L’espansione del movimento xenofobo e fascistoide di Jean-Marie Le Pen, che ha mostrato la sua capacità di attrazione alle elezioni presidenziali, è un segnale d’allarme per tutti i democratici, di sinistra e di destra, francesi ed europei. Alla base del fenomeno, gli incubi dell’insicurezza
Ah! La France éternelle… La France profonde… Per conoscerla bene bisogna amarla, e per amarla… Beh, si sa, per amarla bisogna essere capaci di perdonarle gli errori. Anche quelli che sembrano più gravi. Come a una donna che dice: “Sì, è vero, ti ho tradito con una canaglia, però me ne vergogno. E poi, l’ho fatto per noia, per dispetto, per paura. Ma sono sempre io, la tua France. E sai bene che un’altra come me non la troverai mai”.
Sembrerebbe l’inizio di una canzone di Georges Brassens, come l’avrebbe forse scritto Charles de Gaulle, se il Generale fosse stato anche poeta. Scrittore, e grande scrittore, sì, storico di se stesso e statista di dimensione irripetibile, animato da lucida passione per la grandeur, abituato ai tradimenti di una nazione della quale aveva sempre avuto “una certa idea”, e che due volte aveva cercato di plasmare a somiglianza di questa idea. Progetto in larga misura riuscito. La V Repubblica è quella voluta e disegnata da Charles de Gaulle, anche se nel 1969, un anno prima della morte, aveva lasciato sdegnosamente l’Eliseo perché battuto in un referendum, di secondaria importanza, sull’ordinamento regionale.
E a dire il vero, la costituzione della Cinquième ha mostrato più pregi che difetti. Persino quando il meccanismo elettorale ha prodotto le cosiddette “coabitazioni”: presidente della Repubblica di una parte politica, primo ministro, governo e maggioranza parlamentare di quella opposta. Del resto i francesi sembrano provare una sorta di perverso piacere, che forse soddisfa il loro tradizionale spirito di contraddizione, e la loro costante diffidenza nei confronti di qualsiasi Potere, votando alle elezioni presidenziali in un modo, e a quelle legislative in un altro. Ma ciò che è accaduto il 21 aprile scorso nel primo turno del voto per l’elezione del capo dello Stato, rappresenta senza alcun dubbio un fatto nuovo. Imprevedibile, inconcepibile, preoccupante al massimo livello. L’intrusione di Jean-Marie Le Pen, leader del Front National, fascistoide, razzista, sciovinista, nel confronto dei due candidati al secondo turno, è il segno di uno sbandamento – o, meglio, di uno smarrimento – che si riscontra sia nell’elettorato di destra che in quello di sinistra.
La paura, ma anche la stanchezza. Paura della criminalità, dell’insicurezza, della violenza incontrollata che periodicamente si scatena nelle periferie, le banlieues dortoirs, di molte città. Paura della spinta dell’immigrazione, soprattutto di quella nordafricana, che ha il “difetto” di essere anche musulmana. Stanchezza di una politica che si esprime attraverso un personale abile, preparato, all’altezza del ruolo che è chiamato a svolgere, ma che non è più capace di parlare al cuore e all’intelligenza dei cittadini. I francesi hanno ammirato Charles de Gaulle, eccezionale comunicatore di progetti spinti ai limiti dell’utopia, hanno amato François Mitterrand, che era riuscito a forgiarsi un’immagine regale (pur se socialista) che soddisfaceva l’orgoglio nazionale. In seguito, hanno avuto l’impressione che il quadro si facesse sempre più grigio, che i loro rappresentanti non riuscissero a garantire il loro benessere e la loro sicurezza, e non si sono riconosciuti né nel presidente neogollista Jacques Chirac, né nel primo ministro socialista Lionel Jospin, malgrado le loro indubbie capacità di governo. Di qui le astensioni (a sinistra come a destra) che hanno portato nel primo turno delle presidenziali all’eliminazione di Jospin e a un bassissimo score di Chirac, di qui l’esplosione del fenomeno Le Pen.
Jean-Marie Le Pen, che si rivolge genericamente agli “scontenti”, che proclama di voler scacciare gli immigrati, di ristabilire la pena di morte, di uscire dall’Europa di Maastricht, di rimettere in circolazione il franco, di vietare l’aborto volontario, di privilegiare le scuole private. Ecco, certo Le Pen non parla all’intelligenza dei francesi, ma a una parte dei loro istinti, sì. Alle loro paure, alle loro frustrazioni, ai loro incubi.
