Un infermiere dell’Amministrazione penitenziaria è stato costretto a dimettersi perché aveva raccontato ai giudici genovesi le violenze subite dai manifestanti contro il G8 ad opera delle Forze di polizia
Perdere il lavoro raccontando quello che è accaduto a Bolzaneto o perdere il sonno per convivere con i propri rimorsi? È stata questa la scelta che ha dovuto affrontare Marco Poggi, infermiere dell’Amministrazione penitenziaria in servizio presso la caserma di Bolzaneto durante i giorni del G8 genovese. I mezzi di informazione, che hanno acceso i riflettori su di lui quando era un testimone privilegiato, hanno ignorato la sua vicenda umana e personale, ed è per questo che lo abbiamo raggiunto, cercando di capire quali possono essere le conseguenze a cui può andare incontro chi decide, all’interno dell’Amministrazione penitenziaria, di seguire la voce della propria coscienza pagandone il prezzo fino in fondo.
Qual è stato il percorso che ti ha portato a lavorare in carcere?
Prima di entrare in carcere come infermiere ho lavorato per venti anni in manicomio, dove mi sono impegnato per cambiare dall’interno quell’istituzione totalizzante e totalitaria, che toglieva dignità e diritti alle persone ricoverate forzatamente dal questore o dal prefetto.
Anche in quella circostanza ero considerato il “matto” della situazione.
Certe situazioni non mi piacevano, e mi ribellavo pagandone le conseguenze. Tutti mi davano ragione a parole, ma quando si trattava di esporsi con un documento o con una presa di posizione mi ritrovavo spesso da solo. In carcere ci sono entrato per caso, più che altro per la necessità di lavorare, ma una volta all’interno quel lavoro mi ha appassionato, e ci ho dedicato quindici anni della mia vita.
Ho creato un sindacato di infermieri penitenziari per combattere le ingiustizie anche all’interno dell’Amministrazione penitenziaria, e spero che questa storia di Genova porti alla luce tutte le ingiustizie che avvengono all’interno degli istituti di pena, non perché ci siano persone cattive, ma per la natura chiusa e poco trasparente di quell’ambiente. I problemi del carcere non riguardano solo i detenuti, ma anche gli operatori carcerari e gli infermieri, pagati male e trattati peggio. È per questo che insieme ad altri colleghi ho creato questo sindacato, [il Sindacato Autonomo Infermieri, ndr] imparando a vedere sotto un’ottica diversa gli agenti di Polizia Penitenziaria.
All’interno delle carceri c’è un potenziale umano e professionale incredibile, ma purtroppo non viene valorizzato, e ragazzi poco più che ventenni entrano con tanta voglia di fare e di imparare per poi ritrovarsi solamente ad aprire e chiudere un cancello.
Perché hai deciso di raccontare quello che hai visto a Bolzaneto?
Probabilmente dopo Genova mi sarei tirato indietro anch’io come tutti gli altri, ma appena sono tornato a casa la mia vita era cambiata. Ho visto delle cose che non avrei mai ritenuto possibili. Lavorando per l’Amministrazione penitenziaria ho imparato il concetto di legalità, la necessità di essere al di sopra delle parti.
Nonostante i miei 15 anni di lavoro all’interno del carcere, a Genova ho incontrato una situazione completamente nuova. Finora avevo solamente sentito dire che nelle carceri i detenuti venivano picchiati, ma non l’avevo mai constatato personalmente. Quando sono stato convocato dal giudice Pinto in qualità di persona informata sui fatti, ho sentito in coscienza di dover andare fino in fondo.
Nei giorni precedenti all’interrogatorio ho parlato anche con i miei colleghi di questa decisione, e c’è stato un grande dibattito su questo. Molti mi hanno dato ragione, la maggioranza no, e infatti sono stato praticamente costretto a lasciare il lavoro, dopo forti pressioni. Già nel momento in cui stavo firmando le mie dichiarazioni davanti al giudice ero consapevole di firmare la perdita del mio lavoro.
