.
Sullo sfondo ci sta, inoltre, la revisione del processo penale (peraltro approvata all’unanimità nel corso della passata legislatura) che in alcuni casi corrisponde alla tutela di sacrosanti diritti di garanzia ma molte volte crea formalismi, cavilli ed ostacoli che finiscono per inceppare ulteriormente il funzionamento della macchina giudiziaria allungando i tempi già vergognosamente lunghi del processo.
C’è poi la nuova normativa in tema di rogatorie che, avendo efficacia retroattiva, rischia di vanificare anni di delicate e difficili indagini per vizi meramente formali.
Abbiamo, pertanto, uno strumentario normativo antimafia che oggi, complessivamente valutato, appare come un’arma spuntata soprattutto se confrontato con quello efficientissimo che era stato varato subito dopo le stragi del ’92.
Quello che ci ha appena descritto è un quadro assai sconfortante. Si può affermare che sul piano legislativo, nell’ultimo quinquennio, si è assistito ad un progressivo smantellamento delle normative volte a contrastare il fenomeno mafioso?
Non è così. In questi anni sono state varate anche delle buone leggi. Ricordo, in particolare, la legge sulle videoconferenze che ha permesso di attuare, nel momento in cui gli effetti del 41 bis venivano affievoliti totalmente per effetto del cosiddetto turismo giudiziario (cioè di quel fenomeno che vedeva i mafiosi spostarsi di città in città per assistere come è sacrosanto diritto di tutti i cittadini italiani ai loro processi), quel poco che rimaneva delle norme relative al carcere duro imponendo ai mafiosi di rimanere fermi nelle stesse strutture carcerarie.
È stata varata la legge che ha istituito il Commissariato antiracket e antiusura, anche se oggi l’uomo simbolo di queste battaglie, Tano Grasso, è stato accantonato.
È stata introdotta, poi, la legge sull’utilizzo a fini sociali dei beni confiscati ai mafiosi. A tale proposito è utile sottolineare che la mafia non è soltanto questione criminale ma è anche questione sociale. È ricchezza che viene sottratta alla collettività, nel senso di sviluppo negato, impedito. Se la mafia produce ricchezza, la maggior parte di questa va ai mafiosi e ai loro complici mentre alla collettività vanno poche briciole. Ecco, questa legge di restituzione del maltolto, per usare un espressione coniata da “Libera” (l’organizzazione di associazioni fondata da Don Ciotti che è stata la più strenua sostenitrice del varo di questa normativa), è stata di straordinaria efficacia ed anche un modo per far capire alla società civile che la lotta antimafia conviene. Attraverso questa legge, infatti, la villa di Totò Riina a Corleone è diventata un istituto agrario, mentre nelle terre di Bernardo Provenzano a Castelvetrano una comunità di ragazzi produce olio d’oliva, etc.
Ma in questi dieci anni la “controparte”, cioè Cosa Nostra, come ha reagito e quali strategie ha messo in atto?
Abbiamo visto che la mafia con le stragi ha esibito protervamente una strategia violenta e spietata di attacco frontale allo Stato. Poi essa ha dovuto subire un efficace reazione dello Stato: latitanti arrestati come mai in precedenza e anche la stagione dei processi. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, voglio ricordare un dato: nel biennio 2001/2002 sono stati inflitti 251 ergastoli soltanto nel distretto della Corte d’Appello di Palermo. L’ergastolo è il massimo di pena che può essere inflitta nel nostro Paese, è la morte civile. Fare la contabilità degli ergastoli ripugna anche un poco, in quanto 251 ergastoli inflitti, a mafiosi o non mafiosi, rappresentano 251 morti civili. Sono cifre impressionanti che comunque danno l’idea della fatica, di tutto il lavoro che le Forze dell’ordine e la magistratura hanno svolto in questi anni e dell’imponenza dei risultati raggiunti. La mafia, proprio perché duramente colpita, cerca di correre ai ripari e lo fa attuando una sorta di strategia della tregua finalizzata, tra l’altro, a far dimenticare la sua tremenda pericolosità. Quindi, niente più stragi né omicidi eccellenti, per fortuna, ma ricorso alla violenza soltanto quando ritenuta assolutamente necessaria. Se si deve eliminare qualcuno si preferisce ricorrere alla lupara bianca. In buona sostanza, Cosa Nostra adotta la tecnica del cono d’ombra per rendere invisibile l’organizzazione e, nello stesso tempo, ne rafforza la compartimentazione. Cosa Nostra cerca di fare in modo che ciascun affiliato conosca soltanto i mafiosi a lui più vicini e non l’intero organigramma del sodalizio criminale, come succedeva in passato. Le decisioni, poi, vengono affidate ad un vertice sempre più ristretto, una specie di direttorio di uomini più fidati intorno a Bernardo Provenzano.
Tutto questo, obiettivamente, rende più difficili le indagini. Nello stesso tempo, la mafia recupera progressivamente i sistemi tradizionali di sperimentata efficienza per consolidare il suo controllo del territorio e per riconquistare forme di consenso, o almeno di tolleranza, da parte della società civile. Il racket delle estorsioni, ad esempio, oggi è meno aggressivo ma più diffuso, perché il principio base è: pagare meno ma pagare tutti. La nuova mafia diventa sempre più una mafia degli affari. L’intromissione di Cosa Nostra in tutti gli appalti di un certo rilievo è purtroppo una realtà che serve all’organizzazione per presentarsi come soggetto politico-economico, come volàno di un’economia che altrimenti resterebbe inerte, improduttiva. In sostanza, Cosa Nostra nasconde il suo volto più feroce per recuperare e sviluppare gli spazi di intervento e, nello stesso tempo, rafforza i meccanismi di accumulazione del capitale illecito. Cosa Nostra tende a porsi, ancora una volta, come soggetto politico-sociale capace di controllare l’economia e di esercitare una funzione di apparente sviluppo, mentre in realtà ci troviamo di fronte ad uno sviluppo bloccato. E questa funzione di apparente sviluppo Cosa Nostra la assume anche sostituendosi o integrandosi alle competenze pubbliche. In poche parole, Cosa Nostra si è affacciata nel nuovo millennio con una strategia meno sanguinaria ma più insidiosa in quanto favorisce obiettivamente l’affievolirsi dell’attenzione della questione mafia. Ma bisogna stare attenti, perché è proprio nei periodi di pax mafiosa che Cosa Nostra dimostra maggiore forza, maggiore capacità di infiltrarsi nel tessuto economico e sociale, maggiore capacità di intrecciare relazioni esterne e di ampliare la sua sfera di intervento mirando ad influenzare anche gli orientamenti politici nelle zone sottoposte al suo controllo.
