Il nuovo terrorismo vuole richiamarsi nelle sigle e nelle parole a quello di vent’anni fa. Ma anche sulle Br di Mario Moretti permangono interrogativi che non hanno ancora ricevuto risposte soddisfacenti, come mostra, emblematicamente, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro
T, come terrorismo. A chi serve, e a cosa serve? Non solo per cercare il solito, e tanto bistrattato, cui prodest, ma per capire, in superficie e in profondità, i motivi che determinano questo fenomeno, da anni apparentemente sparito per estinzione, e poi rinato con due omicidi che si presentano simili tra loro. Le “nuove” Br somigliano alle Br del passato? Una domanda che ci si pone sotto varie angolazioni. Però, prima occorrerebbe chiedersi a cosa assomigliavano le “vecchie” Br, quali assonanze avevano le loro dichiarazioni d’intenti e le loro azioni.
Sono trascorsi più di ventiquattro anni dall’inizio del “caso Moro”, e a nessuno degli interrogativi posti da quel tragico episodio si è data una risposta esauriente. Dall’agguato in via Fani, il 16 marzo 1978, ai cinquantacinque giorni del sequestro nelle “prigioni” brigatiste del presidente della Dc, all’uccisione di Aldo Moro, ritrovato cadavere nel vano posteriore di una Renault rossa, in via Caetani, al centro di Roma, a qualche decina di metri dalla sede nazionale della Democrazia Cristiana, e da quella del Partito Comunista Italiano. Allusione simbolica alla nuova politica di unità nazionale che Moro si preparava a inaugurare nell’aula di Montecitorio proprio quel 16 marzo. Tutto chiaro, tutto oscuro. A chi servivano, e a cosa servivano le Br di Mario Moretti?
In un’intervista a l’Unità del 6 agosto 1991, Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle prime Br, già in carcere da quattro anni al momento dell’operazione Moro, diceva: “A un certo punto ho cominciato a chiedermi: di chi abbiamo fatto il gioco? I miei dubbi sono cominciati quando settori della Dc hanno cominciato a venire da noi brigatisti nelle carceri. Pensavamo che venissero per cercare insieme di far chiarezza. Invece no: mi sono reso conto che venivano da noi per conquistare silenzi”.
Alla fine del marzo scorso, lo stesso Franceschini, citato dal giornalista Gianni Barbacetto del settimanale Diario (in un articolo titolato “Golpi di pistola”), dichiara: “Le Br negli anni Settanta volevano parlare al movimento. Le loro azioni erano rivolte al potere, ma anche ‘alle masse’, di cui si ritenevano punta avanzata. E i documenti delle vecchie Br fornivano un’analisi del potere, ma anche del movimento. Così i documenti Br dopo i rapimenti Amerio o Sossi, per esempio, davano informazioni sullo scontro sociale in atto. Finito il movimento, le Br hanno deciso la ‘ritirata strategica’. Gli assassini di Biagi, invece, appaiono tutti interni alle logiche del potere: in 26 pagine di farraginose argomentazioni, non dedicano una sola riga al movimento. Del resto, oggi anche la parte più a sinistra dell’opposizione rifiuta i gruppi armati. Luca Canarini li ha definiti ‘terrorismo di Stato’”.
Va detto che questo netto rifiuto non si registrava negli anni sopra citati, quando i cosiddetti “cattivi maestri” (che in realtà nulla avevano da insegnare) flirtavano più che ambiguamente con i terroristi. E aggiungiamo che oggi alcuni di questi “rivoluzionari” d’antan parlano tutt’altro linguaggio. Qualche giorno dopo il mortale agguato di Bologna, con una capriola non insolita fra gli extraparlamentari di estrema sinistra, Oreste Scalzone, ex leader di Potere Operaio e dei Co. Co. Ri. (Comitati Comunisti Rivoluzionari), latitante a Parigi, afferma che le cause dell’uccisione di Marco Biagi si trovano “nelle tematiche del Palavobis”, nel “resistere, resistere, resistere” di Francesco Saverio Borrelli, nelle dichiarazioni di Nanni Moretti e Gianni Vattimo. Un gentile omaggio alla tesi del “clima d’odio”, senza dimenticare il rituale attacco alla magistratura. Su tale punto preceduto da Toni Negri che, nel 1994, subito dopo la prima vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, in un’intervista al Corriere della Sera aveva definito Mani Pulite “un colpo di Stato, un tentativo del Pds di andare al potere”.