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In un’intervista pubblicata il 6 aprile 1995 dal settimanale National Hebdo, Jean-Marie Le Pen affermava: “Io rappresento nello stesso tempo la tradizione popolare e la tradizione controrivoluzionaria, che ha denunciato le ore più oscure del 1793, quando la Rivoluzione era considerata un ammirabile complesso di forze, e ha detestato il comunismo quando i compagni di strada avevano persuaso i francesi che esso rappresentava la speranza del mondo”. Il capo del Front National non spiegava in che modo e in quale misura la “tradizione popolare” entrasse nel suo bagaglio ideologico, e in effetti la seconda componente, dalla fondazione del Fn, nell’ottobre 1972, è sempre stata largamente maggioritaria. Detto questo, Le Pen ha sempre cercato di raccogliere la “protesta” di qualsiasi provenienza e colore, e tra il primo e il secondo turno delle presidenziali non ha esitato a chiedere il voto dei simpatizzanti dei tre candidati troskisti, che con la loro presenza, aggiunta alla forte astensione, hanno causato l’esclusione di Lionel Jospin dal ballottaggio.
La carriera politica di Jean-Marie Le Pen comincia con la guerra d’Algeria – un conflitto durato quindici anni, che ha profondamente traumatizzato e diviso la società francese - , e la sua adesione all’Udca (Unione di difesa dei commercianti e artigiani) di Pierre Poujade, movimento di stampo qualunquista che nel 1955 raccoglie consensi di vario tipo, al di fuori della sua connotazione corporativa, dai piccoli proprietari agricoli agli ex collaborazionisti del regime di Vichy. Il 2 gennaio 1956 Le Pen è eletto all’Assemblea Nazionale nelle liste del’Udca, che, a sorpresa, ottiene 52 deputati. Oggi Pierre Poujade -che, dopo aver sostenuto il dissidente socialista Jean-Pierre Chevènement, al ballottaggio ha invitato a votare per Jacques Chirac – dice che “avrei fatto meglio a rompermi una gamba, piuttosto che farlo eleggere deputato”. Ed evoca le “menzogne” del suo protetto di un tempo: “Tutto quello che aveva raccontato per presentarsi agli elettori era falso. Un padre morto per la Francia, la sua aureola dell’Indocina, si è saputo che era un bluff: è arrivato laggiù quando era tutto finito. I soldati nel fango li aveva conosciuti nei bordelli di Saigon, ma lui non aveva mai messo piede nelle risaie”. Due volte in uniforme, prima in Vietnam, nel 1953, e poi in Algeria, Jean-Marie Le Pen è stato spesso accusato di millantato credito per quanto riguarda le sue gesta militari, e di accorta reticenza sul capitolo, ancora recentemente riaperto, delle torture applicate ai guerriglieri algerini.
Comunque, Jean-Marie Le Pen si è sempre tenuto – o è stato tenuto - ai margini dei circoli “golpisti” delle forze armate, e, anche dichiarandosi schierato a favore dell’Algérie Française, nel maggio 1958, quando il pronunciamento militare di Algeri segnò la fine della IV Repubblica, la sua presenza passò del tutto inosservata. Facendo credito al suo indubbio fiuto politico, si può ritenere che il futuro capo del Fn avesse già intuito che Charles de Gaulle, riportato al potere dall’onda di quel putsch, uomo di destra ma fedele ai valori democratici e repubblicani, non avrebbe soddisfatto le pulsioni reazionarie che avevano trovato spazio nelle Leghe degli anni ’30, e nel regime collaborazionista del maresciallo Philippe Pétain. Restava quindi da raccogliere l’eredità di una estrema destra filofascista, antisemita dai tempi dell’affare Dreyfus, antisemita, filofascista.
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“Il tema dell’eguaglianza ci sembra decadente… L’eguaglianza è un’ingiustizia nei confronti dei più capaci…”: queste dichiarazioni di Jean-Marie Le Pen prendono di mira uno dei tre principi repubblicani, l’Egalité, trasmessi alla Francia dalla Rivoluzione. Richiamandosi a una “tradizione controrivoluzionaria”, Le Pen tiene conto delle componenti nazional-cattoliche e integriste che indicano la fonte di ogni male nella nascita della Repubblica del 1792, nel predominio della “giudeo-massoneria”, nel liberalismo, nel socialismo, e, beninteso, nel comunismo. Liberté, Egalité, Fraternité? No. Piuttosto il Travail, Famille, Patrie di Pétain, che la parola “repubblica” l’aveva abolita d’imperio nel suo Stato Francese. Al quale molti francesi avevano accordato fiducia nello sconforto della sconfitta del 1940, convinti di trovare nella figura del vecchio Maresciallo un protettore e un garante. In realtà le simpatie di Philippe Pétain per i regimi nazista, fascista e franchista (era stato ambasciatore a Madrid) datavano da prima della guerra, e nella resa a Hitler, seguita da una stretta collaborazione con gli occupanti, aveva visto l’occasione di impadronirsi del potere. Però, ci furono anche quelli che aderirono a Vichy (equivalente francese di Salò) per dare pratica applicazione alle loro idee, arruolandosi nella Milizia, nella divisione SS “Charlemagne”, collaborando attivamente con la Gestapo nella caccia agli ebrei e ai resistenti. Anni ormai lontani, ma il segno è rimasto, e alle manifestazioni del Fn davanti al monumento di Giovanna d’Arco, immagine presa a simbolo dall’estrema destra, non di rado spuntano i ritratti di Pétain. Del resto il Maresciallo, nel suo messaggio del 10 ottobre 1940, assumendo i pieni poteri, aveva detto: “Il nuovo regime sarà una gerarchia sociale: non sarà più fondato su una idea falsa dell’eguaglianza naturale degli uomini, ma sull’idea necessaria dell’eguaglianza delle opportunità date a tutti i francesi di provare la loro attitudine a servire”. Nei circoli dell’estrema destra questi concetti sono tuttora considerati sacrosanti, e l’odio e il rancore provati e manifestati per Charles de Gaulle si sono trasferiti su Jacques Chirac, che dal Generale ha ereditato lo spirito repubblicano, e l’intransigente antifascismo.
