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giugno/2002 - Interviste
Ordine Pubblico/Napoli
La piazza, una difficile maestra di democrazia
di Alberto Matricardo

Va difesa, anche da se stessa, protetta dalla repressione di chi, da varie parti, teme il nuovo, e anche dai suoi possibili eccessi, ma lasciata libera di esprimere ciò che ha dentro

Autorevoli studiosi ne avevano decretato la fine. N. Negroponte, il più deciso sostenitore di Internet, aveva parlato di piazza virtuale elettronica, destinata a soppiantare quella reale. Da più parti insomma si riteneva superata la pratica della mobilitazione di piazza, in concomitanza con il declino dei partiti e delle organizzazioni di massa, dominatori della scena politica del novecento. Negli ultimi tempi però una serie di fatti sembrano smentire questa profezia. Pare che “la piazza” non solo non sia scomparsa, ma anzi riprenda un ruolo di protagonista sulla scena politica del nostro, come di altri paesi.
Ma che cosa è, oltre che ovviamente un luogo fisico dello spazio urbano, “la piazza”?
Nella polis greca il luogo della elaborazione, del confronto e della decisone comune. Nulla che fosse veramente importante poteva essere deciso al di fuori dell’“agorà”. Una funzione analoga aveva il foro romano. Ma Atene e Roma repubblicana erano comunità umane infinitamente più piccole di una qualsiasi metropoli moderna. I cittadini della democrazia ateniese (maschi adulti liberi, con entrambi i genitori ateniesi) non furono mai più di quarantamila. Anche per questo non era poi così difficile per Atene, che è rimasta nei secoli un modello ideale, svolgere tutta la sua politica in piazza. Come avveniva del resto anche nei comuni medievali italiani, anch’essi comunità relativamente piccole, nei quali la piazza, “l’arengo” era il cuore della vita politica cittadina, luogo degli scontri tra interessi e della formazione della volontà politica comune. Ancora oggi in alcuni cantoni della Svizzera l’assemblea in piazza decide delle questioni politiche e esprime il governo locale.
Per quanto lo stato territoriale moderno derivi dall’abbandono graduale del primato della piazza, a vantaggio di meccanismi di partecipazione meno diretta e più controllata, anche a causa della creazione degli apparati politico militari e amministrativi centralizzati, lontani e spesso invisibili nelle loro sedi dirigenti, quando ci sono momenti veramente importanti della vita politica, ecco che la piazza si ripopola, spesso con sommosse che sfociano in cambiamenti di governo, riassumendo la sua funzione originaria di luogo di nascita della politica.
La piazza nella storia moderna è qualcosa di profondamente diverso dalla antica agorà o dalla stessa piazza medievale. Non è, almeno in generale, un luogo di sintesi e di conciliazione degli opposti, ma funge, quando si mobilita, in un certo senso da contraltare del potere. Così essa interviene, e decide, in alcuni momenti cruciali della storia moderna europea. E’ il luogo della messa in discussione dello stato di cose esistente, delle lotte, e della repressione sociale.
L’intervento della piazza, a partire dalla Firenze del trecento con il tumulto dei Ciompi mette in discussione “il palazzo”. Il movimento di protesta per le strade di Parigi del 1789 portò alla presa della Bastiglia, segnò la fine dell’ancien regime e l’inizio della rivoluzione francese che avrebbe mutato il volto dell’Europa. La piazza ebbe un ruolo determinante nella rivoluzione del luglio 1830 e in quella del 48, sempre a Parigi, il cui esempio infiammò tutte le piazze d’Europa, e nella esperienza della Comune, del 1870, nella Russia del 1917. Solo per fare alcuni esempi famosi.
Di lotte di piazza, spesso violente e sanguinose, è costellata la storia sociale e politica dell’Europa dall’ottocento ad oggi. La piazza come luogo di rigenerazione, venne esaltata da Sorel, il filosofo della violenza rivoluzionaria e del mito dello sciopero generale, che vasta influenza ebbe sui movimenti di massa della prima parte del novecento.
La piazza è sempre qualcosa di strano ed imprevedibile, una specie di fiume carsico che ricompare ogni tanto in superficie, portando all’aperto gli umori profondi della società, per poi sparire nuovamente per chissà quanto tempo. E’, nel bene e nel male, momento di verità e uno dei luoghi privilegiati della nostra storia.