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È stato detto che l’uccisione di Marco Biagi è un delitto annunciato, viste le minacce ricevute dal professore, e un delitto reso facile dalla mancanza di una scorta più volte da lui chiesta. La medesima constatazione deve essere fatta per il rapimento di Aldo Moro, che pure una scorta la aveva, ma venne massacrata nell’agguato di via Mario Fani con una rapidità e una perfezione militare che lascia intravedere l’intervento, accanto ai brigatisti, di “specialisti” molto bene addestrati. La Commissione parlamentare di inchiesta istituita sul caso Moro, aveva rilevato che “scarsi e sommari sono risultati i servizi di vigilanza e di prevenzione nella zona in cui abitava l’onorevole Moro e nella quale i terroristi hanno potuto pianificare il sequestro e la strage dopo ripetuti controlli e osservazioni delle abitudini dell’onorevole Moro e dei militari addetti alla sua protezione… assai carente… anche il controllo dei responsabili del servizio scorte del ministero dell’Interno sull’attuazione e la congruità delle consegne e delle istruzioni impartite”.
“Scarsi e sommari”, nonostante i vari segnali che indicavano il probabile bersaglio dei terroristi. Il 15 febbraio 1978, attraverso la “soffiata” di un detenuto del carcere di Matera, la sezione locale dei servizi segreti apprende che è in preparazione il rapimento di Aldo Moro: il generale Santovito, capo del Sismi, dirà più tardi che la comunicazione era giunta alla sede centrale dei servizi da lui diretti solo… il 16 marzo, a sequestro appena avvenuto. Un mese dopo. Sul versante politico, si è poi saputo che dell’eventualità di un attentato a Moro aveva parlato a Bettino Craxi un uomo politico tedesco (probabilmente Helmut Schmidt). E la voce di una prossima azione brigatista contro Moro era filtrata in alcuni ambienti dell’Autonomia (alla quale apparteneva Lanfranco Pace, sodale dei brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda), tanto che alle 8.30 del 16 marzo, dai microfoni di Radio Città Futura, Renzo Rossellini l’aveva data come un evento probabile, considerata anche la concomitanza con il voto alla Camera per il primo governo di unità nazionale. Trascuriamo altri segnali significativi. Però a Moro, malgrado le ripetute richieste del maresciallo Leonardi, addetto alla sua protezione da quindici anni, era stata rifiutata quell’auto blindata che avrebbe reso difficile, e forse impossibile, il rapimento. Anche per dei killer professionisti, e nel commando di via Fani, secondo le successive ricostruzioni, di “esperti” dovevano esservene solo due; e non erano certo brigatisti, dato che l’addestramento alle armi di questi, per loro stessa ammissione, era molto ridotto. E del resto, le loro armi, mitra e pistole, si incepparono subito.
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Dalla perizia giudiziaria sull’agguato di via Fani: “Lo studio topografico e balistico delle traiettorie da parte degli esecutori è stato perfetto, e per lasciare integro Moro, e per evitare l’eventuale ferimento dei complici, con una regola di economia di uomini da manuale”. “Il dubbio sull’effettiva composizione del commando che partecipò all’agguato - scrive Alfredo Carlo Moro, magistrato giudicante, fratello di Aldo, nel suo libro “Storia di un delitto annunciato”, pubblicato nel 1998 - è radicato non solo sul fatto che i brigatisti, come hanno essi stessi riconosciuto, non erano adeguatamente addestrati per una impresa così difficile e sul fatto che erano anche dotati di armi non molto efficienti perché facilmente si inceppavano. Un altro elemento accresce ulteriormente i dubbi: è risultato infatti che su 91 bossoli rinvenuti (altri due appartenevano ad un’arma di un uomo della scorta, l’agente Iozzino) 49 risultano esplosi da un’unica arma, 22 da un’altra, e il resto dalle altre quattro armi impiegate nell’aggressione. C’è stato qualcuno che ha sparato da solo 49 colpi in frazioni di secondo, colpendo con estrema precisione. Costui doveva essere un soggetto di particolare esperienza in questi tipi di agguato, o comunque estremamente addestrato; si tratta dell’individuo che descrive un testimone che ha visto molto bene tutte le fasi dell’agguato. Pietro Lalli, buon conoscitore di armi, ha riferito - secondo la sentenza del primo processo Moro - che questo giovane “esplose due raffiche: la prima, un po’ più corta, a distanza ravvicinata rispetto al bersaglio, la seconda, più lunga, fu estesa a una Alfetta chiara che seguiva la 139 (nella quale si trovavano l’autista Ricci, Leonardi e Moro, ndr) e fu consentita da un balzo indietro dello sparatore che in tal modo allargò il raggio di azione e del tiro. Lo sparatore mostrava estrema padronanza dell’arma. Sparava avendo la mano sinistra poggiata sulla canna dell’arma e con la destra imbracciava il mitra, tirava con calma e determinazione, convinto di quello che faceva”. Nessuno delle figure dei brigatisti noti ha le caratteristiche di ‘professionalità’ che ha posto in luce nell’agguato l’uomo descritto in azione dal teste Lalli, né l’arma da lui usata è stata poi rinvenuta o usata in successivi agguati delle Brigate rosse. È così svanito nel nulla sia il principale autore dell’agguato, che l’arma da lui usata. Era un altro brigatista particolarmente addestrato di cui nessuno osa fare il nome, ovvero si trattava di un killer professionista ‘prestato’ da qualcuno - non si può nemmeno immaginare chi - alle Brigate rosse per essere sicuri che il ‘lavoro fosse fatto a regola d’arte?”.