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La honte. La vergogna. Durante due settimane, dal 22 aprile al 4 giugno, ogni giorno, centinaia di migliaia di francesi sono scesi nelle vie e nelle piazze a gridare la loro protesta, la loro volontà di sbarrare la strada a Le Pen, la loro vergogna. Migliaia i cartelli con la scritta J’ai honte. “Tutti i veri francesi hanno vergogna di quello che è successo – ha detto, in un’intervista all’inviata di Repubblica Daria Galateria, lo storico Jacques Le Goff – Ci si deve rendere modesti nei confronti degli austriaci e degli italiani. Sono beninteso tutti fenomeni diversi. C’è certo una tendenza generale verso l’estrema destra, ma credo che il caso austriaco sia diverso perché quello che è da condannare non è il 20% degli austriaci che ha votato Haider, ma il partito conservatore che, per andare al potere, ha messo Haider nel governo. Diverso anche il caso dell’Italia, perché anche se i miei sentimenti sono antiberlusconiani, è sbagliato definire Berlusconi fascista. Berlusconi non è fascista: è un uomo di destra, è un politico che mescola interessi privati e pubblici, e che governa largamente attraverso la televisione. A mio parere è più condannabile Bossi: è lui il Le Pen italiano, razzista e xenofobo. È lui il fascista: mentre Fini ha fatto evolvere il suo partito neofascista in una destra democratica”. Per Le Goff, “la Francia resta comunque il Paese della laicità, dei diritti dell’uomo e della democrazia”, ma non si devono dimenticare le cause del “terremoto” del 21 aprile: “Penso che un certo numero di problemi non risolti si sono accumulati; e, come succede nel mondo della natura, cause inattese, frammentarie e limitate, possono produrre per una congiuntura l’esplosione che si è prodotta ora”. A suffragare l’opinione dello storico, riprendiamo una sintetica analisi di Jacques Julliard, direttore della Scuola di alti studi di scienze sociali, sul “fenomeno Le Pen”, pubblicato da L’Histoire del marzo 1998: “Il suo successo si spiega con il forte sentimento d’insicurezza che si è progressivamente diffuso nella popolazione: insicurezza sociale (disoccupazione), e insicurezza personale (violenza nelle periferie, trasporti, ecc.). A questo il Front National offre una spiegazione, o piuttosto un capro espiatorio: gli immigrati. Il suo successo si basa sulla forte correlazione che stabilisce fra questi tre dati: disoccupazione, insicurezza, immigrazione, a differenza degli altri partiti che negano questa correlazione, per paura di portare acqua al mulino lepenista. Ora, una parte crescente dei disoccupati, degli esclusi, e di quelli che si sentono minacciati dall’evoluzione moderna (l’Europa, la mondializzazione) sono, a torto o a ragione, persuasi di questa correlazione. Si considerano abbandonati dalle élites liberali e umaniste che li accusano di razzismo, mentre si dissolve il radicamento del Partito comunista nei quartieri popolari. Il Fn ha assunto la funzione di tribuno del popolo che ebbe per lungo tempo il Pcf. Insisto su questo punto. Nessuno dei tre fattori descritti sarebbe stato sufficiente a determinare il successo del Fn. Ma la loro combinazione ha prodotto un cocktail esplosivo quando è sembrato che l’insieme della classe dirigente – dai neogollisti ai comunisti – si disinteressasse dei ceti popolari e li abbandonasse al loro destino”.
Com’è noto, al ballottaggio i francesi sono andati in massa alle urne, e hanno “fermato” Jean-Marie Le Pen. Elettori di destra e di sinistra hanno dato a Jacques Chirac un 82,3% mai visto né immaginato, e il Presidente, che non manca di stile, ha ringraziato tutti, anche quelli che per rinnovare “il patto repubblicano” sono andati “al di là degli spartiacque tradizionali” e “al di là delle preferenze personali e politiche”. Nessuno dimentica che la ferità c’è stata,e ne rimane il segno. Anche i problemi rimangono. Anche la paura. Nell’interesse loro e di tutti gli europei, les enfants de la Patrie hanno bisogno di trovare risposte giuste a domande che spesso sono mal poste.
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