L’eventuale intenzione suicida - come nel caso del pilota dell’aereo schiantatosi a Milano contro il Pirellone - è spesso oggetto di discussione nelle cause penali e in quelle civili
Recentemente due episodi di cronaca hanno interessato, in modo clamoroso, casi di morti misteriose in cui è risultato difficilissimo distinguere una volontà suicidiaria dalla fatalità di un incidente.
Il primo episodio è accaduto vicino Roma, a Guidonia Montecelio, il 4 aprile scorso: il cadavere del perito informatico Michele Landi, consulente in molte inchieste giudiziarie scottanti, viene rinvenuto impiccato nella sua casa. Le ipotesi degli investigatori si orientano subito per il suicidio, tuttavia i familiari, gli amici ed i suoi colleghi di lavoro negano fermamente questa ipotesi ed affermano che la motivazione deve essere ricercata nella delicatezza del lavoro di perito informatico che ha svolto in particolari inchieste giudiziarie e nell’interesse che alcune persone avevano di eliminarlo, facendo passare questa morte per suicidio.
Il secondo caso è avvenuto a Milano lo scorso giovedì 18 aprile, quando un piccolo aereo si schiantava contro il 26° piano del Pirellone, il grattacielo di Milano, sede della Regione Lombardia. Ai comandi c’era Luigi Fasulo, 67 anni, imprenditore svizzero di origini italiane. Il pilota stava vivendo gravi problemi personali, collegati con un forte stress emotivo, vissuto nei giorni precedenti, in relazione a problemi economici. Inoltre aveva problemi fisici, di tipo cardiovascolare, per cui era considerato a rischio di infarto. Anche in questo caso le ipotesi spaziano dall’incidente al suicidio ed al malore, dividendo opinioni e pareri di esperti, dei familiari e degli investigatori.
Fin dal famoso caso della morte di Marylin Monroe, nel 1962 (vedi in queste pagine), gli investigatori hanno avuto grosse difficoltà nel separare le morti per suicidio dagli incidenti o da veri e propri assassinii. Con la morte di Marylin Monroe è nata l’esigenza di un metodo per analizzare il modo in cui una persona ha vissuto la propria vita prima di morire e da questo dedurre e capire se si tratta di un suicidio o di un non-suicidio. Da questi studi è emerso che, se la maggior parte dei suicidi è volontaria, alcuni non lo sono. Quello che all’apparenza sembra essere un suicidio, sia pure non intenzionale, può essere invece un omicidio.
L’intenzione suicida è spesso oggetto di discussione nelle cause penali, in cui si deve stabilire se la vittima è stata assassinata o si è suicidata, e nelle cause civili per ottener il pagamento delle assicurazioni sulla vita, per il riconoscimento della rendita a favore dei superstiti in caso di infortunio professionale, malattia professionale o risarcimento di danno per condotta colposa (negligente) ad esempio di un sanitario. E’ quando c’è di mezzo una assicurazione che il problema diviene più intricato ed insidioso.
Scrive Nietzsche in “Al di là del bene e del male”: “l’idea del suicidio è una grande consolazione, grazie ad esso si riescono a superare molte brutte notti”. Per molte persone in preda a grandi sofferenze sia fisiche che psicologiche, la libertà di porre fine alla propria vita è un conforto. Ogni persona, nell’attraversare una crisi personale, si è cullata nell’idea del suicidio. Il passaggio che avviene dal pensarlo al commetterlo è solo quantitativo: più tempo si passa nell’idea del suicidio e maggiori sono le probabilità di effettuarlo veramente.
Negli USA, per dirimere queste problematiche, sono state messe a punto, da parte degli psichiatri forensi, delle metodologie ad hoc. Compito dello psichiatra forense è quindi di ricondurre al grado di volontà (in termini giuridici: intenzionalità), espresso dalla persona con il gesto suicida, tutto quell’insieme, spesso contraddittorio, di emozioni e sentimenti che si agitano nell’animo di ognuno di noi. Ciò che lo psichiatra forense compie è in sostanza una vera e propria autopsia psicologica alla ricerca dell’intenzione del soggetto. Generalmente sono due le fonti da cui è possibile ricavare l’intenzionalità del gesto autolesivo: la prima fonte è rappresentata dalla testimonianza delle persone che hanno conosciuto i desideri di morte espressi dall’interessato prima della morte (i familiari, gli amici, i colleghi, i medici curanti); la seconda dal parere dello psichiatra forense sullo stato psicologico dell’interessato poco prima o al momento stesso della morte (la ragione o la più verosimile causa psicologica della morte della persona). Le lettere d’addio spesso lasciano facilmente capire il motivo della morte, tuttavia vengono lasciate solo in un caso su tre.
Nel corso dell’autopsia psicologica si passa in esame in modo approfondito lo stile di vita della persona e l’insieme dei sentimenti, dei pensieri e dei comportamenti che si sono manifestati nei giorni e nelle settimane precedenti la morte. Si cercano in modo particolare i cosiddetti fattori di rischio (vedi in queste pagine).
L’autopsia psicologica cerca di confermare il concetto giuridico di intenzione di morire valutando la capacità del soggetto di concepire, progettare ed attuare il suicidio. Il difetto in una di queste tre fasi fondamentali del funzionamento mentale può indicare che al defunto mancava la capacità mentale di volere il suicidio.
