La guerra è un’esperienza che consideriamo sempre lontana. Roba di altri. Ecco perché Gino Strada ha deciso di andare in Afghanistan
La guerra è un fenomeno da sempre mitizzato nella epopea del coraggio e del sacrificio, considerata da alcuni “igiene del mondo”, da molti quanto meno una manifestazione antropica ineluttabile. Per la sua natura estrema, nella quale la vita e la morte si incontrano, quello della guerra è pensiero apparentemente familiare, in realtà difficile da intendersi. Suscita sentimenti ed emozioni contrastanti, profondamente radicate nella psiche umana. Ma in generale si ritiene che gli uomini non ne possano fare a meno.
La posizione di Emergency, associazione nata sette anni fa per assistere le vittime delle guerre nelle diverse parti del mondo, appare su questo autenticamente innovativa. E’ che la guerra nasce da un errore prospettico, da una lontananza ed estraneità nei confronti di essa anche di chi crede di conoscerla bene.
La lontananza non è solo un fatto fisico. Chi decide una guerra in genere ne sta fisicamente lontano, nei palazzi dei governi. Ma si possono anche avere davanti, come i giornalisti inviati sul campo, scene di orrore innominabile di guerra senza effettivamente essere entrati davvero dentro la guerra, perché il pensiero non si ferma veramente su ciò che si vede, ma slitta subito oltre. Ogni fatto, ogni orrore viene riferito a ciò che può significare entro schemi astratti di relazioni geopolitiche elaborati a Washington, a Mosca, alle Nazioni Unite o a Pechino, rispetto agli equilibri mondiali o alle politiche nazionali.
Perciò la guerra è un fenomeno tanto clamoroso e comune, quanto in realtà incompreso. Raramente gli uomini hanno il coraggio, come pare sappia fare Emergency, di fissare direttamente “negli occhi” questo Cavaliere dell’Apocalisse.
Per i guerrieri omerici la guerra era il naturale compimento del destino: impossibile sottrarvisi. L’anima omerica non vive la guerra come frenesia vitale, come per esempio invece avviene in certe manifestazioni letterarie del nostro medio evo cavalleresco, ma come accettazione pensosa e malinconica della sorte, che la superiore necessità che tutto domina, riserva all’uomo. Al momento della morte degli eroi, come Patroclo o Ettore, c’è un dio a guidare la mano dell’uccisore. L’anima omerica vede la guerra dal punto di vista dell’accettazione del destino mortale dell’uomo, il quale passa sulla terra “come le generazioni delle foglie”.
Le esaltazioni epiche delle battaglie dei racconti medievali non si soffermano molto a quanto segue all’istante iniziale dell’ebbrezza dello scontro in battaglia, dell’esaltazione per la esibizione della forza e del coraggio. Lo spettacolo dei corpi sparsi, il lezzo dei cadaveri, il lamento disperato dei feriti sul campo per giorni e giorni, dopo l’esaurirsi della furia bellica, raramente vengono evocati nei versi dei poeti che cantano la guerra.
Nel settecento la guerra era ancora sentita come occasione di onore per i nobili, e di sbarcare il lunario per i poveri. Nell’ottocento la guerra delle nazioni aveva sostituito la guerra dei re. Clausewiz formulava la sua famosa definizione della guerra come “continuazione della politica con altri mezzi”. Con questa affermazione il più grande dei polemologi negava però alla guerra una essenza propria, la riduceva ad intermezzo e a variazione sul tema della politica. Il nazionalismo ha poi elevato la guerra a fulcro del culto della patria. La guerra diviene nel corso dell’ottocento il banco di prova dei destini dei popoli, il cemento delle nazioni. Nel novecento queste idee raggiungono la loro più estrema attuazione negli imperialismi, nei fascismi, che hanno provocato due guerre mondiali, distruzioni incalcolabili, milioni e milioni di morti.
