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aprile/2002 - Interviste
Intervista
Una esperienza significativa
di Paolo Andruccioli

Parla Raffaele Minelli Segretario dello Spi-Cgil. Ecco che cosa potrebbe determinare nei prossimi anni la riduzione dei contributi previdenziali

Il problema delle pensioni è tornato di stretta attualità con la delega previdenziale del governo Berlusconi. Dopo le due grandi riforme degli anni Novanta, ora si torna a parlare di previdenza complementare, ma soprattutto di modificazione dello schema della previdenza pubblica. È un tema che interessa tutti i cittadini, non solo i pensionati. Per questo abbiamo intervistato il segretario dello Spi-Cgil, Raffaele Minelli.
Minelli che cosa pensa della proposta di ridurre i contributi previdenziali per i nuovi assunti? È una misura che avrà una qualche incidenza sulla stabilità del sistema pubblico?
Il nostro sindacato è contrario alla proposta di ridurre i contributi, ma non è una posizione isolata la nostra, dato che le critiche su questo punto sono venute anche dai sindacati pensionati della Cisl e della Uil e da tutte e tre le confederazioni Cgil, Cisl, Uil. L’intento del governo è quello di abbassare il livello della contribuzione ed è un punto molto delicato per gli equilibri finanziari del sistema; perché naturalmente un abbassamento di quelle dimensioni provoca una drastica riduzione delle entrate per l’Inps. Da alcuni studi abbiamo potuto desumere una cifra quantificata intorno ai 15/20mila miliardi. Questa cifra peserà sulle casse e non può non produrre un deficit crescente dell’ente e quindi un deficit per lo Stato. Si rischia di mettere in pericolo gli equilibri del sistema a ripartizione (ovvero basato sul pagamento di chi sta in pensione con i contributi di chi sta ancora al lavoro).
In un sistema a ripartizione come il nostro, un deficit crescente di questa portata da parte dell’ente previdenziale, non potrà che riflettersi anche sulle “prestazioni in essere” (ovvero le pensioni che vengono pagate e non quelle potenziali). D’altra parte non è che siano mancati in passato interventi sulle pensioni reali. E anche questa volta non è vero che le prestazioni siano al riparo da interventi negativi. Basterebbe pensare che già negli anni scorsi, ad esempio, i governi sono intervenuti depotenziando in modo graduale e continuo, la capacità di copertura dall’inflazione e il collegamento all’andamento delle retribuzioni, per capire che sono praticabili misure con effetti molto negativi sulle prestazioni. E qui, secondo me correttamente, Cgil, Cisl e Uil, in questo caso unitariamente, dicono che questo elemento è un elemento che va assolutamente bloccato.
La decontribuzione, come si dice in termini tecnici, mette dunque a rischio l’intero sistema previdenziale o almeno i suoi equilibri?
Esattamente. La posizione dei sindacati riguarda espressamente alcuni punti della delega previdenziale. E la parte sui contributi è centrale nel giudizio generale sull’intera operazione. Io credo anche che nelle intenzioni del governo non ci sia un errore di calcolo. Non si sono sbagliati. Seguono invece un discorso che tende ad abbassare il grado di copertura della previdenza pubblica, il “tasso di sostituzione” garantito dalla previdenza pubblica. Come sappiamo la riforma Dini, già oggi a regime, rispetto all’ultima retribuzione ha un tasso di sostituzione intorno al 55-60%. In una situazione di questo tipo, in cui il calcolo della prestazione con la legge Dini viene fatto praticamente con un sistema che anche se è virtuale, però ti collega all’effettiva retribuzione, abbasserebbe ulteriormente il grado di copertura.
Si può spiegare ai nostri lettori che cosa significa “grado di copertura” o “tasso di sostituzione”?
