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giugno/2002 - Interviste
Mafie
“Così l’assassino paga la sua colpa”
di Toni baldi

Queste le parole della mamma di Peppino Impastato (esponente di Democrazia Proletaria ucciso nel maggio 1978) quando ha ascoltato la sentenza che condannava all’ergastolo Gaetano Badalamenti quale mandante dell’omicidio del figlio. Il boss è attualmente in Usa: deve scontare 45 anni di carcere

C’è voluto quasi un quarto di secolo, ma alla fine anche la verità giudiziaria è stata accertata: Peppino Impastato fu ucciso dalla mafia. L’11 aprile scorso, infatti, i giudici della seconda sezione penale della Corte d’Assise di Palermo, presieduta da Claudio Dell’Acqua, hanno condannato all’ergastolo il boss Gaetano Badalamenti, accusato di essere stato il mandante dell’assassinio del giovane militante di Democrazia proletaria. Alla lettura del dispositivo, avvenuta nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone, ha assistito il fratello di Peppino, Giovanni, costituitosi parte civile e al quale i giudici hanno assegnato una provvisionale di 100 mila euro.
Il collegamento in videoconferenza con il carcere di Fairton (Usa), dove don Tano Badalamenti sta scontando una condanna a 45 anni di carcere per traffico di stupefacenti, è invece rimasto spento. Il boss aveva annunciato, infatti, che non avrebbe assistito alla lettura della sentenza.
"Finalmente quell’assassino paga la sua colpa". Così Felicia Bartolotta, l’anziana madre di Peppino, ha commentato la condanna all’ergastolo del capomafia di Cinisi, piccolo centro alle porte di Palermo. "Non ho mai provato sentimenti di vendetta – ha aggiunto mamma Felicia – mi sono sempre limitata ad invocare giustizia per la morte di mio figlio. Confesso che, dopo tanti anni di attesa, avevo perso la fiducia. Dubitavo che saremmo mai arrivati a questo punto, ma ora provo tanta contentezza, provo una grande soddisfazione".
La madre di Peppino, temendo che il verdetto della sentenza andasse in direzione diversa rispetto a quelle che erano le sue aspettative, non se l’è sentita però di presenziare alla lettura del dispositivo. "Volevo andare in aula, ma ero troppo emozionata – ha confessato Felicia Bartolotta – non ero sicura di come finiva ed ho quindi preferito rimanere a casa".
La mamma di Peppino non ha invece mai avuto dubbi sulla colpevolezza di don Tano Badalamenti, con il quale la famiglia Impastato era imparentata. "Sono sempre stata sicura che è stato lui – ha affermato mamma Felicia – l’ho sempre saputo perché io so come sono andate le cose: Badalamenti chiamava mio marito Luigi per lamentarsi di Peppino e mio marito lo implorava di non uccidere il ragazzo; Luigi gli diceva: uccidi me e lascia stare Peppino. Ma non è servito a niente, lo ha ammazzato lo stesso".
Felicia Bartolotta ha anche espresso dubbi sull’incidente in cui rimase ucciso il marito ancor prima che Peppino venisse assassinato. "La morte di mio marito è sempre rimasta un mistero – ha aggiunto la madre di Peppino – dicono che fu un incidente, ma c’è sempre stato un punto interrogativo su questo incidente, non c’è mai stata chiarezza".
Il corpo dilaniato di Peppino Impastato era stato trovato la notte del 9 maggio del 1978 lungo la linea ferroviaria che collega Palermo a Trapani. Un delitto passato in un primo momento sotto silenzio anche a causa del concomitante ritrovamento a Roma del cadavere di Aldo Moro, l’ex presidente della Democrazia cristiana assassinato dalle Brigate rosse.
Nonostante le prove trovate dai compagni di Peppino subito dopo il rinvenimento del corpo, che dimostravano in maniera inoppugnabile che il militante di Dp fosse stato ucciso prima dell’esplosione, gli inquirenti cercarono di far credere dapprima che Impastato fosse rimasto ucciso nel tentativo di mettere in atto un attentato terroristico e, successivamente, che si fosse invece suicidato.
Adesso, a ventiquattro anni di distanza da quel tragico giorno, la sentenza del Tribunale di Palermo fa finalmente piazza pulita di tutti i tentativi di depistaggio e di inquinamento delle indagini che hanno caratterizzato l’intera vicenda.