Oggi noi viviamo la guerra nel tempo che segue l’epoca delle potenze. L’età del mondo “globalizzato”. L’ultimo, più grande scontro tra schieramenti di potenze, conclusosi nel 1989, è stato principalmente ideologico e sostanzialmente incruento. Il mondo, dopo di quello, è più unito che mai, ma solo nel senso che la coabitazione tra i popoli è diventata più stretta. Non solo perché siamo di più, ma anche perché tutto ciò che è lontano ci viene avvicinato dalla presa in diretta televisiva. La guerra ce l’abbiamo davanti agli occhi tutti i giorni, con una valanga di notizie. Ma ciò di per sé non ci fa fare un solo passo verso la comprensione della sua natura. Oltre tutto è la notizia come tale che oggi è meno coinvolgente. Anche quella più clamorosa, che ci perviene “in tempo reale” dallo schermo televisivo, non ha nemmeno lontanamente l’impatto che poteva avere, per esempio, l’annuncio, riportato di bocca in bocca, da una strada ad un’altra da un balcone ad un vicolo dalla gente, della vittoria della flotta cristiana sui Turchi a Lepanto. Le notizie a noi giungono troppo presto e, per così dire, ci attraversano.
Tra coloro che alla natura della guerra si sono avvicinati di più c’è sicuramente Tolstoj, il quale in pagine memorabili di Guerra e Pace ha messo in luce la realtà insensata, assurda di essa. La guerra, dice Tostoj vista da dentro, è caos. Da vicino, a viverla in prima persona, non solo fisicamente, ma anche con lo spirito non distratto, non proteso verso altro, è uno sfascio, una distruzione di relazioni, di ricchezze, di intenti, di sentimenti e di risorse senza limiti. E’ distruzione di tutto quanto è umano, ma soprattutto è umiliazione fisica dei corpi, che nella guerra sono massacrati,feriti, martoriati, ridotti a grumi tremanti di dolore.
Per comprendere la guerra, pare che intenda Gino Strada, animatore di Emergency, bisogna farne esperienza dall’interno, e questo interno, senza uscita, è il dolore innominabile delle vittime.
L’esperienza della fisicità miserabile dei corpi maciullati, del sangue, dell’orrore delle mutilazioni, della lancinante sofferenza fisica, insopportabile, di questo uomo, di questo bambino, segnati per sempre, come termine ultimo non riconducibile ad altro senso - politico, ideologico, o che sia - che si fa negli ospedali messi in piedi in zone impossibili dai “chirurghi di guerra”, come lo stesso Gino Strada chiama se stesso e i suoi collaboratori: questo è la guerra “svelata”, vista dall’interno. Non i numeri, non le astratte statistiche della distruzione e delle morti, che pure, lette sui nostri giornali, provocano in noi un qualche sussulto.
Nella guerra globale ad alta tecnologia, dei bombardieri che partono da una altra parte del mondo per scaricare le loro bombe dall’altra, su paesi di cui i loro piloti ignorano tutto, che tornano poi alle loro basi senza avere visto neanche uno schizzo di sangue, una casa distrutta, un bambino mutilato per sempre, sembra che la lontananza dalla reale natura di essa sia infinita, l’estraneità perfetta. Ma questo è solo una faccia della medaglia.
Il mondo unificato o, come si dice, “globalizzato”, vive un unico tempo e un unico spazio. La notizia della vittoria di Lepanto o di quella di Waterloo giungeva dopo giorni o settimane, era viva, muoveva gli animi della gente come oggi niente, nemmeno la visione in diretta dell’attentato alle Torri – che tra l’altro abbiamo avuto l’imbarazzante sensazione di avere già visto in un film – riesce a fare. Ma era ormai lontana nel tempo. Anche le notizie di Stalingrado o di Dien Bien Fu, che arrivavano molto più presto, provenivano comunque da un fronte, lontano nello spazio. La gente ancora non andava a studiare a Berkeley, a passare il fine settimana a Londra, a fare le vacanze di Pasqua a New York, l’inverno ai Caraibi o alle Maldive. Oggi il mondo è unificato nel tempo e nello spazio. Sempre più ciò che capita ad una popolazione di uomini in un certo luogo è come se accadesse nell’unico teatro dell’umanità, o almeno ad un'altra scala dello stesso condominio. La tecnologia rende tutto insieme infinitamente lontano e vicino. Allo stesso tempo capita ad altri uomini e all’Uomo in generale, quindi anche a noi. Possiamo benissimo estraniarcene, ma non possiamo esimerci, allo stesso tempo, di sentire che potremmo anche non estraniarci, di sentirci responsabili della nostra estraneità.