Per questo il rapporto dello Stato, di ogni Stato, in ogni tempo, con la piazza è sempre delicato, problematico. Si tratti di piazza della Bastiglia a Parigi, di Valle Giulia a Roma, di piazza delle Quattro Culture a Città del Messico, della Spianata delle Moschee a Gerusalemme, di piazza Tien An Men a Pechino, o di quella di un ghetto di Los Angeles, eventi di piazza hanno marcato spesso, come terremoti, le svolte profonde nella storia dei paesi e dei popoli.
La piazza, quanto meno è attivata da movimenti strutturati ideologicamente e organizzativamente, quanto più è spontanea, tanto più esprime le pulsioni profonde della psiche collettiva. Ne costituisce una sorta di eruzione liberatoria.
Questo perché in piazza la dimensione degli individui viene trascesa, si fondono le passioni, si creano miti e nuove identità collettive. La presenza di tanta gente insieme può produrre deresponsabilizzazione degli individui, liberazione degli impulsi più profondi, regressione verso l’istintualità primordiale, come Manzoni descrive in alcune straordinarie pagine dei Promessi Sposi, o come afferma Freud, nella sua teoria sulla psicologia di massa, creare una sorta di ebbrezza di onnipotenza, che può portare anche allo scatenamento di pratiche distruttive, negli stadi, nei concerti rock, talvolta anche nelle manifestazioni politiche, specie nelle situazioni di “stato nascente” dei movimenti.
In piazza si sono formati e si sono fatti a lungo le ossa in lotte spesso sanguinose i movimenti operai storici; in piazza è nato, a partire dall’esperienza delle suffragette all’inizio del novecento, il movimento delle donne; in piazza si sono ritrovati, nel nostro paese, praticamente tutte le categorie,operai, studenti, quadri aziendali, insegnanti, scienziati, omosessuali, ecc.
Scendere in piazza vuol dire vincere i pudori e le ritrosie, rendersi parte di una identità collettiva superiore al singolo. Chi scende in piazza per la prima volta diventa un soggetto collettivo, riceve il “battesimo della politica”, diventa – come si dice- “un soggetto politico”.
La storia della piazza è la storia stessa del nostro paese, poiché definisce, nei diversi momenti, la realtà, spesso dura e crudele, dei rapporti sociali.
Dopo l’unità d’Italia, come il diritto di voto, così anche il diritto di manifestare in piazza non era certo garantito a tutti. Agli scioperi operai i prefetti mandavano direttamente l’esercito. Il generale Bava Beccaris, nel 1897 a Milano faceva sparare con i cannoni sulla folla esasperata per la imposizione della tassa sul macinato, cioè sul pane, che la colpiva nei suoi più elementari bisogni. Si prese per questo una decorazione.
Durante e a seguito della conclusione della prima guerra mondiale un’ondata di scioperi e di manifestazioni di piazza, anche a carattere insurrezionale, si diffuse dalla Russia, alla Germania, all’Austria, all’Italia, perfino all’Inghilterra. In Russia i moti di piazza sfociarono nella rivoluzione d’ottobre, con conseguenze politiche profonde su tutta l’Europa e sul mondo per l’intero secolo del novecento.
Come si sa, il fascismo nacque in Italia per una serie complessa di cause, ma si espresse, fin dall’inizio, come movimento di repressione violenta nei confronti delle lotte operaie e bracciantili già in fase di riflusso, dopo il “biennio rosso” degli anni 1919- 1920. Durante il ventennio ogni possibilità di manifestare il dissenso in piazza venne eliminata, mentre il regime stesso occupava regolarmente le piazze con le “adunate oceaniche” intorno al Duce, cioè con la mobilitazione diretta e gestita dall’alto delle masse in suo sostegno.
I rituali di piazza in cui venivano inquadrate folle immense ebbero una importanza fondamentale anche per il nazismo tedesco. Gli scenari e i riti di piazza, accuratamente preparati, producevano effetti di identificazione collettiva quasi mistici intorno al Führer. Anche nell’Unione Sovietica e, più tardi, negli altri paesi a regime comunista dell’est europeo, specie durante il periodo staliniano, venne utilizzata regolarmente la mobilitazione di massa e di piazza delle popolazioni per mantenere viva la tensione ideale necessaria al regime. Il che indusse alcuni studiosi, tra cui Hannah Arendt, a coniare per l’insieme di questi regimi, pure tra loro diversi, il termine di “regimi totalitari”, in quanto fondati sulla mobilitazione diretta delle masse e sul rapporto diretto tra queste e il capo carismatico.
