La presenza nel nostro Paese di consistenti nuclei di stranieri, può e deve considerarsi come un arricchimento della società, purché non si manifesti discriminazione o ghettizzazione
Li abbiamo in casa ormai da molti anni. Fanno parte del paesaggio cittadino dei grandi come dei piccoli centri. Sono gli immigrati, che, dalle diverse parti del mondo, sono venuti in Italia per cercare una vita migliore. Ma la loro presenza sta cambiando.
Il fenomeno immigratorio nelle società occidentali presenta costanti che, con le dovute varianti, sono largamente studiate e conosciute.
Gli esperti in genere distinguono tre fasi nel processo tipico di immigrazione.
La prima è quella in cui arrivano alcuni “battistrada”, sparsi, senza conoscenza del territorio, senza casa e senza relazioni, insomma soli. È la fase più dura, in cui il problema per questi ardimentosi è resistere più a lungo possibile, mettere qualche radice nel paese in cui sono giunti.
La seconda è quella in cui i “battistrada” si sono in qualche modo ambientati, hanno trovato un lavoro, hanno fatto delle conoscenze, si ritrovano tra di loro. Allora cominciano a funzionare le catene familiari. Arrivano i parenti, gli amici, i compaesani. Per questi l’impatto con il paese di immigrazione sarà sempre duro, ma potranno disporre di punti di appoggio già esistenti, che renderanno per loro l’insediamento meno difficile.
La terza, se il flusso si mantiene regolare e abbastanza consistente, inizia circa quindici vent’anni dopo i primi arrivi. Il trauma del primo impatto è stato assorbito, la comunità si è radicata ed in qualche modo organizzata. I suoi legami con la nuova realtà sono oramai diversificati e profondi. Il problema non è più quello iniziale minimale di farsi accettare. È già il tempo in cui alcuni membri della comunità immigrata riescono ad integrarsi ed ottenere qualche successo nella gerarchia sociale del paese di adozione. In genere questi bravi e fortunati sono immigrati da piccoli o addirittura nati nel nuovo paese, quindi scolarizzati in esso.
Insieme ai primi successi cresce il senso e l’orgoglio della propria identità, il bisogno di valorizzare i legami non solo familiari, ma più generalmente culturali con la madrepatria, con le proprie tradizioni di origine, con la propria religione. In questa terza fase la comunità ha le sue organizzazioni di solidarietà che ormai funzionano, le sue strategie di autopromozione, comincia - come si dice - a fare lobby, a contare anche sul piano politico e sociale nel paese di adozione. Ma spesso anche sviluppa una sua influenza di ritorno nel paese di provenienza, grazie ai vincoli famigliari sempre forti e al flusso intenso e continuo di persone nei due sensi, alla rilevanza economica per il paese d’origine delle rimesse alle famiglie rimaste, alla promozione di iniziative di varia natura, che una comunità emigrata “matura” non trascura di prendere nel paese di provenienza. Non è stata secondaria, per esempio, l’influenza degli italoamericani sui loro paesi di origine, specie nel sud dell’Italia, per almeno alcuni decenni nel dopoguerra.
Ogni gruppo immigrato ha anche delle caratteristiche specifiche che lo contraddistinguono rispetto agli altri, tuttavia questa terza fase è la più delicata per tutti, perché è proprio quando una comunità ha messo radici e, per così dire, comincia ad “alzare la testa”, che si presentano con maggiore evidenza le diversità di fondo. C’è perciò il maggior pericolo di tensioni e contrasti con la popolazione ospitante. Altri paesi europei o gli stessi Stati Uniti hanno vissuto periodi drammatici, come le rivolte dei ghetti, a causa della difficoltà di quelle società ad attribuire uno statuto ed una condizione soddisfacenti per le comunità di immigrati, in particolare per le minoranze religiose e di colore. In Italia, per alcune comunità di immigrati almeno, questa terza fase sta iniziando in alcune zone del paese. Da come verrà gestita ed evolverà potrà dipendere molto non solo del futuro degli immigrati. Che fare?
Prima di tutto bisogna avere idee più chiare sul fenomeno.