E si pone un altro enigma, mai spiegato. Tutti quelli che hanno fatto fuoco in via Fani indossavano uniformi di avieri. Una strana scelta, che li ha fatti notare prima dell’agguato da quattro testimoni, e che avrebbe complicato la loro fuga, dato che le divise li rendevano meglio identificabili. Allora, perché? Per riconoscersi tra loro? No, perché si conoscevano benissimo da tempo, e agivano a volto scoperto. “È proprio assurdo, in questa strana situazione, ritenere che le divise vennero adottate perché qualcuno del commando non era perfettamente noto agli altri? Perché così si segnalava che chi stava sparando era uno che perseguiva finalità analoghe e non un estraneo e forse un nemico? È significativo che il superaddestrato era in divisa da aviere (dice il teste Lalli che mentre faceva un salto all’indietro gli cadde dal capo un cappello con visiera di colore blu) mentre secondo Bonisoli (uno dei partecipanti all’agguato ndr) gli ‘avieri’ usarono armi che si incepparono. C’erano ‘avieri’, dunque, che facevano parte del gruppo conosciuto ed erano dotati di armi poco efficienti, e ‘avieri’ che non facevano parte del gruppo noto, che avevano invece armi perfettamente funzionanti ed usate in modo micidiale?”.
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Indovina chi viene a pranzo. Nel 1991, deponendo davanti alla Commissione stragi della X Legislatura, Pierluigi Ravasio, ex agente del Sismi, rivela che la mattina del 16 marzo 1978, in via Fani, alle ore 9, proprio sul luogo dell’agguato (che si era svolto dalle 9.03 alle 9.05), si trovava il colonnello Camillo Guglielmi, ufficiale del Sismi addetto all’Ufficio “R” controllo e sicurezza che aveva tra gli altri compiti quello della protezione di altre personalità politiche. Convocato, il colonnello Guglielmi conferma: “Stavo andando a pranzo da un collega che abitava in via Stresa a pochi passi dal luogo della strage”. A pranzo alle 9 del mattino? Del resto, il collega, anch’egli convocato, dice che quella mattina Guglielmi si era presentato a casa sua verso le 9.10, ma che non era programmato un pranzo, e nemmeno lo aveva invitato a fargli visita. Guglielmi aveva detto al collega che giù in strada doveva essere accaduto qualcosa, e poco dopo “era sceso a vedere”. Secondo Ravasio, il colonnello si trovava in via Fani su richiesta del generale Pietro Musumeci, allora capo dell’Ufficio “R”, che aveva un infiltrato nelle Br, uno studente universitario della facoltà di Giurisprudenza, il cui nome di copertura era Franco. Ravasio aggiunge che nella vicenda dell’agguato di via Fani e del sequestro di Aldo Moro furono implicati membri della Banda della Magliana collegati al Sismi. I legami tra il generale Musumeci, il suo vice colonnello Belmonte, e la banda di malavitosi romani, sono stati confermati nel processo per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980.