Come è avvenuto il tuo allontanamento dall’Amministrazione penitenziaria?
Lo stesso dirigente sanitario del carcere di Bologna mi ha “suggerito” di andarmene, e la cosa mi ha molto amareggiato perché da lui mi sarei aspettato un trattamento diverso e una maggiore solidarietà contro ogni possibile ritorsione. A parole mi è stata lasciata libertà di decidere se rimanere o no, ma dietro le parole si nascondeva un messaggio chiaro: se rimani lo fai a tuo rischio e pericolo. Onestamente devo dire che se non avessi avuto famiglia sarei sicuramente rimasto al mio posto, e in un modo o nell’altro ritornerò nel carcere di Bologna, probabilmente da sindacalista, ancora più determinato.
Davanti al giudice non ho parlato male di nessuno, non ho enfatizzato nulla, non mi sono inventato nulla, ma ho semplicemente risposto, in scienza e coscienza, alle domande che mi ha fatto il giudice in merito al comportamento dei medici presenti a Bolzaneto, in merito al comportamento degli agenti di Polizia Penitenziaria e della Polizia di Stato. Le cose che ho raccontato al giudice riguardano solo una minoranza, ma a mio parere questa minoranza non avrebbe potuto comportarsi come si è comportata se non avesse avuto la sensazione di essere in qualche modo “coperta” o di non doversi preoccupare troppo delle conseguenze dei propri atti. Queste, tuttavia, sono solo mie supposizioni.
Oltre alla necessità di liberare la tua coscienza da un peso, quali sono state le altre motivazioni che ti hanno spinto ad uscire allo scoperto?
La mia formazione scolastica si limita ad una terza media conquistata alle scuole serali, ma nella mia famiglia ho imparato il senso della giustizia e la necessità di essere vicino ai deboli. Non sono religioso e non credo in Dio, ma credo molto in questo. Io vorrei che la mia testimonianza non fosse fine a sé stessa, ma che possa essere un esempio concreto per dare un senso a tutte le parole sull’onestà e la giustizia che ci sentiamo dire sin da quando eravamo piccoli, mentre diventando grandi ci abituiamo all’omertà e ci troviamo a lottare contro tutti quando proviamo a rompere il muro del silenzio.
Io vengo considerato un eroe o un criminale, a seconda dei punti di vista, ma io non sono né l’uno né l’altro, sono solamente una persona normale che si è indignata e ha voluto raccontare le cose che ha visto. Molti mi fanno i complimenti per il mio coraggio, ma a quello che ho fatto darei il nome di onestà anziché quello di coraggio. Spero che il mio gesto abbia dato un minimo di speranza ai giovani, soprattutto a quelli che erano presenti a Genova.
A proposito dei giovani, mi chiedo che cosa diresti ad uno dei ragazzi che hanno subito le violenze di Bolzaneto...
Direi innanzitutto che è importante rimanere sul terreno della legalità e della democrazia, perché la Polizia non è tutta marcia. La maggior parte è ancora vicina ai cittadini, perché' chi ha picchiato a Bolzaneto erano in pochi, ma se questi pochi non vengono isolati, non vengono perseguiti, non vengono fatti crescere, quei pochi diventeranno molti e quelli che a Bolzaneto si sono trattenuti per paura delle conseguenze la prossima volta potrebbero decidere di imitare i loro colleghi che l’hanno passata liscia nonostante tutto.
A un giovane direi di scendere ancora in piazza, ma insieme alla Polizia, non contro la Polizia. Tutta la rabbia e la frustrazione nate dall’esperienza di Bolzaneto dovrebbero essere incanalate per lottare contro le ingiustizie con una forza che non sia finalizzata a distruggere ma a costruire.