Per tasso di sostituzione si intende questo: se io prendevo 100 lire, quando andrò in pensione ne prenderò 60 o 70. Significa che avrò un reddito mensile da pensione di 60, invece di un reddito mensile da lavoro di 100. E naturalmente nell’equilibrio complessivo quando fu fatta la riforma, si diceva che la previdenza complementare va favorita, incentivata anche fiscalmente e che dovrebbe subentrare per coprire e integrare quella parte dello stipendio che invece viene perso. Ora, le intenzioni, secondo me, più o meno esplicitate del governo attuale sono queste: abbassare notevolmente il grado di copertura del primo pilastro, come si dice, ovvero della previdenza pubblica, quella garantita dall’Inps, Inpdap, dai grandi enti, per favorire notevolmente l’espansione della previdenza complementare, non tanto di quella di tipo negoziale, ma addirittura di quella di tipo privata. Non a caso si tende a mettere sullo stesso livello i fondi chiusi e i fondi aperti. Metterli sullo stesso piano, abbassare notevolmente il grado di copertura di quella pubblica, costringe di fatto le persone a delle scelte. Crea le condizioni per cui questo mercato possa espandersi e, naturalmente, secondo me, con l’intenzione di favorire, in particolare, non tanto i fondi di tipo negoziale, ma soprattutto quelli privati: le grandi case di assicurazione e le banche. Questo è un po’ lo schema che riguarda tutta questa faccenda.
Ma c’è veramente bisogno di intervenire sul sistema previdenziale italiano?
Secondo me no, nel senso che, al di là di alcune questioni di manutenzione ordinaria e di correzione delle questioni di liquidità che ancora permangono nell’assetto complessivo, ormai, il sistema previdenziale pubblico, come è uscito dalla riforma, è tra quelli che meglio di altri, a livello europeo è in grado di affrontare i grandi cambiamenti in atto nel mondo del lavoro. Infatti questo lo riconoscono tutti, e la cosa incredibile di questo Paese è che avendo effettuato una riforma da questo punto di vista, avanzata, in grado di reggere e di correggere l’andamento negativo che avevamo verificato a causa dei parametri demografici e delle tante iniquità che caratterizzavano l’arcipelago delle pensioni prima della riforma del 95, avendo fatto queste scelte di fondo, non l’abbiamo mai difesa a sufficienza. Si può anche aggiungere che la lettura negativa anche degli organismi sovranazionali (il Fondo monetario per esempio), nei confronti della previdenza italiana, secondo me sono anche il risultato di un’incapacità di far leggere con attenzione le caratteristiche della riforma. Questo, ripeto, non significa che non c’erano degli elementi di correzione da mettere in campo, ma certamente bisogna difendere con maggior vigore l’asse riformistico.
L’idea del governo sembra però ora quella di rivedere a fondo gli equilibri tra il primo pilastro, il secondo pilastro e la previdenza privata.
Dal punto di vista pratico e dal punto di vista politico è interessante questo discorso perché ci fa capire anche perché si spinge molto sui fondi pensione. Ma a parte questo, dal punto di vista dei lavoratori, il governo non dice che taglierà le pensioni, dice solo che riduce i contributi. Come stanno le cose?
Il ministro Maroni da questo punto di vista, ha fatto anche una mossa propagandistica dicendo addirittura che avrebbe certificato le condizioni dei lavoratori. Ogni lavoratore avrebbe avuto certificato il diritto che aveva acquisito ai fini della pensione. Ma non è tanto questo. Il problema è che sono parole al vento, perché ripeto, in un sistema a ripartizione, per cui le prestazioni in essere vengono pagate dai contributi, se le entrate vengono notevolmente abbassate si verifica uno squilibrio. Siccome la richiesta fatta con forza dalla Cisl, di dire esplicitamente che doveva corrispondere alla decontribuzione un intervento sul fisco, tutto ciò non è stato messo nella finanziaria. Quindi potremmo essere di fronte a questo scenario: diminuiranno le entrate e in conseguenza le uscite, non avendo la copertura, dovranno essere abbassate.
Quindi è presumibile, che se passasse la delega, si abbasseranno i contributi, ma dopo un po’ si potrebbe verificare anche un intervento diretto sulle pensioni?
Esattamente, sulle pensioni, e qual è il modo meno clamoroso di altri? È da un lato, ad esempio, rendere più vincolanti eventualmente le verifiche reddituali, faccio per dire, le reversibilità legarle in modo più stringente al reddito, oppure indebolire ulteriormente il meccanismo della scala mobile. Nell’ultima legge finanziaria del precedente governo di centro-sinistra abbiamo ottenuto per i pensionati un miglioramento rispetto al grado di copertura del costo della vita. Adesso la nostra preoccupazione è che quel miglioramento si possa indebolire. Oppure, la cosa che loro invece dicono è credere nella grande scommessa di un boom dell’occupazione nei prossimi anni e quindi in uno sviluppo delle entrate perché ci sarà più gente che lavora.