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Il 17 marzo 1978, il giorno dopo il rapimento di Aldo Moro, giunge alla direzione della Polizia una segnalazione: in via Gradoli, una traversa di via Cassia, al numero civico 96 vi è un covo delle Br. L’indicazione è più che esatta: in quello stabile, all’interno 11, risiede, con il nome di ingegnere Mario Borghi, Mario Moretti, il capo delle Br, venuto nella Capitale per organizzare l’operazione Moro. Il 18 mattina degli agenti guidati da un brigadiere si recano a perquisire tutti gli appartamenti di via Gradoli 96, tranne uno, l’interno 11, perché, si dirà, nessuno aveva aperto la porta. E perché gli altri inquilini avevano garantito che l’ingegnere Borghi era una “persona irreprensibile”. In realtà due degli inquilini avevano espresso dei dubbi su quanto avveniva in quell’appartamento, scrivendoli in un appunto consegnato agli agenti e indirizzato al vicequestore Elio Cioppa. Il vicequestore (che risulterà affiliato alla Loggia P2 di Licio Gelli) negherà di averlo ricevuto. Da notare che gli ordini emessi dalla Procura erano - nei casi sospetti - di entrare anche sfondando la porta.
Il 4 aprile, nuova segnalazione alla segreteria dell’allora ministro dell’Interno, Francesco Cossiga. Durante una “seduta spiritica”, una sorta di gioco condotto con un piattino da caffè nei pressi di Bologna da un gruppo di professori universitari, tra i quali Romano Prodi, è stata composta la parola “Gradoli”. Il 5 aprile il Capo della Polizia ordina di perquisire le abitazioni di Gradoli, una piccola località in provincia di Viterbo. Quando Eleonora Moro, moglie del rapito, chiede alla stessa Segreteria del Ministero se non potrebbe trattarsi di una strada di Roma, le viene risposto che una via Gradoli non esiste. Però via Gradoli esisterà nuovamente quando, la mattina del 18 aprile, un’infiltrazione d’acqua artatamente provocata (non si saprà mai da chi) fa scoprire il covo-abitazione di Mario Moretti, uscito un paio d’ore prima, con dentro armi, esplosivo, documenti delle Br, divise (una da aviere), appunti vergati dallo stesso Moretti, e un bossolo proveniente da una delle armi che ha sparato in via Fani.
Se a questi elementi si assommano il mancato controllo del brigatista Teodoro Spadaccini, segnalato il 28 marzo, custode della Renault rossa sulla quale il 9 maggio sarà trovato il cadavere di Aldo Moro, e di Enrico Triaca, gerente della tipografia delle Br in via Pio Foà, periodicamente frequentata durante i cinquantacinque giorni del sequestro da Mario Moretti, gli incontri tra Lanfranco Pace, che incontrava dei dirigenti del Partito Socialista, e Morucci e Faranda, bizzarri clandestini che andavano a pranzo in una trattoria dove erano ben noti (mentre i loro nomi figuravano, con foto, insieme a quelli di Moretti, Balzerani e altri, in un manifesto diffuso subito dopo il 16 marzo), gli incontri in pieno centro del gruppo di brigatisti, il fatto che l’appartamento di via Montalcini (una delle “prigioni” di Moro, ma molto probabilmente non l’unica come si è voluto far credere) sia stato controllato fino a poco dopo l’uccisione di Moro, il 9 maggio, ma perquisito solo in ottobre, consentendo alla brigatista Anna Laura Traghetti di fare un lungo trasloco, e poi di sparire, per partecipare ad altri attentati, tra i quali l’assassinio di Vittorio Bachelet, vicepresidente del Csm.
Quando nel 1981 si conoscerà la lista degli affiliati alla P2, si scoprirà che quasi tutti i membri del comitato che, al ministero dell’Interno, dovevano coordinare le ricerche del presidente della Dc durante i cinquantacinque giorni del sequestro, erano affiliati alla Loggia di Licio Gelli: il Capo di stato maggiore della Difesa, il Capo del Sismi, il Capo del Sisde, il Comandante e il Capo di stato maggiore della Guardia di Finanza, il Comandante della Legione Lazio dei Carabinieri. Quanto abbia influito, e in quale direzione, questa predominanza piduista sulla conduzione delle indagini, è stato rilevato in sede di commissioni parlamentare e nei vari processi. Certo, ci si deve chiedere se “qualcuno” abbia approfittato di quelle Br, agevolandone l’azione in diversi modi, per bloccare un progetto politico, e mantenere nel Paese uno stato di tensione. La stessa domanda è lecito porsela in questi giorni, per i nuovi terroristi.
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