Per quanto concerne le cosiddette relazioni esterne e le presunte collusioni tra personaggi politici e Cosa Nostra a che punto siamo?
È un dato di fatto che, a fronte dei 251 ergastoli inflitti ad altrettanti esponenti di Cosa Nostra, dobbiamo registrare le zero, o quasi, condanne nei processi contro imputati eccellenti accusati di collusione con la mafia. Molti di questi processi sono ancora aperti, ma non c’è dubbio che gli esiti avuti fino a questo momento giustificano un certo scandalo. Se processi di questa risonanza si concludono con zero condanne, è sacrosanto chiedere conto e ragione degli errori eventualmente commessi a chi ha sostenuto l’accusa. Credo, però, che prima di tutto sia assolutamente necessario provare a capire, o spiegare, il perché di questo scarto abissale tra le tante condanne inflitte ai mafiosi e le zero nei confronti di soggetti accusati di relazioni esterne con la mafia. Io certezze non ne ho, posso soltanto formulare delle ipotesi. La prima ipotesi è che i pubblici ministeri sono bravi, efficienti e capaci quando si tratta di far condannare Riina e soci, ma diventano di colpo stupidi e imbelli quando hanno a che fare con imputati eccellenti. La seconda ipotesi è che i criteri di valutazione della prova non sono sempre gli stessi, possono variare da caso a caso. La terza ipotesi è che nei processi per collusione il riscontro della prova è obiettivamente difficile. Perché? Perché degli incontri tra politici e mafiosi non si redigono verbali, nessuno annota i nomi dei corrotti che con la mafia intrecciano rapporti d’affari. Ma c’è di più. La mafia è quel che è, come ho ribadito precedentemente, proprio grazie alle complicità e alle coperture che riesce a trovare in pezzi della politica, delle istituzioni e dell’economia. Parlo di pezzi della politica perché la politica vera, intesa come servizio, significa rischiare la vita contro la mafia. Piersanti Mattarella e Pio La Torre, rispettivamente capi della Dc e del Pci in Sicilia, sono lì a dimostrarlo. Sono, invece, pezzi deviati della politica quelli con cui la mafia fa affari. È pertanto funzionale alla forza dell’organizzazione che le relazioni esterne siano coltivate e protette in un regime di specialissima segretezza. Con la conseguenza che le prove risultano, appunto, obiettivamente più difficili da riscontrare. E ciò anche a prescindere dalle difficoltà ontologiche che caratterizzano la ricerca dei riscontri obiettivi in qualunque processo di mafia. La regola delle associazioni mafiose, infatti, è capire tutto sapendo il meno possibile. Il segreto è la regola e quando si tratta di relazioni esterne esso diventa esasperato.
Per orientarsi tra le tre ipotesi che ho enunciato e scegliere la più fondata o magari intrecciarle tra loro, bisogna conoscere tutte le sentenze, sia quelle di condanna che di assoluzione.
Coloro che criticano le sentenze non dovrebbero conoscere quantomeno le motivazioni?
Invece, non si può che constatare che la regola è la disinformazione e, in alcuni casi, anche il rifiuto dell’informazione corretta. Nicola Tranfaglia, ad esempio, il quale ha scritto un libro sul processo Andreotti, evidenzia nella prefazione di questo volume che ha fatto fatica a trovare un editore che glielo pubblicasse.
Se si conoscessero le sentenze, si rileverebbe l’anomalia (l’espressione è di Livio Pepino, non di un magistrato che ha fatto queste inchieste) di provvedimenti che assolvono, anche se con lo schema tipico dell’insufficienza di prove, in presenza di realtà sconvolgenti, come l’intreccio costante tra politici ed imprenditori mafiosi, ritenute sussistenti nelle stesse sentenze assolutorie. Se si conoscessero queste anomalie, finirebbe subito il gioco della criminalizzazione dei pubblici ministeri, svanirebbe l’accusa di uso politico della giustizia e risulterebbe chiaro che i pubblici ministeri hanno fatto il loro dovere applicando la legge in maniera uguale per tutti, potenti compresi.
Si potrebbe parlare quantomeno di responsabilità politica e morale. Invece, nel momento in cui ci sono elementi non ritenuti sufficienti per una condanna penale, ma che sarebbero ampiamente sufficienti per una responsabilità politica e morale, scatta il processo di beatificazione nei confronti del personaggio eccellente di turno.
Credo che vi sia un più ampio disegno di impunità teso a consentire, a coloro i quali sono portatori di certi interessi, di tentare di sottrarsi ad un effettivo controllo di legalità.
Ho un rispetto totale ed assoluto per le sentenze. Mi pongo però un interrogativo. L’interrogativo riguarda l’oscillazione degli indirizzi interpretativi, soprattutto in tema di valutazione della prova, che ciclicamente si presenta nei processi di mafia, a seconda degli orientamenti politico-culturali dominanti in un dato momento storico. Abbiamo avuto la stagione delle assoluzioni per insufficienza di prove, siamo negli anni ’60 e ’70, e parallelamente un clima di lassismo nei confronti della mafia allora imperante. In quel momento, si negava l’esistenza stessa della mafia. Poi abbiamo avuto la positivissima reazione dei maxi processi, istruiti da Falcone e Borsellino, che è stato anche il risultato della reazione agli omicidi eccellenti commessi dalla mafia tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80. Reazione che aveva prodotto anche una nuova legislazione di indirizzo.
In seguito, è subentrata nuovamente una fase di stallo e si è avuto sul piano giudiziario il vergognoso smantellamento del pool di Falcone e Borsellino alla fine degli anni ’80.