Emergency non è solo un’associazione di soccorso che ha riaperto l’ospedale di Kigali, nella Ruanda devastata dalla guerra civile, o ha impiantato un ospedale a Choman, un villaggio al confine con l’Iran, su un territorio reso inabitabile dalle mine disseminate ovunque dall’esercito iracheno dopo la guerra del Golfo, o in Cambogia, dove si occupa delle vittime della guerra e delle mine, che nel 1999 ha aperto un intervento di soccorso in Afghanistan, con un ospedale a Kabul che è stato l’unico a funzionare anche durante la fase più intensa dei bombardamenti americani dopo l’11 settembre. Vuole anche aiutarci, con la sua campagna di sensibilizzazione, a vedere la guerra finalmente in modo non rassegnato: in altro modo.
Ora forse è più possibile che in passato.
La globalizzazione è qualcosa come l’incontro di tutti i popoli della terra, provenienti da luoghi lontani e da tante strade diverse, di storie e di civiltà, ad un unico crocevia. Certo non ci arrivano tutti nelle stesse condizioni: ci sono i vincenti, i ricchi, gli arroganti, e i diseredati, gli sradicati e gli sconfitti. E’ certo anche che questo incontro sta provocando e provocherà incomprensioni, attriti e scontri a non finire. Ma resta il fatto che le storie dell’umanità si sono incontrate, che questo è un fatto senza precedenti per l’umanità che non può non avere come effetto sul modo di percepire i problemi, come quello della guerra, che pure accompagnano l’uomo da sempre. Ogni guerra, per il fatto di essere immediatamente conosciuta da tutta la platea dell’umanità tende a diventare la guerra, a caricarsi cioè di significato generale, per tutti gli “animali aventi ragione”, come Aristotele definisce gli uomini. Abbiamo ora la guerra davanti a noi, la vediamo nello stesso momento, tutti e a ciascuno. Ci interroghiamo sulla sua parte nella condizione umana.
Possiamo continuare a subirla, identificandola con il nostro destino di mortali, ma possiamo anche non rassegnarci più. L’uomo è mortale, questo è il suo destino. Ma la guerra non è la morte, non è destino. E’ anzi, forse il mondo meno degno di vivere la condizione della mortalità.
Questo ci pare in sostanza il messaggio di Emergency, che lo attua dedicandosi a combattere soprattutto un aspetto, forse il più tremendo, perché più ignobile e insensato, delle guerre che insanguinano tanti paesi. Quello degli effetti sulle popolazioni dei milioni di mine antiuomo che sono state disseminate in tanti anni di guerra in diverse parti del mondo.
Guerre finite e forse già quasi dimenticate possono continuare a perpetuare la loro maligna esistenza grazie a questi ordigni, in una logica di pura vendetta contro la vita. L’Italia in passato è stata una delle principali produttrici di questi strumenti perversi di distruzione.
Ma in questa loro insensatezza efferata le mine antiuomo mettono in luce la intima essenza della guerra, che non è un semplice intermezzo, doloroso ma necessario, per giungere a qualcosa di buono, ma una opzione di morte fine a se stessa, che colpisce in genere i più deboli, quelli che la guerra non la hanno decisa. Secondo le analisi del Peace Research Institute di Oslo, citate da Strada e confermate direttamente dalla sua esperienza, il novantatre per cento dei feriti di guerra sono civili. Il trentotto per cento sono bambini al di sotto dei quattordici anni .