La mia scelta di testimoniare le cose che ho visto a Bolzaneto è stata anche una forma di adesione alla sofferenza di quei ragazzi. Lo dovevo a loro e alle loro famiglie.
Che rapporto hai avuto con i sindacati di Polizia?
Per quanto riguarda il fronte sindacale della Polizia Penitenziaria, il Sappe [Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, ndr] si è rivelata l’organizzazione più ostile nei miei confronti, accreditando l’etichetta di “traditore” che mi era stata appiccicata addosso. Ciò nonostante io nutro una grande stima nei confronti di Capece, [il segretario del Sappe, ndr] perché è una persona onesta che crede con passione in quello che fa, e questo lo riconosco nonostante i nostri pensieri siano agli antipodi.
Mi dispiace di averlo avuto contro in questo particolare frangente, ma per il futuro ho molta fiducia nella sua intelligenza e in quella di molti ragazzi della Polizia Penitenziaria, che sono perfettamente in grado di capire che a Bolzaneto ci sono stati dei colleghi che hanno esagerato. Queste persone vanno recuperate, è verso di loro che bisogna impegnarsi per contrastare il delirio di onnipotenza che a volte può colpire chi indossa una divisa, dimenticandosi che questa divisa non rappresenta un potere, ma una responsabilità dello Stato e del singolo agente nei confronti dei cittadini.
A mio avviso il Sappe avrebbe dovuto avere il coraggio di guardare in faccia una situazione scomoda, anziché tutelare acriticamente i propri colleghi. Purtroppo hanno preferito puntare il dito contro di me anziché colpevolizzare quel piccolo gruppo di incoscienti che ha infangato l’intero Corpo di Polizia Penitenziaria. Io invece voglio che vengano stanati quegli agenti che hanno commesso degli abusi e che venga fatta giustizia per quei ragazzi che sono stati trattati ingiustamente, anche dai medici.
Nessuno si è davvero fermato a riflettere su quello che è accaduto nella caserma di Bolzaneto, non per cercare dei colpevoli o per cacciare qualcuno dalla Polizia Penitenziaria, ma per far capire a queste persone che in qualsiasi situazione chi è espressione dello Stato, e di fatto in quel momento lo rappresenta, non può permettersi di abolire la legalità e i diritti. Tutti sono bravi a parlare di diritti, ma a quei ragazzi è stato tolto ogni diritto, proprio da coloro che avrebbero dovuto essere i primi paladini del diritto.
Al di là di quello che è successo a Bolzaneto, che idea ti sei fatto di quello che è successo a Genova?
Non voglio entrare nel merito di quello che è successo per le strade di Genova, non c’ero, non lo so e non mi interessa. Io so solo che quando una persona, dopo essere stata fermata o arrestata, viene resa innocua e non ha più la possibilità di reagire va sempre rispettata, qualunque sia il reato commesso. I diritti riconosciuti dalla legge non vengono negati a nessuno, nemmeno a pedofili e assassini, e a maggior ragione avrebbero dovuto essere riconosciuti a questi ragazzi, per la maggior parte giovanissimi.
In due giorni di lavoro a Bolzaneto, di quei famosi “Black bloc” non ne ho visto passare neppure uno, ma ho visto tanti ragazzini impauriti. In 15 anni di lavoro in carcere ne ho viste di tutti i colori, e ad esempio mi è capitato di assistere alla prima visita successiva all’arresto di un ragazzo che aveva violentato ed ucciso la sorella minore della fidanzata, e a nessuno è passato per la testa di dargli neppure uno schiaffone. In questi 15 anni mi hanno detto che lo Stato ha il dovere di punire ma non il diritto di vendicarsi, e queste parole mi hanno sempre guidato nel mio lavoro.
Che conseguenze hanno avuto le tue dichiarazioni?
Io non ho detto bugie, ma appena ho rilasciato la mia intervista al Tg3, successiva al colloquio con il magistrato, ho subìto minacce e ritorsioni per quello che ho detto, mentre nulla è stato fatto per fare in modo che non si ripeta più quello che è successo. Forse è questo che mi fa arrabbiare di più, il fatto che da questa esperienza non si sia imparato niente.