È evidente, pertanto, che esistono fasi diverse che possono anche avere ricadute sugli indirizzi interpretativi. Giuseppe Di Lello (ex magistrato che ha fatto parte del pool antimafia di Falcone e Borsellino, ndr) ha scritto un libro, intitolato “Giudici”, in cui parla della scaltrezza della magistratura in questi ultimi cinquant’anni. “I giudici - scrive testualmente Di Lello - da sempre hanno mostrato una grande scaltrezza nel riconoscere in teoria la pericolosità della mafia per le sue connessioni con il potere politico ed economico e, nel momento di passare alle prassi giudiziarie, nel perseguire costantemente la sola ala militare dell’alleanza tenendo fuori dal loro campo di azione l’altro corno del problema. I molti fallimenti della giurisdizione si possono senz’altro spiegare - conclude Di Lello - con la funzionalità di queste prassi alla strategia della rilegittimazione continua del potere legale o, detto altrimenti, ad una solidarietà di classe intesa come solidarietà di interessi”. Noi magistrati della Procura di Palermo, dopo le stragi del ’92, abbiamo sentito il dovere di non essere scaltri, per provare a voltare pagina. Dico voltare pagina perché queste parole sono contenute in un passo, secondo me fondamentale, dell’ordinanza sentenza con cui il pool di Falcone e Borsellino chiude il primo maxi processo. Il pool denunciava “una singolare convergenza tra interessi mafiosi e interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica. Fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti e di inquietanti collegamenti che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti se si vuole davvero voltare pagina”. Noi abbiamo cercato di voltare pagina senza essere scaltri, ma solamente perché questo era il nostro dovere.
In questa ciclica oscillazione degli indirizzi interpretativi, come si colloca la stagione odierna e cosa occorrerebbe fare?
Oggi, la disattenzione generale sembra avere riflessi anche a livello istituzionale. Abbiamo una serie di sintomi in questa direzione. La “gaffe” del ministro Lunardi, il quale ha dichiarato che con la mafia si deve convivere. Il problema della diminuzione delle scorte ai magistrati antimafia e ad alcuni esponenti della società civile impegnati contro la mafia, frutto di una circolare del ministero dell’Interno del settembre scorso che, dettando i nuovi criteri per la protezione dei soggetti a rischio, fa una sorta di elenco delle priorità in materia di ordine pubblico in cui la mafia non è compresa. Il licenziamento di Tano Grasso da commissario antiracket, cioè di colui che aveva organizzato sul campo, mettendo insieme imprenditori e commercianti, la resistenza contro il pizzo mafioso.
Per quanto riguarda le cose da fare, ci sarebbe l’esigenza di rivedere la legislazione antimafia perché è una serie infinita di bis, ter, quater e così via. È una legislazione disarmonica e disomogenea con sovrapposizioni, incrostazioni, etc. Ci vorrebbe un testo unico e, nello stesso tempo, una revisione e delle proposte di rettifica.
Nella passata legislatura c’era una commissione, presieduta dal professor Fiandaca dell’Università di Palermo e già componente del Csm, che ha lavorato bene ed ha elaborato, tra l’altro, un progetto di riforma del processo delle misure di prevenzione (che significa attacco alle ricchezze mafiose). Ecco, questa commissione non è stata rinnovata e tutto il lavoro fatto rischia di essere vanificato.
Fondamentale nell’azione di contrasto a Cosa Nostra è, poi, la lotta contro il riciclaggio che è ormai internazionale e si avvale sempre più di circuiti finanziari. Mentre in passato la mafia investiva in cose che si vedono (case, terreni, etc) oggi investe, invece, in cose che non si vedono. Le cosche, infatti, trasferiscono i soldi nei paradisi fiscali e si rivolgono a studi finanziari capaci di pianificare gli investimenti con programmi su misura. Le indagini, quindi, si fanno più complesse perché, a parte la difficoltà di dimostrare i collegamenti fra mafioso e riciclatore, ci sono connivenze, complicità, società intestate a prestanomi, scatole cinesi, trucchi contabili, collaborazioni internazionali insufficienti, etc. Vi è, pertanto, la necessità di una strategia globale di contrasto armonizzata a livello internazionale, altrimenti non si cava un ragno dal buco. Per anni gli esperti di antimafia, il Fondo monetario internazionale, le banche centrali e le varie istanze europee competenti hanno chiesto di intervenire contro i paradisi fiscali proponendo, ad esempio, una sorta di embargo finanziario nei confronti di questi paesi escludendoli dalle transazioni internazionali. Dopo l’11 settembre, posta la necessità di organizzare una risposta anche finanziaria nella guerra al terrorismo internazionale, alcuni paradisi fiscali sono stati chiusi. E qui mi pongo un interrogativo. Perché ciò che è risultato sempre impossibile contro la mafia, adesso è efficacemente praticato contro il terrorismo? Forse perché hanno ragione quegli studiosi che da molto tempo sostengono che il terrorismo si può anche sconfiggere, ma senz’altro più lunga e difficile è la lotta alla mafia. Il terrorismo, infatti, è altro rispetto alla nostra società, mentre gli intrecci con le mafie sono purtroppo inestricabili.
Negli ultimi anni, come lei ha ricordato, i magistrati sono stati oggetto di numerosi attacchi, soprattutto da parte di esponenti di una determinata forza politica. Ma un particolare accanimento è stato esibito nei confronti dei magistrati della Procura di Palermo, rei di avere tradito, a detta di costoro, il cosiddetto metodo Falcone.
Che Falcone fosse bravo in una maniera assolutamente inarrivabile è un dato di fatto. Di Falcone ce n’è stato e ce ne sarà, credo, uno solo. Noi magistrati della Procura di Palermo, con i nostri limiti e le nostre insufficienze, abbiamo cercato di fare una cosa soltanto: raccogliere la sua scomodissima eredità ed applicare il suo metodo. Però c’è stata questa propaganda, di segno assolutamente opposto, secondo cui avremmo perso tempo, sprecato denaro e tradito il metodo Falcone. I fatti, invece, parlano un linguaggio completamente diverso. I latitanti arrestati sono forse il risultato di un metodo sbagliato? C’è da sottolineare, poi, che tra i latitanti arrestati dalle Forze dell’ordine, coordinate dai magistrati della Procura di Palermo nell’ambito di indagini di competenza sempre dei magistrati della Procura di Palermo, ci sono anche tutti i mafiosi coinvolti nella strage di Capaci e via D’Amelio nonché molti dei mafiosi responsabili delle stragi del ’93, commesse a Firenze, Milano e Roma. È alla Procura di Palermo, e per la precisione al sottoscritto, che chiede di parlare il primo mafioso che confessa di aver partecipato alla strage di Capaci e che ricostruisce dettagliatamente modalità di esecuzione, nominativi di tutti i partecipanti e la fase di preparazione della stessa, consentendo alla Procura di Caltanissetta di far decollare la propria inchiesta.