La resistenza armata contro il fascismo, sviluppatasi durante la seconda guerra mondiale, consentì al nostro paese da una parte di addolcire un poco le conseguenze della sconfitta militare, dall’altra riaprì le piazze alle manifestazioni popolari spontanee, che da decenni ormai non erano state più possibili. I documenti storici, filmati e fotografie, delle giornate dell’aprile 1945, ci danno le immagini di folle gioiose che, al seguito delle colonne partigiane armate, invadono le piazze delle città liberate.
Ma l’atmosfera di nuova serenità durò poco. Incombeva infatti la fine dell’unità antifascista, a livello mondiale come anche nel nostro paese, e la guerra fredda.
Lo stato si ricostituì sulla base di una sostanziale continuità, delle leggi e anche, in larga parte, degli uomini, con il precedente regime. Ciò non poteva non avere conseguenze anche sulla concezione e la pratica della piazza e dell’ordine pubblico.
Negli anni Cinquanta, in piena guerra fredda, le manifestazioni di piazza degli operai o dei braccianti erano frequentemente represse, anche con morti e feriti. Ciò corrispondeva alla realtà politico sociale di un paese ancora arretrato, in cui si contrapponevano un blocco moderato conservatore, schierato decisamente su posizioni filoamericane, ed uno schieramento di sinistra, in cui risaltava il partito comunista più forte dell’occidente, che si sentiva un “reparto” del movimento comunista internazionale e che vedeva nell’Urss il punto di riferimento essenziale dei lavoratori.
Gli scontri di piazza erano allora, in realtà, punti di attrito epidermico tra due blocchi mondiali politici, ideologici e militari nelle loro estreme articolazioni.
Non era ancora chiaro, negli anni cinquanta, se l’Italia doveva avere, in sintonia con altri paesi latini, un regime “clericofascista”, sul tipo di quello di Salazar in Portogallo, un po’ più blando di quello di Franco in Spagna, come molti in America e in Italia avrebbe desiderato, oppure se da noi poteva avvenire qualcosa di nuovo, di socialmente più aperto.
Questa fu la posta in gioco dello scontro in Italia, anche sulle piazze, degli anni cinquanta. L’ultimo tentativo di affermare la prospettiva di un governo autoritario a difesa degli interessi più conservatori, appoggiato ai neofascisti, fu quello del governo Tambroni, nel 1960, che venne abbattuto dopo gravissimi scontri di piazza, con molti morti, in diverse parti del paese.
Negli anni successivi le cose cambiarono. Iniziò la fase del centro sinistra, l’apertura della Dc ai socialisti. Il movimento operaio organizzato accrebbe la sua forza e la sua unità. I problemi di piazza divennero meno acuti, perché la situazione politica si era fatta meno chiusa e compressa. L’inaugurazione del centro sinistra, aprì una fase nuova per il paese, ben diversa da ogni altra della sua storia precedente. Le mobilitazioni operaie e studentesche di piazza degli ultimi anni Sessanta misero però in luce che l’equilibrio, che per alcuni anni, pareva essere stato relativamente raggiunto nel rapporto tra cittadini e Stato era di nuovo in crisi. Così cambiò anche la politica dell’ordine pubblico e quella che si chiama comunemente la “costituzione materiale”.
L’irruzione sulla scena politica di una generazione di giovani che intendeva essere protagonista delle scelte politiche si tradusse in una diffusa attività di piazza, che avrebbe dovuto crescere almeno fino ad oltre la metà degli anni Settanta. Le occupazioni delle università, gli scontri tra studenti e polizia a Roma, a Milano, a Firenze, e in innumerevoli altre città d’Italia produssero il senso di una svolta profonda della realtà politica del paese.
Non furono anni solo di scontro quasi quotidiano sulle piazze, ma anche di dialogo tra manifestanti e appartenenti alle Forze dell’ordine. La piazza fu, si può dire, levatrice e maestra per molte coscienze. C’era un nuovo da riconoscere e da annunciare. Sempre i movimenti nascenti hanno bisogno della dimensione della piazza per riconoscersi.
