Bene in vista, in tutte le aule dei Tribunali, campeggia una frase “La legge è uguale per tutti”. Si tratta, in sostanza, di una parafrasi della Costituzione della Repubblica italiana, che all’articolo terzo recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge”. Allora perché, ci chiediamo, esistono ancora i Tribunali militari? Essi rappresentano la punta dell’iceberg di una situazione paradossale ed anacronistica, che vede tuttora in vigore degli appositi Codici militari: quello di pace e quello di guerra. Se giuridicamente una differenziazione tra i periodi di pace e quelli di guerra - pur non accettabile - possiamo comprenderla, non riusciamo a capire perché il legislatore pro tempore abbia addirittura previsto un Codice differenziato per i tempi di pace, quelli in cui tutti i cittadini, secondo la nostra Costituzione, dovrebbero essere giudicati alla pari, cioè dallo stesso Codice e dal medesimo Tribunale. La disparità di trattamento si comprende subito leggendo questi Codici militari: sarebbe, forse, più appropriato dire per i militari, considerata la loro esclusiva funzione; nella vecchia stesura del Codice, infatti, il superiore in grado che infieriva dolosamente sul dipendente era assoggettato ad una condanna di gran lunga inferiore rispetto all’ipotesi opposta. Si viene quasi ad affermare il principio che il superiore in grado sia maggiore anche nell’importanza personale e di fronte alla legge. Questa differenziazione, che la dice lunga sull’intento e sulle finalità del legislatore, con gli anni, per fortuna, è venuta a cadere, rimanendo però inalterata la funzionalità dei Codici militari ad una attività repressiva nei confronti dei soggetti deboli. Soggetti che, sotto altre vesti, i Codici ordinari invece tutelano. Nell’ambito dei Tribunali militari si assiste, tra l’altro, ad una composizione dei collegi giudicanti che vedono, quasi sempre, la presenza di un alto ufficiale e mai un membro della categoria subordinata. Inoltre, in alcuni casi, il magistrato inquirente è una persona che ha prestato servizio, sia pure solo di leva, con il grado di ufficiale, proprio nel Corpo o nell’Arma del soggetto indagato. Questo avviene senza che il magistrato interessato venga, in qualche maniera, costretto da qualche norma ad astenersi per un evidente conflitto di interessi, o comunque di un condizionamento preconcetto.
A questo punto è necessario operare anche un discorso sull’utilizzo che taluni fanno di queste strutture giudiziarie. Un esempio concreto? Accade ormai spesso che i comandanti di alcuni reparti della Guardia di Finanza si dilettino ad utilizzare queste Procure per le loro doglianze personali ovvero per episodi di nessuna o scarsa rilevanza penale. Vengono, infatti, denunciati dei civili che non potranno mai essere indagati e giudicati da quei Tribunali, oppure dei militari che hanno avuto poco riguardo nei confronti dei propri superiori ma che non hanno commesso alcun reato penalmente perseguibile. Si tratta, dunque, di ignoranza da parte di alcuni ufficiali, di volontà di persecuzione o di semplice errore? Non spetta a noi dare una risposta a questa domanda ma possiamo dire con assoluta certezza che alcuni episodi sono congruamente documentati e documentabili e siamo a disposizione di qualsiasi autorità o organismo centrale di controllo che voglia effettuare una verifica, una ispezione per riscontrare se è lecito che i Tribunali militari, e più precisamente le Procure, vengano utilizzate da alcuni soggetti come una sorta di contenitori di doglianze, di cassette postali dove inviare segnalazioni che, nella stragrande maggioranza dei casi, si tramutano in archiviazioni da parte del pm di turno o con il trasferimento ad una Procura ordinaria per competenza, la quale - e sovente è già accaduto - dopo le indagini di rito, procederà ugualmente all’archiviazione. Pensiamo che questa situazione possa essere anche oggetto di un attento esame da parte della Corte dei Conti, per verificare se il denaro investito dallo Stato in queste operazioni sia stato speso con la necessaria oculatezza e sobrietà, doti che dovrebbero caratterizzare le amministrazioni dello Stato. Non si tratta, infatti, dello sprovveduto privato che si rivolge al magistrato non conoscendo a fondo il diritto e i Codici ma, nel caso in specie, ci si trova di fronte a degli ufficiali di Polizia giudiziaria o, addirittura, a dei generali che dovrebbero sapere distinguere tra reato e critica legittima, riconoscendo anche a prima vista l’Autorità giudiziaria competente a cui deve essere inviata l’informativa di Polizia giudiziaria. Per evitare queste incombenze non resta che responsabilizzare, ed eventualmente sanzionare, chi persevera nell’errore: si eviterebbero così inutili perdite di tempo ai magistrati e gli innumerevoli fastidi imposti ai destinatari della denuncia.
Lorenzo Lorusso - Presidente
Movimento Finanzieri Democratici
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