Tra il ’93 e il ’99, con riferimento ai sette anni di mio lavoro a Palermo, i beni sequestrati ai mafiosi soltanto dalla procura del capoluogo siciliano sono stati diecimila miliardi di lire. Abbiamo sbagliato metodo? E i 251 ergastoli inflitti sono un metodo sbagliato? Credo che accusare la procura di Palermo di avere sbagliato metodo, di fronte a 251 ergastoli, significa dire che sono sbagliati i 251 ergastoli. Significa fare un regalo alla mafia.
A proposito del metodo, vorrei aggiungere ancora una cosa. Si dice che noi magistrati della Procura di Palermo avremmo tradito il metodo Falcone adottando una strategia sbagliata, cercando il terzo livello della mafia che non esiste (abbiamo visto cosa scrive Falcone nell’ordinanza quando dice voltare pagina), usando ed abusando dei pentiti e di un reato ambiguo: il concorso esterno in associazione mafiosa. Ancora una volta, la verità sta esattamente dall’altra parte. Per quanto riguarda il concorso esterno, il pool di Falcone e Borsellino vi ha fatto un ricorso amplissimo, basta andare a leggere le ordinanze sentenze dei maxi processi per rendersene conto. La gestione dei pentiti, poi, è stata l’architrave dei maxi processi. È la cosiddetta convergenza del molteplice, cioè l’incrocio tra le dichiarazioni dei pentiti, purché genuine, autonome e veridiche, costituisce riscontro. Esattamente il metodo che abbiamo applicato noi maErano le 17,58 del 23 maggio del 1992 quando una potente carica esplosiva, collocata sotto un tratto dell’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, veniva fatta deflagrare con un comando a distanza dai “picciotti” del boss Totò Riina. Nell’esplosione rimanevano uccisi il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, ed i tre agenti della scorta: Antonino Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. La stessa sorte, appena cinquantasette giorni dopo quel tragico sabato pomeriggio di maggio, veniva riservata dagli uomini di Cosa Nostra al procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino, ed ai cinque componenti della sua scorta, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Agostino Catalano e Eddie Walter Cosina, dilaniati dall’esplosione di un’auto imbottita di tritolo mentre il magistrato si accingeva a pigiare il campanello del portone di casa della madre, ubicata in una zona residenziale del capoluogo siciliano: era il 19 luglio del 1992.
A dieci anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, abbiamo intervistato Gian Carlo Caselli, già Procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Palermo dal gennaio del 1993 all’estate del 1999.
Dottor Caselli, a dieci anni dagli eccidi di Capaci e via D’Amelio che bilancio si può trarre dalle iniziative di contrasto a Cosa Nostra che sono state poste in essere in questo lasso di tempo?
Non dobbiamo mai dimenticare che dieci anni fa il nostro Paese era letteralmente in ginocchio. Stavamo aspettando soltanto il colpo finale alla nuca. Con Capaci e via D’Amelio, infatti, non erano morti soltanto Falcone, Borsellino e gli altri che erano con loro. Era morta anche la nostra speranza. La speranza di vivere in un Paese che non fosse dominato da un sistema criminale.
Le stragi erano state di una violenza tale che era del tutto evidente che dietro ci stava un disegno politico e la voglia di condizionare qualcuno in vista di qualcosa. Chi e in vista di che cosa non lo sappiamo neanche adesso esattamente. Comunque, che non si trattasse soltanto di criminalità bensì anche di terrorismo mafioso con connotazioni politiche era ed è assolutamente evidente.
Sembrava, allora, che non ci fosse nulla da fare e che fossimo destinati a vivere sotto la cappa di piombo di questo potere barbaro e occulto. Abbiamo avuto, pertanto, un momento di fortissimo sbandamento, disorientamento e confusione.
Poi, fortunatamente, il nostro Paese ha saputo riprendersi. C’è stato un momento magico, purtroppo presto interrotto, di unità di tutte le istituzioni senza nessuna distinzione di casacca e, soprattutto, privo di steccati politici. C’è stata una mobilitazione che ha assunto i connotati persino della ribellione di popolo. In particolare, migliaia di giovani hanno riempito le strade di Palermo in occasione del primo anniversario della strage di Capaci. Giovani i quali, manifestando in questo modo massiccio, volevano dire che non erano disposti a vivere in un Paese controllato e dominato dalla mafia. Ebbene, sulla spinta delle istituzioni unite e dell’opinione pubblica massicciamente mobilitata sono state approvate leggi importanti, mirate e calibrate sulla realtà specifica, concreta ed effettiva in cui il fenomeno mafioso si manifesta. Leggi che Falcone e Borsellino avevano chiesto quando erano in vita e non avevano ottenuto. Leggi che, per un verso, sono intrise del sangue di Falcone e Borsellino in quanto sono state approvate dopo la loro morte e, dall’altro, impregnate anche dalla loro intelligenza perché si tratta delle leggi che loro avevano ideato, forti dell’esperienza e della conoscenza del fenomeno mafioso.
Vuole ricordarci alcune di queste leggi?
Innanzitutto la legge sui pentiti. Senza conoscere i segreti di Cosa Nostra, la mafia non si sconfigge. I pentiti sono stati mafiosi e quindi rivelando questi segreti rendono la lotta contro Cosa Nostra più efficace. C’è stata, poi, la legge sul trattamento carcerario dei mafiosi detenuti. L’introduzione nell’ordinamento dell’articolo 41 bis, il cosiddetto carcere duro, che ha posto fine a quello scandalo che vedeva i mafiosi al carcere dell’Ucciardone comportarsi come se si trovassero al Grand Hotel.
Insomma, un coacervo di fattori (istituzioni, opinione pubblica, nuove leggi, etc.) consentirono allora un forte recupero di efficienza e di entusiasmo da parte delle Forze dell’ordine e della magistratura. Ed i risultati obiettivamente non tardarono ad arrivare. L’elenco dei latitanti che sono stati arrestati in questi anni è interminabile e, tra questi, figurano personaggi di notevole caratura criminale: da Totò Riina a Calogero Ganci, dai Madonia ai Brusca, da Leoluca Bagarella a Pietro Aglieri, dai fratelli Graviano a Mariano Tullio Troia, etc. Vengono sequestrati, poi, beni mafiosi per decine di migliaia di miliardi di lire, requisiti veri e propri arsenali di armi, ricostruiti delitti gravissimi ed individuati i responsabili, a partire dagli esecutori materiali delle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Ma la mafia non è soltanto un’organizzazione di feroci criminali.