In Italia il flusso immigratorio ha in gran parte assorbito gli effetti negativi della diminuzione della popolazione, ha reso disponibile mano d’opera giovane da impiegare nell’industria e nei servizi. Grazie alla presenza di un numero consistente di lavoratori immigrati regolarmente registrati potremo evitare, tra l’altro, che il rapporto tra persone in attività ed in pensione si squilibri, in conseguenza dell’invecchiamento della popolazione, in modo intollerabile a favore dei secondi. Oggi, inoltre, il nostro sistema produttivo non potrebbe fare a meno di utilizzare mano d’opera immigrata. Questo però comporta che i paesi di provenienza degli immigrati sono privati delle loro risorse umane migliori.
Tra l’emigrazione italiana dell’Ottocento e della prima metà del Novecento e quella di oggi dal Sud del mondo vi è infatti almeno questa differenza di rilievo: i nostri emigranti provenivano in genere dalla parte meno qualificata o marginale della società. Erano contadini poveri, sottoproletari in miseria delle grandi città quelli che, per lo più, decidevano di imbarcarsi per andare oltremare a cercare il benessere. Quelli che vengono da noi oggi, invece, sono per lo più giovani scolarizzati, spesso con titoli di studio superiori o laureati, che trovano più vantaggioso economicamente fare un lavoro dequalificato qui, che cercarne uno, più corrispondente alla loro preparazione, nel loro paese di provenienza. Questo comporta una perdita per i paesi in via di sviluppo, che vedono impoverirsi le loro risorse umane, dopo averle formate, ed un vantaggio per noi. Ma quanti sono gli immigrati?
Erano 1.340.655 (732.669 maschi e 607.986 femmine) gli stranieri presenti in Italia con regolare permesso di soggiorno al 1° gennaio 2000. Questo, in sintesi, è quanto risulta dall’elaborazione condotta dall’Istat sui dati forniti dal ministero dell’Interno. Tuttavia, i dati relativi ai permessi di soggiorno consentono di individuare soltanto parte dei minori stranieri presenti nel paese; la valutazione indiretta del complesso dei minori porta a una stima di tutta la popolazione straniera regolarmente presente in Italia pari a 1 milione 520mila unità al 1° gennaio 2000.
I nuovi regolarizzati sono originari soprattutto dei paesi dell’Europa centro-orientale dai quali provengono, nel complesso, 363mila immigrati, di cui 133mila di cittadinanza albanese. Mediamente, nel periodo 1992-1999, i cittadini dei paesi dell’Est hanno registrato un incremento annuo del 20% circa. Tuttavia, il primo paese di provenienza resta ancora il Marocco, che alla data del 1° gennaio 2000 contava ufficialmente 156mila immigrati. Il ricongiungimento familiare è un’altra ragione dell’incremento del flusso: dei 250mila nuovi permessi 63mila risultano rilasciati per motivi familiari. Considerando che gran parte dei 167mila nuovi permessi per lavoro presenti in archivio al 1° gennaio 2000 erano in realtà permessi di regolarizzazione, si conferma una tendenza osservata negli anni precedenti: gli ingressi per motivi familiari prevalgono su quelli per lavoro, in particolare per le comunità di più antica immigrazione come quelle dell’Africa settentrionale. Gran parte degli stranieri sono presenti in Italia da tempo: quelli regolarmente presenti da oltre 5 anni erano infatti 678mila, (di cui 550 mila provenienti dai paesi a forte pressione migratoria) la quasi totalità dei quali potrebbe avere i requisiti per ottenere la carta di soggiorno e risiedere stabilmente sul nostro territorio.
A queste cifre andrebbero aggiunte quelle della immigrazione clandestina, che alcuni esperti sostengono portare il numero degli stranieri extracomunitari nel nostro Paese a circa il doppio dei numeri ufficiali. Si può grosso modo ipotizzare che sia di oltre tre milioni il numero di immigrati extracomunitari presenti oggi in Italia. Si tratta di una cifra cospicua, anche se al di sotto di quella del numero di immigrati in Germania, Francia e Gran Bretagna. In Germania, in particolare, ha una consistenza di circa tre milioni la sola comunità turca.
Rispetto ad altri paesi europei l’Italia ha conosciuto il fenomeno immigratorio più tardi. Solo in alcune zone circoscritte del paese la percentuale di immigrati sulla popolazione residente raggiunge già oggi quella che gli esperti indicano come “soglia critica” (5-7% della popolazione), oltre la quale le comunità degli immigrati assumono una rilevanza di primaria grandezza, politica e sociale, per la società in cui si sono stabiliti. Ciò nonostante non ci vorranno molti anni perché i problemi tipici provocati dalle immigrazioni raggiungano anche da noi la loro fase acuta. È da oggi che possiamo, governando i processi di integrazione, influire significativamente sull’evoluzione di questi problemi.