E’ opportuno ricordare che, già nel marzo del 2001, la stessa sezione della Corte d’Assise di Palermo aveva condannato a 30 anni di reclusione il boss Vito Palazzolo, riconosciuto come uno dei mandanti dell’assassinio di Impastato. Il procedimento, infatti, era stato sdoppiato in quanto Palazzolo, al contrario di Badalamenti, aveva chiesto di essere processato con il rito abbreviato.
L’indagine giudiziaria sulla morte del militante di Dp, dopo anni di denunce da parte dei familiari, dei compagni e del Centro siciliano di documentazione intitolato a Peppino Impastato, era stata riaperta nel 1995 dal pm Ignazio De Francisci, attualmente procuratore capo ad Agrigento, in seguito alle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Salvatore Palazzolo, omonimo di uno degli imputati. Il collaboratore aveva dichiarato di avere appreso direttamente da Vito Palazzolo che l’uccisione di Peppino Impastato era stata voluta da lui stesso e dal capomafia di Cinisi, Gaetano Badalamenti. Successivamente il processo era stato assegnato alla pm della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, Franca Imbergamo, la quale ha rappresentato la pubblica accusa nei due procedimenti. "L’impianto accusatorio è stato quello messo in piedi dall’ufficio Istruzione guidato da Rocco Chinnici – ha dichiarato la Imbergamo subito dopo le sentenze di condanna nei confronti dei due esponenti di Cosa nostra – Se non ci fossero stati i collaboratori di giustizia comunque tutto questo non sarebbe stato possibile".
Ancor prima della conclusione dei due processi, il 6 dicembre del 2000, la commissione parlamentare Antimafia aveva approvato all’unanimità la relazione sul “Caso Impastato”, redatta dall’allora capogruppo di Rifondazione comunista al Senato, Giovanni Russo Spena. A differenza di quanto doveva essere accertato dai processi in corso a Palermo, l’Antimafia si era posta l’obiettivo di verificare se vi fossero state anomalie nel comportamento degli inquirenti nel corso delle indagini e di individuare le ragioni di ritardi, omissioni e depistaggi.
"Per far ciò la Commissione – si legge nella relazione conclusiva, intitolata emblematicamente “Anatomia di una deviazione” – ha dovuto destrutturate un vero e proprio teorema (la morte del terrorista incauto e, alternativamente, la morte di un suicida) costruito con assoluta unilateralità e pregiudizialità e senza alcuna verifica dei fatti, delle prove, degli indizi, da parte dei titolari delle indagini fin dal rinvenimento dei resti dilaniati di Giuseppe Impastato".
La relazione metteva in risalto le omissioni e i vuoti di contrasto allo sviluppo del potere mafioso nella zona di Cinisi, manifestatisi all’interno delle istituzioni e nel comportamento di alcuni suoi rappresentanti e, nel contempo, evidenziava il contributo per la ricerca della verità offerto dai compagni e dai familiari di Peppino. "Di fronte ad una mafia che si evolve nella scelta degli interessi da perseguire e nelle alleanze da stringere sul territorio – si legge ancora nella relazione dell’Antimafia – ad una mafia che comprende la insopportabile pericolosità di Peppino Impastato e ne decide l’eliminazione, vi è uno Stato incapace di comprendere quegli intrecci, o deciso a non indagare contro la mafia e a non ricercare, in un territorio ove la presenza della mafia era nota a tutti da molto tempo, gli esecutori ed i mandanti di quel delitto".
Nell’evidenziare che la linea scelta nell’accertamento delle cause e degli autori degli assassinio fosse stato il frutto di una scelta consapevole di non vedere la sfida della mafia, lasciando in tal modo inesplorati il sistema e i poteri criminali di quel territorio, la relazione metteva in risalto l’inadeguatezza manifestata a quei tempi dalla Procura di Palermo rispetto alla comprensione del fenomeno mafioso. "Da questa inchiesta parlamentare – viene sottolineato nella relazione – può essere avanzata l’ipotesi che l’aprioristica esclusione della pista mafiosa abbia potuto trovare una ragione in rapporti tra la cosca di Cinisi e segmenti delle istituzioni con essa compromessi".