La mafia, infatti, non è soltanto crimine organizzato, ma è anche due cose in più: controllo del territorio e relazioni esterne. Controllo del territorio significa estorsioni e relazioni esterne significa alleanze, intreccio di interessi, collusioni, protezioni e coperture da parte di pezzi della politica, delle istituzioni, dell’economia, della finanza, etc. Se non ci fosse il controllo del territorio e, soprattutto, se non ci fossero queste relazioni esterne, la mafia sarebbe una banda di gangster uguale a tante altre bande di gangster che esistono dovunque e che sorgono, si sviluppano e poi scompaiono. La mafia, invece, ce l’abbiamo da un centinaio di anni e, in tutto questo lasso di tempo, è cambiata, si è radicata e si è estesa. Ciò è potuto accadere grazie anche a queste complicità e a queste alleanze. Pertanto, se non si indaga anche su questo versante non si indaga su tutta la mafia, s’indaga sull’ala militare della mafia, su un pezzo della mafia. Noi magistrati della Procura di Palermo abbiamo indagato su queste relazioni esterne (parlerò poi dei risultati ottenuti) perché c’erano tutti i presupposti in fatto e in diritto per farlo.
Dopo l’arresto dei latitanti, i sequestri dei beni mafiosi e l’individuazione degli esecutori materiali di tanti delitti che cosa è accaduto?
Sembrava allora che le cose andassero bene. Era evidente che pezzi consistenti di Cosa Nostra si stessero sgretolando. Vi era una crisi profonda di Cosa Nostra e la slavina di pentiti ne era la dimostrazione. D’altro canto, non ci si pente in maniera così consistente se non si ha fiducia nello Stato e nelle sue possibilità di vincere e, nello stesso tempo, se non si è convinti della profonda crisi dell’organizzazione di appartenenza.
Solo che ad un certo punto qualcosa è cambiato. Che cosa cambia? Voglio citare Paul Ginsborg, lo storico inglese che insegna all’Università di Firenze e che è diventato recentemente ancora più famoso con il cosiddetto movimento dei girotondisti. Ginsborg dice che si è realizzato un momento altissimo nella lotta alla mafia dal punto di vista della democrazia. È sembrata possibile una riscossa contro la mafia in favore della legalità, in favore di una nuova concezione della società civile. La rottura era a portata di mano. Poi però questa rottura, nonostante i grandi successi raggiunti sul piano investigativo-giudiziario, non c’è stata. Perché? Ginsborg analizza il perché dal punto di vista dei magistrati, soprattutto di quelli della Procura di Palermo. I magistrati non si sono resi conto fino in fondo di quanto il sistema mafia permeasse l’intero sistema sociale della Sicilia occidentale. I magistrati cercavano di ripristinare la legalità ma, ad un certo punto, si rendono conto di essere mal tollerati non soltanto dagli abitanti dei quartieri popolari di Palermo, ma anche dalla borghesia ricca e di una parte di quella colta. I magistrati venivano visti come dei rompiscatole, perché la legalità impediva la vita normale.
Un’altra delle cause di questa mancata rottura, è stata la campagna martellante e denigratoria promossa contro la magistratura da una parte politica e televisiva. Di quale parte politica si tratta è superfluo specificarlo in quanto facilmente riconducibile al centro-destra. Nel libro “L’eredità scomoda”, scritto dal sottoscritto insieme ad Antonio Ingroia e Maurizio De Luca, abbiamo comunque fatto l’elenco di tutti gli attacchi subiti con tanto di nomi, cognomi ed indirizzi.
La terza causa della mancata rottura, deriva dallo scarso entusiasmo del potere politico dal 1996 in poi. E qui, naturalmente, il discorso riguarda anche la maggioranza di centrosinistra del tempo. Nel senso che, sono sempre parole di Ginsborg, la questione mafia cessa di essere priorità dell’azione di governo, con tutte le conseguenze che ne deriveranno.
Quali sono state le conseguenze?
Vorrei fare prima una considerazione. A prescindere dalla reazione di certi interessi che si sono sentiti minacciati da un’azione di ripristino della legalità a tutto campo, che è poi semplicemente l’applicazione del principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, quello che viene fuori, riflettendo non soltanto su questi anni ma sulla storia della mafia in generale, è un limite culturale: quello di percepire la mafia come un problema esclusivamente di ordine pubblico cogliendone la pericolosità soltanto in situazioni di emergenza, cioè quando la mafia mette in atto strategie sanguinarie, e di trascurarne invece la pericolosità quando essa adotta strategie attendiste.
Questo limite culturale fa dimenticare la lunghissima storia di violenze della mafia e la sua straordinaria capacità di condizionare pezzi della vita politica ed economica. Fa dimenticare che la mafia è una associazione criminale che è diventata un vero e proprio sistema di potere criminale.
A questo proposito, vorrei invitare a leggere l’ultimo libro scritto da Luciano Violante: “Il ciclo mafioso”. Un libro davvero interessante, anche se certe cose mi sarebbe piaciuto leggerle non soltanto adesso ma qualche anno fa. Forse Violante, il quale allora era Presidente della Camera, non le poteva scrivere così, ma qualcun altro per lui avrebbe potuto scriverle e dirle.
Ma torniamo alle conseguenze che la situazione precedentemente descritta ha comportato nell’azione di contrasto a Cosa Nostra. Difficoltà sono sorte innanzitutto a causa di una qual certa revisione della legislazione in materia.
Si è registrata una minore efficienza della differenziazione del circuito carcerario. In particolare, la chiusura delle supercarceri di Pianosa e dell’Asinara ha determinato di fatto una diminuzione del rigore che col 41 bis si era voluto instaurare e che aveva consentito di ottenere importanti risultati e, tra questi, la rescissione dei legami di comando, sia interni che esterni, dei mafiosi detenuti con le attività criminali di Cosa Nostra.
Uomini e mezzi sono stati chiamati a fronteggiare altre emergenze criminali, a volte reali e a volte enfatizzate, quali le nuove forme di terrorismo, l’immigrazione clandestina, la cosiddetta criminalità diffusa e, conseguentemente, è venuta meno quella priorità accordata all’antimafia.