Dalla fine degli anni Sessanta alla metà dei Settanta ci furono altre lotte studentesche e dei nuovi movimenti in piazza, con momenti di scontro anche violenti. Ma dopo la metà degli anni Settanta la questione dell’ordine pubblico venne gradualmente egemonizzata dal terrorismo, che di fatto espropriava i movimenti della loro naturale dimensione espansiva nelle piazze. Il terrorismo agì come la gelata in primavera. Il conflitto sociale veniva artificiosamente portato su di un livello non suo, di un gratuito scontro militare, quando aveva invece bisogno di potersi esprimere pacificamente, per metter a fuoco le sue ragioni, le sue strategie politiche, le sue finalità, per ampliare e radicare il suo consenso sociale e politico.
Così di fatto la politica dovette abbandonare la piazza, come luogo libero e privilegiato di costruzione di identità e di formazione della politica, mantenendola prevalentemente come spazio di risposta difensiva alle provocazioni terroristiche.
La crisi definitiva dell’assetto politico sociale del paese uscito dal dopoguerra e la seguente instabilità degli anni Ottanta e Novanta ebbero come effetto una sorta di compromesso sul piano dell’ordine pubblico. Riconosciuto il sindacato dei lavoratori come un elemento essenziale dell’equilibrio sociale, in concomitanza con la politica della concertazione, la piazza continuò ad avere un ruolo rilevante nel nostro paese. In alcuni casi governi caddero in seguito agli scioperi generali e ad imponenti manifestazioni di piazza.
Ma la situazione negli ultimi anni è profondamente cambiata. La fine della guerra fredda, l’innovazione tecnologica, le trasformazioni dei processi produttivi hanno mutato la composizione sociale, le identità, il senso di appartenenza degli individui. La società si è maggiormente segmentata, frammentata, atomizzata. Le tradizionali certezze e discipline di classe ed ideologiche sono in gran parte cadute. Ma allo stesso tempo i problemi si sono intrecciati, fatti più generali, più planetari. Da questa contemporanea, duplice tendenza alla atomizzazione sociale e culturale nei diversi paesi e insieme all’ampliamento della problematica politica alle questioni globali trae la sua origine il movimento impropriamente chiamato “No Global”, che, come si sa, ha avuto il suo battesimo di piazza a Seattle e ha poi moltiplicato le sue iniziative sia di discussione, sia di mobilitazione in diverse parti del mondo. Si tratta di un movimento che, smentendo almeno in parte le profezie sulla “piazza virtuale”, si fa vedere sulle piazze vere, ed è composto di gente in carne ed ossa, sebbene usi Internet come mezzo di comunicazione, di confronto, di mobilitazione in diversi continenti.
I comportamenti di questo nuovo movimento di piazza si sono oggi fatti più immediati, meno organizzati, più imprevedibili. Ma ciò accade per ogni aspetto della nostra vita, a cominciare dall’andamento delle borse e dei mercati finanziari globali: in un mondo che si è fatto più complesso, tutto risulta più complicato, meno lineare, più imprevedibile.
Per la prima volta nella storia umana invade la piazza un movimento che, pur nella sua natura composita e talvolta contraddittoria, ha caratteri ed esprime una mentalità mondiale, figlio delle nuove tecnologie e della rivoluzione informatica, diverso dall’ecumenismo cristiano e dall’internazionalismo della tradizione comunista.
Più che essere una realtà strutturata con obiettivi e strategie di lotta, il movimento “No Global” apre uno spazio nuovo, di “pratica globale” per la politica. E’ questo che forse non comprende il presidente della Confindustria D’Amato, quando esprime la condanna netta di questo movimento, in quanto sarebbe “contro tutto”. Il movimento “No Global” può anche essere “contro tutto” (il che poi effettivamente non è), ma è un “contro tutto” che parla direttamente sulla scena del mondo, che compare a Seattle come a Genova, a Stoccolma, a Porto Alegre o a Napoli, in Cisgiordania, nel mezzo di una guerra terribile, e perfino a Betlemme, nella basilica della Natività assediata.
La piazza “No Global” non si rivolge più solo ai governi o alle politiche nazionali, ma ad opinione pubblica mondiale in qualche modo unificata. È composta da una miriade di associazioni, istituzioni non governative, movimenti locali che si riconoscono sui temi del rispetto dell’ambiente, dei diritti umani, della lotta al sottosviluppo, della opposizione alla guerra. La sua forza sta proprio nell’aprire uno sguardo dal mondo sul mondo.