La fase in cui le comunità immigrate raggiungono la loro “maturità” può essere in certi casi, come si è detto, la più difficile per la convivenza. Certi gruppi di immigrati, più affini per civiltà o religione al paese ospitante, potranno integrarsi definitivamente senza grandi difficoltà. Altri invece potrebbero, aumentando il loro radicamento nel paese ospitante, sentire crescere la loro diversità. Questo può essere percepito come un arricchimento della società ospitante, se non si concretizza in discriminazione, ghettizzazione economica e sociale. La discriminazione potrebbe non essere tollerata dagli immigrati ormai da lungo insediati, e viceversa, le pretese di riconoscimento degli immigrati potrebbero essere vissute con ostilità dalle popolazioni del paese ospitante, specie dalle fasce sociali più deboli socialmente e culturalmente minacciate dalla concorrenza sul lavoro. Le tensioni e le contrapposizioni frontali tra gruppi etnici e culturali non nascono in un giorno: sono effetto di politiche assenti, o carenti e miopi.
Situazione di polarizzazione etnica potrebbe portare, come contraccolpo, ad un rafforzamento delle tendenze xenofobe e razziste nel nostro Paese, che peraltro già esistono. È una minaccia non sottovalutabile per la nostra società, che va affrontata decisamente per tempo. Il razzismo e la xenofobia sono, come si sa, uno dei principali collanti ideologici dei movimenti fascisti ed autoritari, in molti paesi europei ed anche in America (vedi, per esempio, il caso del Klu Klux Klan nel sud degli Stati Uniti, o del movimento di Le Pen in Francia, o dei neonazisti in Germania) che pesano complessivamente, come fattore di avvelenamento ideologico e culturale generale.
Se osserviamo il fenomeno migratorio da un punto di vista mondiale, vediamo il sommovimento profondo, epocale, che dall’Asia, all’Africa, all’America Latina produce mutamenti imponenti. Oggi mescola popoli e razze, cambia i connotati dell’umanità, realizza nuove sintesi culturali, crea i presupposti di nuove storie. Si tratta di un fenomeno non nuovo, anzi permanente nella storia umana, ma con fasi più intense alternate a periodi di minore intensità. Per restare vicini a noi, basta ricordare che i nostri bisnonni e nonni sono stati protagonisti di un’infinità di dolorose storie di emigrazione in ogni parte del mondo. In Europa, nelle Americhe, in Australia.
Il ministero degli Esteri nel 1995 parlava di 58,5 milioni di oriundi italiani, di cui 38,8 milioni in America Latina, 16,1 milioni in America del Nord, 2 milioni in Europa e 0,5 milioni in Oceania: nel 2000, secondo una stima dello stesso Ministero, il numero dovrebbe collocarsi tra i 60 e i 70 milioni.
I nostri antenati se ne andavano dalla miseria, dalla stagnazione economica e dall’oppressione sociale e culturale che caratterizzava, fino a non molti decenni fa, il nostro Paese o gran parte di esso.
Anche oggi alla base delle emigrazioni ci sono in generale situazione bloccate, conseguenze di oppressioni secolari, come quelle coloniali e postcoloniali, guerre, dittature, persecuzioni etniche o religiose. Ma un ruolo determinante giocano gli squilibri economici, di cui l’occidente è, direttamente o indirettamente, il primo responsabile.
Di fronte a queste imponenti mutazioni le identità sono poste fortemente alla prova. C’è chi vede l’immigrazione nel nostro Paese come una minaccia per la nostra realtà nazionale o locale, per la nostra storia, le nostre tradizioni civili e religiose. Sono posizioni comprensibili, ma deboli. Nessuna rete di confine, nessuna cannoniera a guardia delle coste potrà fermare il flusso dei disperati che, per parafrasare un famoso motto di Karl Marx, “non hanno nulla da perdere se non la loro miseria”, provenendo da luoghi in cui si vive, a causa di guerre od oppressioni e violenze, più pericolosamente che su un relitto abbandonato alle onde, o più precariamente, o con maggiori problemi di sopravvivenza quotidiana di quanto non accada nella vita clandestina di un paese europeo.