C’è stata, poi,una furibonda campagna contro i collaboratori di giustizia strumentalizzando anche alcuni casi obiettivamente gravi come, ad esempio, quello del pentito Balduccio Di Maggio che torna a delinquere. Fatto gravissimo che, però, non ha nulla a che vedere con la generalità del problema. Alla fine viene varata una nuova disciplina legislativa che sicuramente non ha prodotto effetti incentivanti. Da qualche anno, infatti, non ci sono più pentiti di rilievo. Forse la causa di tutto ciò non è dovuta tanto all’introduzione della nuova normativa quanto, piuttosto, alla conseguenza di questa campagna martellante di delegittimazione dei pentiti che si è accompagnata ad una strategia di Cosa Nostra che, vista l’inutilità della rappresaglia sanguinaria contro i pentiti e i loro familiari, è passata ad un’altra tattica: quella del padre che accoglie il figliol prodigo, cioè offrendo assistenza ai familiari, pagando le spese legali e quant’altro nei confronti di chiunque tentenni per indurlo a non pentirsi.
Sullo sfondo ci sta, inoltre, la revisione del processo penale (peraltro approvata all’unanimità nel corso della passata legislatura) che in alcuni casi corrisponde alla tutela di sacrosanti diritti di garanzia ma molte volte crea formalismi, cavilli ed ostacoli che finiscono per inceppare ulteriormente il funzionamento della macchina giudiziaria allungando i tempi già vergognosamente lunghi del processo.
C’è poi la nuova normativa in tema di rogatorie che, avendo efficacia retroattiva, rischia di vanificare anni di delicate e difficili indagini per vizi meramente formali.
Abbiamo, pertanto, uno strumentario normativo antimafia che oggi, complessivamente valutato, appare come un’arma spuntata soprattutto se confrontato con quello efficientissimo che era stato varato subito dopo le stragi del ’92.
Quello che ci ha appena descritto è un quadro assai sconfortante. Si può affermare che sul piano legislativo, nell’ultimo quinquennio, si è assistito ad un progressivo smantellamento delle normative volte a contrastare il fenomeno mafioso?
Non è così. In questi anni sono state varate anche delle buone leggi. Ricordo, in particolare, la legge sulle videoconferenze che ha permesso di attuare, nel momento in cui gli effetti del 41 bis venivano affievoliti totalmente per effetto del cosiddetto turismo giudiziario (cioè di quel fenomeno che vedeva i mafiosi spostarsi di città in città per assistere come è sacrosanto diritto di tutti i cittadini italiani ai loro processi), quel poco che rimaneva delle norme relative al carcere duro imponendo ai mafiosi di rimanere fermi nelle stesse strutture carcerarie.
È stata varata la legge che ha istituito il Commissariato antiracket e antiusura, anche se oggi l’uomo simbolo di queste battaglie, Tano Grasso, è stato accantonato.
È stata introdotta, poi, la legge sull’utilizzo a fini sociali dei beni confiscati ai mafiosi. A tale proposito è utile sottolineare che la mafia non è soltanto questione criminale ma è anche questione sociale. È ricchezza che viene sottratta alla collettività, nel senso di sviluppo negato, impedito. Se la mafia produce ricchezza, la maggior parte di questa va ai mafiosi e ai loro complici mentre alla collettività vanno poche briciole. Ecco, questa legge di restituzione del maltolto, per usare un espressione coniata da “Libera” (l’organizzazione di associazioni fondata da Don Ciotti che è stata la più strenua sostenitrice del varo di questa normativa), è stata di straordinaria efficacia ed anche un modo per far capire alla società civile che la lotta antimafia conviene. Attraverso questa legge, infatti, la villa di Totò Riina a Corleone è diventata un istituto agrario, mentre nelle terre di Bernardo Provenzano a Castelvetrano una comunità di ragazzi produce olio d’oliva, etc.
Ma in questi dieci anni la “controparte”, cioè Cosa Nostra, come ha reagito e quali strategie ha messo in atto?
Abbiamo visto che la mafia con le stragi ha esibito protervamente una strategia violenta e spietata di attacco frontale allo Stato. Poi essa ha dovuto subire un efficace reazione dello Stato: latitanti arrestati come mai in precedenza e anche la stagione dei processi. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, voglio ricordare un dato: nel biennio 2001/2002 sono stati inflitti 251 ergastoli soltanto nel distretto della Corte d’Appello di Palermo. L’ergastolo è il massimo di pena che può essere inflitta nel nostro Paese, è la morte civile. Fare la contabilità degli ergastoli ripugna anche un poco, in quanto 251 ergastoli inflitti, a mafiosi o non mafiosi, rappresentano 251 morti civili. Sono cifre impressionanti che comunque danno l’idea della fatica, di tutto il lavoro che le Forze dell’ordine e la magistratura hanno svolto in questi anni e dell’imponenza dei risultati raggiunti. La mafia, proprio perché duramente colpita, cerca di correre ai ripari e lo fa attuando una sorta di strategia della tregua finalizzata, tra l’altro, a far dimenticare la sua tremenda pericolosità. Quindi, niente più stragi né omicidi eccellenti, per fortuna, ma ricorso alla violenza soltanto quando ritenuta assolutamente necessaria. Se si deve eliminare qualcuno si preferisce ricorrere alla lupara bianca. In buona sostanza, Cosa Nostra adotta la tecnica del cono d’ombra per rendere invisibile l’organizzazione e, nello stesso tempo, ne rafforza la compartimentazione. Cosa Nostra cerca di fare in modo che ciascun affiliato conosca soltanto i mafiosi a lui più vicini e non l’intero organigramma del sodalizio criminale, come succedeva in passato. Le decisioni, poi, vengono affidate ad un vertice sempre più ristretto, una specie di direttorio di uomini più fidati intorno a Bernardo Provenzano.
Tutto questo, obiettivamente, rende più difficili le indagini. Nello stesso tempo, la mafia recupera progressivamente i sistemi tradizionali di sperimentata efficienza per consolidare il suo controllo del territorio e per riconquistare forme di consenso, o almeno di tolleranza, da parte della società civile. Il racket delle estorsioni, ad esempio, oggi è meno aggressivo ma più diffuso, perché il principio base è: pagare meno ma pagare tutti. La nuova mafia diventa sempre più una mafia degli affari. L’intromissione di Cosa Nostra in tutti gli appalti di un certo rilievo è purtroppo una realtà che serve all’organizzazione per presentarsi come soggetto politico-economico, come volàno di un’economia che altrimenti resterebbe inerte, improduttiva. In sostanza, Cosa Nostra nasconde il suo volto più feroce per recuperare e sviluppare gli spazi di intervento e, nello stesso tempo, rafforza i meccanismi di accumulazione del capitale illecito. Cosa Nostra tende a porsi, ancora una volta, come soggetto politico-sociale capace di controllare l’economia e di esercitare una funzione di apparente sviluppo, mentre in realtà ci troviamo di fronte ad uno sviluppo bloccato. E questa funzione di apparente sviluppo Cosa Nostra la assume anche sostituendosi o integrandosi alle competenze pubbliche. In poche parole, Cosa Nostra si è affacciata nel nuovo millennio con una strategia meno sanguinaria ma più insidiosa in quanto favorisce obiettivamente l’affievolirsi dell’attenzione della questione mafia. Ma bisogna stare attenti, perché è proprio nei periodi di pax mafiosa che Cosa Nostra dimostra maggiore forza, maggiore capacità di infiltrarsi nel tessuto economico e sociale, maggiore capacità di intrecciare relazioni esterne e di ampliare la sua sfera di intervento mirando ad influenzare anche gli orientamenti politici nelle zone sottoposte al suo controllo.