Il concepimento (motivo) – di solito le modalità del suicidio lasciano intendere se ci si trova di fronte ad un atto impulsivo oppure premeditato. Nel caso dell’atto premeditato, con chiara pianificazione degli atti e della sequenza dei comportamenti, è importante risalire alla causa che potrebbe aver fatto nascere nella mente della persona la ricerca della via d’uscita dal problema che lo angoscia. Il suicidio è sempre una via d’uscita cercata. Attraverso l’atto autolesivo si esce, ad esempio, dai problemi finanziari, dalla paura di una diagnosi infausta, dal lutto di un familiare, da un incidente invalidante. Spesso l’intenzione non è di morire, ma è solo quella di chiedere un aiuto o di richiamare l’attenzione su di sé attraverso un tentativo di suicidio. Si compie cioè un atto dimostrativo per manipolare una situazione o condizionare una persona. Tuttavia durante l’esecuzione del gesto dimostrativo qualcosa potrebbe andare storto e da semplice tentativo potrebbe diventare un suicidio vero e proprio, andando oltre l’intenzione del suo autore.
La progettazione (intenzione) – si può concepire l’idea di un suicidio, ma non sapere come metterlo in atto, come progettarlo. Sotto l’influsso di droghe o alcool il comportamento potrebbe non essere lucido, razionale, finalizzato e mancherebbe quindi quella sequenza logica di comportamenti tale da trasformare una intenzione in un atto concreto. In questo modo si comprende facilmente se il suicidio è l’esito finale di una volontà mentale o il semplice prodotto di un comportamento violento, anche contro se stesso.
L’esecuzione (atto) – non basta saper concepire e progettare un suicidio, è necessario avere anche una adeguata capacità esecutiva. Chi soffre con disturbi psicopatologici spesso è incapace di portare a termine anche una ideazione suicidiaria. Un esempio di questa incapacità si osserva nei casi di omicidio-suicidio degli amanti, in cui la persona, dopo aver ucciso il partner, non riesce a togliersi la vita o si ferisce solamente in modo non serio. Si osserva anche nei casi in cui domina una forte rabbia e la violenza viene fuori con comportamenti poco finalizzati e congruenti in cui da una volontà omicida scaturisce un suicidio oppure da una volontà suicida scaturisce un omicidio.
L’autopsia psicologica non giunge comunque ad un grado di certezza assoluta, come forse vorrebbero giudici ed investigatori. Lo psichiatra forense, attraverso questo strumento, giunge ad una grado di “ragionevole certezza medica” che deve essere valutato in sede giudiziaria se si tratta di suicidio, di incidente o di omicidio.
BOX - 1
Il mistero della morte di Marylin Monroe
Il 5 agosto 1962 la polizia di Los Angeles rinviene Marylin Monroe morta a casa sua. La causa della morte era ignota, ma alcuni ritennero che si trattasse di suicidio. Il corpo era nudo, giaceva a faccia in giù e con un lenzuolo tirato sul corpo. Non fu trovato alcun biglietto di addio. Cinque giorni dopo il coroner di Los Angeles sentenziò che la Monroe poteva essere morta a causa di una dose eccessiva di barbiturici. Il corpo non presentava alcun segno di violenza ed il giudizio del coroner era basato solo sugli esami tossicologici: furono rinvenuti nel sangue elevati dosaggi di un sedativo, il cloralio idrato, e di un barbiturico, il pentobarbital.
Trattandosi di una morte misteriosa, il coroner affidò ad una equipe di psicologi e psichiatri il compito di stendere un profilo psicologico della Monroe, relativo al periodo che aveva preceduto la morte. I lavori dell’equipe non riuscirono a dimostrare le premesse e le condizioni per un gesto suicida, tuttavia ebbero pressioni (come successivamente qualcuno di loro ammise) per chiudere il caso in fretta, come se si trattasse di un suicidio, e dimenticarselo.
I dubbi rimasero: la Monroe non era depressa, aveva importanti progetti di lavoro in corso e nell’immediato futuro; all’autopsia i livelli di concentrazione dei farmaci erano troppo diversi fra quelli del sangue e quelli del fegato, non furono trovate tracce di farmaci nello stomaco e nel duodeno (segno che i farmaci non erano stati assunti per bocca), tutto il colon era in stato anemico e privo di vascolarizzazione (farmaco introdotto per clisma). C’erano motivi per assassinarla? Si, la Monroe era l’amante del Presidente J.F. Kennedy e sapeva troppo delle vicende private della famiglia Kennedy e della politica del Presidente.
BOX - 2
I fattori di rischio del suicidio
- presenza di attacchi di panico in una persona affetta da depressione
- coesistenza di disturbi ansiosi, depressione e di forte disperazione
- consumo eccessivo di alcolici
- insonnia globale
- tentativi pregressi
- presenza di un piano specifico
- specifiche situazioni di vita (lutto affettivo) e di lavoro (debiti, licenziamento)
- accesso ai mezzi letali
- impulsività
- abuso di droghe
- malattia fisica cronica
BOX - 3
I principali metodi di suicidio
- armi da fuoco, 60% (maschi 65%, femmine 40%)
- impiccagione, 14% (maschi 15%, femmine 12%)
- avvelenamento con gas, 10% (maschi 8%, femmine 11%)
- veleni solidi/liquidi 9% (maschi 6%, femmine 27%)
- altri metodi, 7% (maschi 6%, femmine 10%)
|