Nelle manifestazioni “No Global”, come si sa, a Napoli e a Genova sono avvenuti scontri durissimi che richiamano alla memoria le lotte sanguinose degli anni Cinquanta del movimento operaio e bracciantile italiano. Ma si tratta di fenomeni molto diversi tra loro. Hanno fatto la loro comparsa, mischiati al movimento, strani personaggi, appartenenti al cosiddetto “Black Block”. Gente che apparentemente cerca solo l’occasione “sportiva” per menare le mani. Nel grande fiume dell’umanità c’è anche questo.
Da noi, in Italia, la piazza vede oggi incrociarsi due dimensioni di lotta e di impegno sociale: quella tradizionale del movimento operaio organizzato per mantenere le relazioni di lavoro in conformità con le pratiche ormai da decenni acquisite nel nostro paese, e quella dei No Global. A ciò va aggiunta l’esperienza dei girotondi, che esprimono, sempre in piazza, esigenze interne, sia garantiste, sia di rinnovamento della politica nazionale.
Così – smentendo le profezie sulla sua fine - la piazza continua ad essere lo specchio della società, in cui quest’ultima deve di tanto in tanto guardarsi. In piazza si può manifestare la fragilità e la natura convenzionale della nostra convivenza civile, la astrattezza inerme dei nostri principi, ma in piazza può nascere talvolta qualcosa di nuovo che cambierà prima o poi lo stato delle cose cui siamo abituati. La piazza, nella sua natura ambigua e magmatica, continua, anche nell’era informatica, ad essere il fiume carsico che riappare di tanto in tanto, per cambiare mentalità, senso comune, insomma per rinnovare la politica, emergendo da misteriosi sottosuoli.
Davanti a questa realtà così mutevole e magmatica della piazza mantenere l’ordine pubblico, salvaguardare i principi della convivenza civile, come è compito dello Stato, non è facile.
Se da una parte la piazza può essere il luogo della immediatezza, della liberazione delle pulsioni profonde, dall’altra è proprio in piazza che i principi, su cui fondiamo la nostra convivenza, sono messi più alla prova e per ciò , per così dire, rinascono, possono diventare esperienza viva.
Nella storia europea la concessione della Magna Charta e dello “Habeas corpus”, avvenne in Inghilterra, da parte del re Giovanni senza Terra, agli inizi del secolo tredicesimo. Si dice che lo abbia fatto perché costretto, provvisto com’era di scarso prestigio. I diritti che tale atto riconosceva non erano poi inizialmente per tutti, ma solo per i nobili. Ma già nell’affermazione di quel principio veniva definita l’essenza del rapporto tra il cittadino e lo Stato, senza il quale quest’ultimo, come organizzazione libera della comunità, morirebbe, e la nostra società precipiterebbe nell’arbitrio e nell’oppressione.
La piazza è fisicamente, nella città, il luogo più aperto. La tradizione spirituale cristiana parla di “foro”, di piazza interiore, in cui ciascun uomo, senza alibi ed ipocrisie, deve comparire davanti a se stesso. Così come la comunità, anche ciascuno di noi ha la sua piazza dentro di sé. Sia l’una, quella pubblica, che quella interiore sono uno spazio vuoto, che ogni tanto viene percorso da ondate di energie, magari disordinate, che rinnovano la vita. Per questo la piazza non va repressa, ma difesa, sia quella nostra, individuale, sia quella comune. Va difesa, anche da se stessa, protetta dalla repressione di chi, o dalla parte di noi che teme il nuovo - e anche dai suoi stessi possibili eccessi - ma lasciata libera di esprimere ciò che ha dentro.
Tutto ciò che in essa accade – che lo vogliamo o no – allo stadio come al concerto rock, alla manifestazione politica o sindacale, se personalmente ci siamo, ma soprattutto se non ci siamo, ci riguarda profondamente, tutti e ciascuno. Come ci riguardano, individualmente, le intuizioni, le fantasie, i sogni della nostra piazza interiore, che possono in un certo momento cambiarci la vita. La piazza è spazio libero, l’aperto in cui l’uomo, sia individualmente che come comunità, ripensa e riprogetta continuamente se stesso. Senza la piazza vera, percorsa da gente che ha qualcosa da dire, da affermare, da rivendicare, il mondo sarebbe un incubo. Non bisogna mai dimenticare che dalla piazza sono nati sia il cittadino che lo Stato moderno. Che “cittadino” e “Stato” sono convenzioni astratte, che vivono solo se, messe alla prova, vengono confermate dai comportamenti della vita reale.

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