Per quanto concerne le cosiddette relazioni esterne e le presunte collusioni tra personaggi politici e Cosa Nostra a che punto siamo?
È un dato di fatto che, a fronte dei 251 ergastoli inflitti ad altrettanti esponenti di Cosa Nostra, dobbiamo registrare le zero, o quasi, condanne nei processi contro imputati eccellenti accusati di collusione con la mafia. Molti di questi processi sono ancora aperti, ma non c’è dubbio che gli esiti avuti fino a questo momento giustificano un certo scandalo. Se processi di questa risonanza si concludono con zero condanne, è sacrosanto chiedere conto e ragione degli errori eventualmente commessi a chi ha sostenuto l’accusa. Credo, però, che prima di tutto sia assolutamente necessario provare a capire, o spiegare, il perché di questo scarto abissale tra le tante condanne inflitte ai mafiosi e le zero nei confronti di soggetti accusati di relazioni esterne con la mafia. Io certezze non ne ho, posso soltanto formulare delle ipotesi. La prima ipotesi è che i pubblici ministeri sono bravi, efficienti e capaci quando si tratta di far condannare Riina e soci, ma diventano di colpo stupidi e imbelli quando hanno a che fare con imputati eccellenti. La seconda ipotesi è che i criteri di valutazione della prova non sono sempre gli stessi, possono variare da caso a caso. La terza ipotesi è che nei processi per collusione il riscontro della prova è obiettivamente difficile. Perché? Perché degli incontri tra politici e mafiosi non si redigono verbali, nessuno annota i nomi dei corrotti che con la mafia intrecciano rapporti d’affari. Ma c’è di più. La mafia è quel che è, come ho ribadito precedentemente, proprio grazie alle complicità e alle coperture che riesce a trovare in pezzi della politica, delle istituzioni e dell’economia. Parlo di pezzi della politica perché la politica vera, intesa come servizio, significa rischiare la vita contro la mafia. Piersanti Mattarella e Pio La Torre, rispettivamente capi della Dc e del Pci in Sicilia, sono lì a dimostrarlo. Sono, invece, pezzi deviati della politica quelli con cui la mafia fa affari. È pertanto funzionale alla forza dell’organizzazione che le relazioni esterne siano coltivate e protette in un regime di specialissima segretezza. Con la conseguenza che le prove risultano, appunto, obiettivamente più difficili da riscontrare. E ciò anche a prescindere dalle difficoltà ontologiche che caratterizzano la ricerca dei riscontri obiettivi in qualunque processo di mafia. La regola delle associazioni mafiose, infatti, è capire tutto sapendo il meno possibile. Il segreto è la regola e quando si tratta di relazioni esterne esso diventa esasperato.
Per orientarsi tra le tre ipotesi che ho enunciato e scegliere la più fondata o magari intrecciarle tra loro, bisogna conoscere tutte le sentenze, sia quelle di condanna che di assoluzione.
Coloro che criticano le sentenze non dovrebbero conoscere quantomeno le motivazioni?
Invece, non si può che constatare che la regola è la disinformazione e, in alcuni casi, anche il rifiuto dell’informazione corretta. Nicola Tranfaglia, ad esempio, il quale ha scritto un libro sul processo Andreotti, evidenzia nella prefazione di questo volume che ha fatto fatica a trovare un editore che glielo pubblicasse.
Se si conoscessero le sentenze, si rileverebbe l’anomalia (l’espressione è di Livio Pepino, non di un magistrato che ha fatto queste inchieste) di provvedimenti che assolvono, anche se con lo schema tipico dell’insufficienza di prove, in presenza di realtà sconvolgenti, come l’intreccio costante tra politici ed imprenditori mafiosi, ritenute sussistenti nelle stesse sentenze assolutorie. Se si conoscessero queste anomalie, finirebbe subito il gioco della criminalizzazione dei pubblici ministeri, svanirebbe l’accusa di uso politico della giustizia e risulterebbe chiaro che i pubblici ministeri hanno fatto il loro dovere applicando la legge in maniera uguale per tutti, potenti compresi.
Si potrebbe parlare quantomeno di responsabilità politica e morale. Invece, nel momento in cui ci sono elementi non ritenuti sufficienti per una condanna penale, ma che sarebbero ampiamente sufficienti per una responsabilità politica e morale, scatta il processo di beatificazione nei confronti del personaggio eccellente di turno.
Credo che vi sia un più ampio disegno di impunità teso a consentire, a coloro i quali sono portatori di certi interessi, di tentare di sottrarsi ad un effettivo controllo di legalità.
Ho un rispetto totale ed assoluto per le sentenze. Mi pongo però un interrogativo. L’interrogativo riguarda l’oscillazione degli indirizzi interpretativi, soprattutto in tema di valutazione della prova, che ciclicamente si presenta nei processi di mafia, a seconda degli orientamenti politico-culturali dominanti in un dato momento storico. Abbiamo avuto la stagione delle assoluzioni per insufficienza di prove, siamo negli anni ’60 e ’70, e parallelamente un clima di lassismo nei confronti della mafia allora imperante. In quel momento, si negava l’esistenza stessa della mafia. Poi abbiamo avuto la positivissima reazione dei maxi processi, istruiti da Falcone e Borsellino, che è stato anche il risultato della reazione agli omicidi eccellenti commessi dalla mafia tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80. Reazione che aveva prodotto anche una nuova legislazione di indirizzo.
In seguito, è subentrata nuovamente una fase di stallo e si è avuto sul piano giudiziario il vergognoso smantellamento del pool di Falcone e Borsellino alla fine degli anni ’80.