Le guerre, qualcuno ha detto, cominciano per ragioni che alla loro fine nessuno ricorda più. C’è qualcuno che si è ricordato alla fine della prima guerra mondiale dell’attentato di Sarajevo, in cui perse la vita l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria, che pure la aveva scatenata, dopo il macello di milioni di uomini in cinque anni di guerra? O, da noi, delle “alcune migliaia di morti” che servivano al Duce nel 1940 per sedersi da vincitore, a suo dire, al tavolo della pace della seconda guerra mondiale? Le guerre sono cominciate sempre da chi non pensa ai loro effetti reali, ma a “dopo” di esse. Poi questi stessi, o più frequentemente altri, soprattutto civili che non hanno deciso niente, si trovano loro malgrado intrappolati in una logica, della guerra, che non hanno mai davvero previsto,voluto, compreso.
Negli ospedali di Emergency ciò che le guerre effettivamente producono e lasciano in eredità indelebile si vede, si sente, si tocca con mano, come in tanti ospedali di guerra in ogni tempo. Ma non c’è più la subordinazione mentale alla guerra, non c’è più la rassegnazione. Più le ferite vengono curate, più cresce la indignazione, la ripulsa verso ciò che le ha provocate. Curare i corpi è allora anche un risvegliare gli spiriti, di chi è curato, ma anche di chi cura, dalla rassegnazione.
Ad occhi non rassegnati alla loro ineluttabilità le guerre appaiono per quello che sono: vicoli ciechi in cui si cumula la furia distruttiva fino a che non si è autoconsumata; opzioni autoreferenziali di morte. Emergency non si limita solo a curare i corpi martoriati dalle guerre e dalle loro vendette postume. Né solo a creare strutture di riabilitazione per i mutilati, di formazione per il personale locale che sostituirà il personale volontario dell’associazione che prima o poi se ne andrà. Unisce a tutto questo l’azione di sensibilizzazione, contribuisce a impedire che sul fenomeno della guerra la nostra coscienza, confondendosi, continui a rassegnarsi. Ci aiuta ad aprire gli occhi. Il dolore umano è una potenza che può condurre a fondo nella comprensione della natura delle cose. Sembra che Emergency, raccogliendo e curando tanto dolore, abbia colto qualcosa di nuovo: che non la pace, ma la guerra è la vera illusione.
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Che cos’è Emergency
Emergency è un’associazione creata nel 1995 che ha come scopo l’aiuto e l’assistenza medica alle popolazioni colpite dalle guerre nelle diverse parti del mondo, tra cui Afghanistan, Ruanda, Kurdistan iracheno, Cambogia, Sierra Leone. Attualmente gestisce 7 ospedali e 25 posti di pronto soccorso. Migliaia sono gli interventi chirurgici operati dai medici dell’associazione, decine di migliaia i pazienti assistiti in ambulatorio. In particolare Emergency è impegnata nella riabilitazione di persone che hanno subito menomazioni a causa di esplosioni di mine antiuomo. Inoltre l’associazione è impegnata, in Italia, nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle guerre, dispone di una rete di referenti sul territorio, cura la pubblicazione del quadrimestrale “Emergency”, reperibile presso le Librerie Feltrinelli, Il Libraccio, Mel Bookstore Mondadori.
La sede centrale si trova a Milano, tel. 02 76001104 – Fax 02 76003719 .
I contributi possono essere versati sul c/c postale 28426203 o sul c/c 6700 CAB 01600- ABI 5584 della Banca Popolare di Milano, Piazza Meda, Milano o sul c/c 713558 CAB 01600 ABI 5387 della Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Agenzia di Milano. Visitando il sito Internet www.emergency.it si possono consultare le pubblicazioni di Emergency, chiedere informazioni sull’associazione, le sue attività, i suoi progetti, leggerne lo statuto, esaminarne il bilancio, iscriversi, compiere donazioni, diventare sostenitori, acquistare libri.
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