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aprile/2002 - Interviste
Immigrazione
Miserabili che fuggono dal loro paese
di Alessandra Cardinale

Si tratta di povera gente costretta dalla fame e dalla povertà a lasciare la propria patria. Ma in Italia, spesso, diventano manovalanza della criminalità

Iulia, 33 anni, partita da Bucarest in pullman con altri 70 clandestini, dopo aver pagato 1600 dollari all’“agenzia di viaggio”. Bènone, 23 anni di un paesino vicino Tirana ha dormito per 6 mesi sotto un ponte e per altri 6 nei treni della stazione Tiburtina di Roma. C’è poi Misha, ucraina di 20 anni, che è rinchiusa nel carcere di Rebibbia.
Queste sono storie di uomini e donne. In molti suscitano sentimenti di comprensione e di solidarietà, soprattutto in chi, per le proprie convinzioni politiche o per i propri sentimenti religiosi, crede davvero al valore della fratellanza e della solidarietà.
Dall'altra parte ci sono però le statistiche, che ci dicono che su 18.645 persone arrestate tra gennaio e aprile del 2001, quasi il 38% sono extracomunitari. Il reato più diffuso è il furto: su 5.481 arrestati il 44,5% sono extracomunitari.
I commissariati della Polizia di Stato e le stazioni dei Carabinieri hanno proprio tra gli extracomunitari i propri frequentatori abituali. E tutto questo crea un clima di insicurezza e di paura, in parte giustificato, ma in parte enfatizzato da chi vuole strumentalizzarlo per propri fini politici. E, in una situazione di diffusione dei lavori precari e di paura per il posto di lavoro, questi immigranti che si offrono a basso costo possono anche venir guardati come se fossero dei "crumiri".
A pensarci sopra un po' meglio si capisce che tutto questo è naturale: si tratta di povera gente, che è costretta dalla fame e dalla povertà a scappare dal proprio paese (a volte da persecuzioni politiche o religiose). Vengono nel nostro Paese per lavorare, come fecero molti italiani emigrando in America, in Australia e nell'Europa del Nord.
Ma non tutti lo trovano il lavoro e in questo che a loro pare il regno di Bengodi molti si trovano nella necessità o cadono nella tentazione di trovare nell'illecito qualcosa di cui vivere. Su ciò si innesta poi la criminalità organizzata straniera, specie quella che vive organizzando il traffico di stupefacenti, di prostitute e di armi e che trova la manovalanza in queste masse di diseredati sradicati dal loro paese natale. Anche questo è accaduto agli emigranti italiani: anche loro hanno affollato le carceri dei paesi stranieri e anche loro hanno dato vita ad organizzazioni mafiose, specie negli Stati Uniti. Ma la stragrande maggioranza, invece, ha grandemente contribuito al progresso del paese che li aveva ospitati.
Facciamo il punto della situazione. Il 28 febbraio 2002 è stato approvato dal Senato della Repubblica, con 153 sì, 96 no e due astenuti, il nuovo testo di legge sull’immigrazione che modifica in modo sostanziale le norme della legge Turco-Napolitano, di soli quattro anni fa, introducendo misure molto più rigide.
Gli extracomunitari non potranno più venire in Italia per cercare un’occupazione ma potranno entrare nel nostro territorio solo con un contratto in tasca. Il ministero dell’Interno fissa annualmente il numero di immigrati extracomunitari ammessi a prestare la loro opera nel nostro Paese. Potranno entrare soltanto i lavoratori che saranno “richiesti” da un imprenditore oppure da una famiglia, i quali debbono rivolgersi ad uno sportello unico che sarà presente in ogni Prefettura. In via telematica lo sportello sarà collegato ad ambasciate e consolati, che raccoglieranno le richieste degli stranieri: entreranno gli stranieri in lista, per il cui profilo c’è una domanda.
Questa norma ipotizza, insomma, che vi siano datori di lavoro disposti ad assumere persone che non conoscono e delle quali nulla sanno, stipulando con loro, alla cieca, contratti anche abbastanza impegnativi. È facile prevedere che i datori di lavoro disposti a far questo non saranno molti. Il collocamento per chiamata numerica è stato abolito per i lavoratori italiani, figuriamoci se può funzionare per lavoratori che vengono da paesi lontani.
Ma il nostro Paese ha bisogno di lavoratori immigrati: la nuova legge è quindi destinata, con tutta probabilità, ad essere violata e quindi a creare nuove aree di illegalità e nuovi fenomeni di sfruttamento dell'illegalità.
Il disegno di legge affronta lo spinosissimo problema delle espulsioni. La riforma Bossi-Fini non prevede il reato d’immigrazione clandestina, almeno per chi viene espulso la prima volta. Ma il reingresso di chi sia stato espulso viene ora considerato un reato molto grave. Basti pensare che lo straniero espulso che venga trovato illegittimamente nel territorio italiano è ora punito con una pena che può arrivare fino a quattro anni di reclusione: una pena più grave di quella massima prevista ora per il falso in bilancio, dopo le modifiche apportate con la legge 3 ottobre 2001 n. 366.
Uno dei punti più criticati di questa riforma è sicuramente quello che riguarda l’utilizzo della Marina Militare contro gli ingressi clandestini per svolgere compiti di polizia, di ispezione e di deterrenza, anche in acque extraterritoriali. Le navi militari potranno così fermare, ispezionare e sequestrare i natanti utilizzati o coinvolti nel traffico di clandestini.
Questa misura sembra dettata dalle stesse idee che ispiravano le parole dello “sceriffo” Giancarlo Gentilini, sindaco leghista di Treviso, nel febbraio 2002, secondo cui “siamo in guerra, usiamo dunque mezzi di guerra: anche un colpo di bazooka, i gommoni vanno distrutti”.
Il fatto è che non è una guerra. E una guerra contro questi diseredati sarebbe davvero qualcosa di poco conforme al nostro onore nazionale, oltre che a quello militare. Si tratta invece di operazioni di polizia, che sono cose molto diverse, che richiedono tecniche, culture ed esperienze diverse, modalità diverse e limiti diversi.
Non so quanto sia conforme alla tradizione militare affidare compiti di polizia ad una Forza Armata, diversa dai Carabinieri. Quello che molti pensano è che si tratta di una misura piena di rischi. Tutti ricordano un evento verificatosi il 27 marzo 1997. Era il venerdì Santo. La nave albanese “Kater I Rades” affonda dopo una collisione con una corvetta della Marina Militare italiana: si salvano in 34, mentre quattro persone sono già morte nel momento in cui vengono tirate fuori. Nell’ottobre successivo, dopo il recupero del relitto, sono estratti altri 52 corpi.
Vi sono coloro che denunciano la mancanza di chiarezza del testo. Gianandrea Gaiani, direttore della rivista on-line Analisidifesa.it ritiene che bisogna dire se si tratta di una licenza di abbordaggio, con possibilità di fuoco, o se si dovrà soltanto identificare le navi. “Il pericolo – spiega Gaiani – è che non vengano specificate le regole di ingaggio, e quello che non viene scritto rischia di essere affidato alla libera interpretazione”.
Il fatto è che affidare operazioni di Polizia ad una Forza Armata può forse soddisfare il desiderio di spettacolarizzazione che è proprio della politica di oggi, ma non serve a risolvere i problemi ed anzi li aggrava.
Un'operazione di polizia richiede una specifica professionalità, una cultura tattica e strategica, un addestramento specifico, che le Forze di polizia hanno e che le Forze Armate, invece, non hanno e non possono avere.
E quando si fa una cosa senza essere stati addestrati a farla, i guai sono dietro l'angolo.

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