Anche dopo essere stato minacciato non ho mai avuto paura, perché ho un grande rispetto dei miei colleghi, che continuo ancora a considerare amici, al punto che nei primi giorni di distacco dal lavoro ho provato una grande commozione quando li incontravo per strada. Purtroppo la Polizia Penitenziaria è sempre stata abbandonata e strumentalizzata al tempo stesso da tutte le forze politiche, che la considerano un Corpo “di serie B” perché sono all’interno delle carceri, mentre invece fanno un lavoro straordinario.
Bisogna essere pronti a denunciare le cose che non vanno, proprio perché la parte buona di questo Corpo di Polizia, che è tanta, va ulteriormente valorizzata e messa in luce. Queste denunce non devono essere fini a sé stesse con un valore puramente giuridico, anche se importante, ma devono servire alla memoria e alla crescita di tutta la Polizia Penitenziaria.
Quali sono secondo te i problemi da affrontare all’interno della Polizia Penitenziaria?
Nonostante tutto quello che è successo, io continuo ad essere affezionato al Corpo di Polizia Penitenziaria, perché è un Corpo fondamentalmente sano. L’unico problema è il forte senso di “gruppo”, la chiusura corporativa e la mancanza di trasparenza. Loro sanno perfettamente quello che è successo a Bolzaneto, e parlando singolarmente con le persone coinvolte non hanno problemi a riconoscerlo e a darmi ragione. Quello che appare inaccettabile all’interno del “gruppo” è che io abbia parlato di queste cose all’esterno. Fuori dal carcere ho avuto molte dimostrazioni individuali di affetto e di solidarietà, ma all’interno della struttura io resto comunque un “traditore” che ha fatto qualcosa di intollerabile.
Quando il Dipartimento di Amministrazione penitenziaria ha disposto una indagine interna per i fatti accaduti a Genova, ho dichiarato di fronte alla Commissione d’indagine del Dap che la mia decisione di uscire allo scoperto è stata presa innanzitutto per un senso di giustizia nei confronti di quei giovani che hanno dovuto subire delle cose innominabili, ma anche e soprattutto in difesa di quelle migliaia di poliziotti che con onestà e dedizione fanno il loro lavoro, nonostante la presenza di un piccolo gruppo di persone che io continuo a definire delinquenti.
Per raccontare la tua esperienza, dopo aver parlato con il magistrato, hai deciso di scrivere al Comitato parlamentare d’indagine. Ti ritieni soddisfatto dalle conclusioni a cui è giunto il Comitato?
Ho seguito alla radio i lavori del Comitato parlamentare d’indagine, e l’impressione che ne ho ricavato è che ci sia stata la voglia di insabbiare tutto. Possono esserci stati degli errori, ma perché vergognarsene? Dobbiamo invece parlarne per fare in modo di non ripetere quegli errori.
Mi chiedo ancora perché non mi abbiano convocato per una audizione orale davanti al Comitato parlamentare d’indagine. Forse non lo hanno fatto perché il mio racconto avrebbe avuto un peso diverso da quello del ministro Castelli, che il 6 settembre, anziché adoperarsi per fare piena luce sui fatti e sui tempi di attesa nella caserma, ha avuto il coraggio di dire “sono trent’anni che lavoro nelle fabbriche ed i metalmeccanici per 35 anni lavorano in piedi dalla mattina alla sera; ebbene, non li ho mai sentiti lamentarsi”.
(a cura di Carlo Gubitosa)
L’autore di questo articolo sta raccogliendo materiali per un libro sui fatti di Genova. Chi fosse interessato a mandare testimonianze potrà rivolgersi all’indirizzo e-mail carlo.gubitosa@tiscali.it o telefonare al 349.22.58.342.
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