È un argomento molto delicato. Basta pensare all’esempio dell’emersione del lavoro nero. Su questo piano si registrano dati incredibili perché in tutto questo periodo sono emerse pochissime decine di imprese. Per cui, allora, l’intervento messo in atto, era uno dei punti della cosiddetta manovra dei 100 giorni, l’emersione non sta dando assolutamente risultati a dimostrazione che insomma c’è una reale vischiosità. Anche perché se non si mette in campo anche un forte intervento di tipo ispettivo, sul territorio, secondo me non si arriva da nessuna parte. No, non bastano quegli incentivi, per cui per ora non sta emergendo nulla. Lo sviluppo dell’occupazione in grado di coprire questo abbassamento della contribuzione, secondo me, è fuori da quelle che sono oggi le previsioni dell’andamento del Pil. Nessuno di noi può essere così miope da non vedere che immaginare un Pil che superi il 3%, in questo caso sarebbe in grado di garantire uno sviluppo dell’occupazione corrispondente, non lo dice più nessuno, anzi le previsioni sono al ribasso. Per questo insomma la questione è un po’ preoccupante.
È sempre difficile fare previsioni e dal momento in cui facciamo questa intervista ai prossimi mesi possono succedere tante cose che cambiano il quadro. Ma fatta questa premessa, che cosa si può realisticamente prevedere a proposito delle leggi delega?
Secondo me il governo ha fatto degli errori. Non si sono resi conto che sull’articolo 18 e le pensioni non si toccano diritti di poche persone, ma si ha la sensazione che si mettano in gioco i diritti di tutti. Si mette in gioco il diritto alla sicurezza, alla sicurezza economica dei soggetti e la certezza dei diritti di chi lavora. Nel senso che essere tranquilli nel posto di lavoro, protetti da arbitrari interventi del datore di lavoro, è un elemento importante, ti da tranquillità. Lavorare sapendo che se, al tuo datore di lavoro un giorno gli gira storto e ti può cacciar via, si immagina il senso di instabilità psicologica. Così come sulla pensione: dire che il sistema è di nuovo sottoposto ad interventi, non piccoli ma strutturali, crea di nuovo un’aria di insicurezza e, secondo me, l’errore che sta facendo questo governo, è che su platee molto alte, lavoratori e pensionati, con interventi di questo tipo si fa crescere l’insicurezza. L’insicurezza, da questo punto di vista, secondo me, è fondamentale anche per modificare gli atteggiamenti elettorali, per cambiare anche il rapporto in settori che sono stati fortemente accarezzati, lisciati per il pelo, da Berlusconi, in particolare se penso ai pensionati. Tutta la vicenda della promessa di un milione al mese ha avuto dei risultati positivi.
Il combinato disposto di una promessa di questo tipo produce comunque effetti, anche elettorali. Bisogna anche considerare che tra i pensionati il governo attuale ha riscosso un certo successo in campagna elettorale proprio per le promesse fatte. Anche tra i nostri iscritti, tra gli iscritti al sindacato ci sono pensionati che hanno votato per Forza Italia. Si è calcolato che una percentuale dello Spi, dal 10 al 15% ha votato per questo governo. Ma come si comporteranno questi elettori la prossima volta? Soprattutto se le promesse non verranno mantenute?
E a proposito di promesse non mantenute possiamo pensare al caso delle pensioni minime da aumentare a un milione al mese. Il governo si è mostrato molto nervoso per la scarsa rispondenza che l’operazione pensioni minime ha avuto. Ci sono state polemiche sui ritardi e sul fatto che solo una parte dei pensionati che avrebbero dovuto beneficiare dell’aumento lo hanno effettivamente avuto. Ci sono stati anche moltissimi pensionati che non hanno neppure risposto alla lettera dell’Inps perché il governo chiedeva loro tutta una serie di documentazione sul reddito. Ma moltissimi avevano appena percepito l’aumento deciso dal governo del centro sinistra e quindi magari per 30 mila lire al mese in più avrebbero dovuto produrre tutta una serie di incartamenti e magari alla fine ci avrebbero anche rimesso in termini fiscali perché magari qualcuno risulta proprietario della propria abitazione. Comunque sia, il caso delle pensioni minime dimostra un certo nervosismo da parte del governo e non è certo un fatto che ci possa tranquillizzare.
(Inervista a cura di Paolo Andruccioli)

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