Per quanto riguardava il contesto generale, pur riconoscendo che in quegli anni vi erano stati comportamenti risoluti e coraggiosi da parte di molti uomini delle istituzioni e della società civile, la relazione sottolineava che le indagini sul delitto Impastato erano state il frutto di una grande deviazione. "Giuseppe Impastato – scrivono i componenti della commissione Antimafia nella relazione – sfidò la mafia in un territorio in cui si era stabilito un “sistema di relazioni”, che in quegli anni può essere rinvenuto anche in altri territori, teso, spesso illusoriamente, alla cattura per via “confidenziale” di alcuni capimafia, all’apporto che queste “relazioni” potevano dare ad alcuni filoni di indagine o, comunque, ad una pacifica “convivenza” per un tranquillo controllo della zona".
Nella relazione, poi, veniva ritenuto alquanto probabile, anche se l’ipotesi non era stata in quel momento suffragata da riscontri oggettivi, che il boss di Cinisi Gaetano Badalamenti potesse avere avuto rapporti confidenziali con esponenti dei carabinieri posti ai vertici della “benemerita”. "Per un lungo periodo storico – viene evidenziato nella relazione – la prassi dei rapporti confidenziali dei carabinieri e dei poliziotti con i mafiosi è stato un dato di fatto, anzi è stato il cuore di quelli che oggi vengono chiamati “colloqui investigativi”".
La relazione dell’antimafia ricordava inoltre che, dopo il ritrovamento del corpo dilaniato di Peppino Impastato, all’interno dell’Arma dei carabinieri convivevano opinioni e tesi diverse sul piano investigativo. Il Comando della Legione di Palermo, infatti, aveva sollecitato ai tempi ulteriori investigazioni sull’omicidio di Impastato mentre il maggiore Antonio Subranni, ex comandante del Reparto operativo del Gruppo carabinieri di Palermo, e il maresciallo Alfonso Travali, già comandante della stazione dei carabinieri di Cinisi, avevano sostenuto perentoriamente che il militante di Democrazia proletaria si fosse ucciso o fosse perito nel tentativo di porre in atto un attentato terroristico sulla linea ferroviaria che collega Palermo a Trapani. "La materialità del “depistaggio” prese forma – si legge a conclusione della relazione – quasi con naturalezza (una naturalezza devastante per lo stesso Stato di diritto), a Cinisi, in un giorno di maggio del 1978. Quell’omicidio fu, allora, un “impaccio” di cui liberarsi immediatamente, catalogandolo come suicidio o infortunio di un terrorista, ad li là di ogni palmare evidenza".
Dopo la sentenza del Tribunale di Palermo dell’11 aprile scorso, il presidente della commissione parlamentare Antimafia, Roberto Centaro, ha dichiarato che la condanna all’ergastolo di Gaetano Badalamenti è la dimostrazione del fondamento delle tesi portate avanti da amici e parenti di Impastato. "E’ la dimostrazione che la mafia teme anche chi la colpisce nella credibilità sociale mettendola alla berlina – ha aggiunto Centaro – Impastato, infatti, non era una persona pericolosa perché capace di contrastare i traffici di Cosa nostra. Piuttosto, riusciva a risvegliare dal torpore la coscienza sociale".
Umberto Santino, presidente del Centro siciliano di documentazione “Peppino Impastato”, ha dichiarato invece che la sentenza di condanna di Badalamenti come mandante del delitto, a poco più di un anno dalla condanna di Vito Palazzolo, costituisce un passo avanti sulla strada della verità e della giustizia. "Subito dopo il delitto siamo riusciti a smantellare la montatura che voleva Impastato terrorista e suicida – ha sottolineato Santino – in seguito siamo riusciti a fare riaprire l’inchiesta, portando documenti ed elementi di prova, e solo negli ultimi anni abbiamo ottenuto la celebrazione dei processi a carico dei mafiosi incriminati dell’assassinio".
Per Umberto Santino, tutto questo ritardo è dovuto al depistaggio delle indagini operato dalle Forze dell’ordine e della magistratura, come ha inequivocabilmente riconosciuto la relazione della commissione Antimafia del dicembre 2000. "Ora, dopo la condanna di Palazzolo e Badalamenti, rimangono da fare altri passi – ha aggiunto il presidente del Centro Impastato – In base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, gli esecutori del macabro assassinio sono stati Nino Badalamenti, Francesco Di Trapani (nel frattempo deceduti) e Salvatore Palazzolo, detto Turiddu, che è ancora vivo. Non abbiamo capito perché quest’ultimo non sia stato coinvolto nel processo".
Santino ha chiesto, infine, che venga fatta giustizia anche nei confronti dei responsabili del depistaggio, in modo tale da far coincidere verità storica, ormai definitivamente acclarata, e verità giudiziaria.

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