Il fenomeno dell’immigrazione ha dei risvolti positivi e negativi per tutti. Non va perciò né demonizzato né esaltato acriticamente. Il principio ideale a cui ispirarsi è quello che afferma la libertà di movimento delle persone, ma appunto la libertà. Non si può dire che i “dannati del mare” o le giovani che passano clandestinamente i confini per i canali delle varie mafie per andare ad ingrossare l’esercito della prostituzione siano persone libere. È evidente anzi che per certi aspetti, da quando gli Europei razziavano le coste atlantiche africane per deportare intere popolazioni nelle Americhe da usare nelle piantagioni in stato di schiavitù, è cambiato qualcosa nella forma, non molto nella sostanza.
Il contesto causale generale entro il quale si producono le migrazioni è oggi quello dello squilibrio economico tra il Nord e il Sud del mondo. Una politica attiva e lungimirante di intervento a sostegno dello sviluppo dei paesi del Sud ridurrebbe in modo significativo i flussi migratori verso i paesi più ricchi. Ma questa deve essere concertata a livello mondiale, venire rivolta insieme allo sviluppo e al ristabilimento delle compatibilità ambientali.
Le megalopoli del terzo mondo costituiscono aggregazioni umane fuori da ogni equilibrio e possibilità di controllo, sono ormai delle vere e proprie metastasi di un cancro ambientale mondiale, oltre che delle catastrofi umane permanenti. Le deforestazioni, che procedono senza sosta negli ultimi “polmoni verdi” del pianeta non possono essere fermate senza un intervento attivo dei paesi ricchi per promuovere in modo alternativo e non nocivo per l’ambiente il miglioramento del tenore di vita delle popolazioni locali. È dimostrato che vi è un rapporto tra benessere, andamento demografico e situazione ambientale: i paesi che raggiungono un certo tenore di vita vedono diminuire rapidamente, anche senza interventi costrittivi, il loro tasso di natalità, cominciano ad acquistare una sensibilità ambientale. Vi è dunque un nesso inscindibile tra sviluppo, ambiente, popolazione, fenomeni migratori a livello mondiale.
Ma all’interno di questo orizzonte problematico globale vi è spazio sia per l’iniziativa di largo respiro della Unione Europea, sia per il nostro Paese, sia, scendendo verso il particolare, per ogni articolazione della nostra società fino ai comuni e ai consigli di quartiere.
Il principio ispiratore generale dell’azione dovrebbe essere quello del risanamento degli squilibri ad ogni livello - poiché questi sono la causa potenziale di tensioni, violenze, instabilità sociale e pericoli politici nel mondo, come nel quartiere - dell’integrazione nel rispetto delle differenze, della promozione culturale di una consapevolezza più adeguata della situazione in cui oggi tutti, residenti ed immigrati, ci troviamo nel mondo della globalizzazione.
Il grande storico Arnold Toynbee diceva che le civiltà si costituiscono come risposte a delle sfide imposte dal loro contesto. Una civiltà cresce fino a che sa rispondere trasformando le minacce potenziali in opportunità positive. Altrimenti decade e muore.
Oggi la sfida è mondiale, ma riguarda anche noi, come Paese e come comunità locali. La lungimiranza e la duttilità con cui affrontiamo e affronteremo il problema degli squilibri del mondo, a partire da ciò che più direttamente ci investe, cioè da quello dell’inserimento nel modo più possibile armonico dei nostri immigrati, non avrà valore transitorio, ma sarà elemento essenziale della nostra futura identità nazionale, la quale non è solo fatta di tradizioni e di passato, ma si plasma continuamente, inglobando nuovi elementi che la modificano in profondità.
Chiudersi, rinunciare ad una sfida che non può eludere, per una civiltà, come per gli individui, vuol dire rinsecchirsi e morire. Aprirsi vuol dire rischiare, ma confrontandosi con i problemi, ricevendo e dando, far crescere i rapporti, vivere. Ma bisogna avere fiducia nelle proprie risorse, nelle capacità di assimilazione, di arricchimento e di espansione della propria identità nel mondo globalizzato. L’immigrazione costituisce uno di quei fenomeni epocali che cambiano l’orizzonte nel quale siamo abituati a sentirci ed a operare. Grazie ad essa forse saremo in grado di conoscere meglio il mondo, ma anche a riconoscere meglio le nostre radici, a guardare più a fondo nella nostra storia, ad avere più consapevolezza di quello che è stata, è e potrà essere la civiltà italiana nel mondo di domani.
È una prova cruciale, che in nessun modo possiamo ignorare o minimizzare. A causa di essa possiamo diventare o migliori o peggiori di quello che siamo: in ogni caso non potremo restare come prima.
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