È evidente, pertanto, che esistono fasi diverse che possono anche avere ricadute sugli indirizzi interpretativi. Giuseppe Di Lello (ex magistrato che ha fatto parte del pool antimafia di Falcone e Borsellino, ndr) ha scritto un libro, intitolato “Giudici”, in cui parla della scaltrezza della magistratura in questi ultimi cinquant’anni. “I giudici - scrive testualmente Di Lello - da sempre hanno mostrato una grande scaltrezza nel riconoscere in teoria la pericolosità della mafia per le sue connessioni con il potere politico ed economico e, nel momento di passare alle prassi giudiziarie, nel perseguire costantemente la sola ala militare dell’alleanza tenendo fuori dal loro campo di azione l’altro corno del problema. I molti fallimenti della giurisdizione si possono senz’altro spiegare - conclude Di Lello - con la funzionalità di queste prassi alla strategia della rilegittimazione continua del potere legale o, detto altrimenti, ad una solidarietà di classe intesa come solidarietà di interessi”. Noi magistrati della Procura di Palermo, dopo le stragi del ’92, abbiamo sentito il dovere di non essere scaltri, per provare a voltare pagina. Dico voltare pagina perché queste parole sono contenute in un passo, secondo me fondamentale, dell’ordinanza sentenza con cui il pool di Falcone e Borsellino chiude il primo maxi processo. Il pool denunciava “una singolare convergenza tra interessi mafiosi e interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica. Fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti e di inquietanti collegamenti che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti se si vuole davvero voltare pagina”. Noi abbiamo cercato di voltare pagina senza essere scaltri, ma solamente perché questo era il nostro dovere.
In questa ciclica oscillazione degli indirizzi interpretativi, come si colloca la stagione odierna e cosa occorrerebbe fare?
Oggi, la disattenzione generale sembra avere riflessi anche a livello istituzionale. Abbiamo una serie di sintomi in questa direzione. La “gaffe” del ministro Lunardi, il quale ha dichiarato che con la mafia si deve convivere. Il problema della diminuzione delle scorte ai magistrati antimafia e ad alcuni esponenti della società civile impegnati contro la mafia, frutto di una circolare del ministero dell’Interno del settembre scorso che, dettando i nuovi criteri per la protezione dei soggetti a rischio, fa una sorta di elenco delle priorità in materia di ordine pubblico in cui la mafia non è compresa. Il licenziamento di Tano Grasso da commissario antiracket, cioè di colui che aveva organizzato sul campo, mettendo insieme imprenditori e commercianti, la resistenza contro il pizzo mafioso.
Per quanto riguarda le cose da fare, ci sarebbe l’esigenza di rivedere la legislazione antimafia perché è una serie infinita di bis, ter, quater e così via. È una legislazione disarmonica e disomogenea con sovrapposizioni, incrostazioni, etc. Ci vorrebbe un testo unico e, nello stesso tempo, una revisione e delle proposte di rettifica.
Nella passata legislatura c’era una commissione, presieduta dal professor Fiandaca dell’Università di Palermo e già componente del Csm, che ha lavorato bene ed ha elaborato, tra l’altro, un progetto di riforma del processo delle misure di prevenzione (che significa attacco alle ricchezze mafiose). Ecco, questa commissione non è stata rinnovata e tutto il lavoro fatto rischia di essere vanificato.
Fondamentale nell’azione di contrasto a Cosa Nostra è, poi, la lotta contro il riciclaggio che è ormai internazionale e si avvale sempre più di circuiti finanziari. Mentre in passato la mafia investiva in cose che si vedono (case, terreni, etc) oggi investe, invece, in cose che non si vedono. Le cosche, infatti, trasferiscono i soldi nei paradisi fiscali e si rivolgono a studi finanziari capaci di pianificare gli investimenti con programmi su misura. Le indagini, quindi, si fanno più complesse perché, a parte la difficoltà di dimostrare i collegamenti fra mafioso e riciclatore, ci sono connivenze, complicità, società intestate a prestanomi, scatole cinesi, trucchi contabili, collaborazioni internazionali insufficienti, etc. Vi è, pertanto, la necessità di una strategia globale di contrasto armonizzata a livello internazionale, altrimenti non si cava un ragno dal buco. Per anni gli esperti di antimafia, il Fondo monetario internazionale, le banche centrali e le varie istanze europee competenti hanno chiesto di intervenire contro i paradisi fiscali proponendo, ad esempio, una sorta di embargo finanziario nei confronti di questi paesi escludendoli dalle transazioni internazionali. Dopo l’11 settembre, posta la necessità di organizzare una risposta anche finanziaria nella guerra al terrorismo internazionale, alcuni paradisi fiscali sono stati chiusi. E qui mi pongo un interrogativo. Perché ciò che è risultato sempre impossibile contro la mafia, adesso è efficacemente praticato contro il terrorismo? Forse perché hanno ragione quegli studiosi che da molto tempo sostengono che il terrorismo si può anche sconfiggere, ma senz’altro più lunga e difficile è la lotta alla mafia. Il terrorismo, infatti, è altro rispetto alla nostra società, mentre gli intrecci con le mafie sono purtroppo inestricabili.
Negli ultimi anni, come lei ha ricordato, i magistrati sono stati oggetto di numerosi attacchi, soprattutto da parte di esponenti di una determinata forza politica. Ma un particolare accanimento è stato esibito nei confronti dei magistrati della Procura di Palermo, rei di avere tradito, a detta di costoro, il cosiddetto metodo Falcone.
Che Falcone fosse bravo in una maniera assolutamente inarrivabile è un dato di fatto. Di Falcone ce n’è stato e ce ne sarà, credo, uno solo. Noi magistrati della Procura di Palermo, con i nostri limiti e le nostre insufficienze, abbiamo cercato di fare una cosa soltanto: raccogliere la sua scomodissima eredità ed applicare il suo metodo. Però c’è stata questa propaganda, di segno assolutamente opposto, secondo cui avremmo perso tempo, sprecato denaro e tradito il metodo Falcone. I fatti, invece, parlano un linguaggio completamente diverso. I latitanti arrestati sono forse il risultato di un metodo sbagliato? C’è da sottolineare, poi, che tra i latitanti arrestati dalle Forze dell’ordine, coordinate dai magistrati della Procura di Palermo nell’ambito di indagini di competenza sempre dei magistrati dell

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