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aprile/2002 - Interviste
Grandi Processi
Quel bacio a Palermo
di Toni Baldi

La Procura generale ha chiesto 10 anni di reclusione per Giulio Andreotti. In ballo i rapporti tra la mafia e l’uomo che è stato per sette volte Presidente del Consiglio

Lo scorso 14 marzo, la procura generale di Palermo ha chiesto la condanna di Giulio Andreotti a 10 anni di reclusione nel processo d’appello in cui il già sette volte Presidente del Consiglio è imputato per concorso in associazione mafiosa. Secondo la tesi sostenuta dal sostituto procuratore generale, Anna Maria Leone, la quale insieme a Daniela Giglio rappresenta la pubblica accusa, Cosa Nostra considerava Giulio Andreotti come “referente” e veniva “tollerato perché indispensabile per l’annullamento della sentenza del maxi processo”. In primo grado, il senatore a vita era stato assolto dal reato contestatogli ai sensi del secondo comma dell’articolo 530 del Codice penale, dai più letta come una insufficienza di prova. Una sentenza di assoluzione che era stata fortemente criticata dai pubblici ministeri i quali, nel luglio del 2000, avevano predisposto il ricorso in appello e nell’aprile successivo, a supporto delle loro argomentazioni avverso il verdetto, avevano depositato ulteriori 138 pagine di motivi aggiuntivi. Secondo Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, rappresentanti la pubblica accusa nel processo di primo grado, la Corte d’Assise presieduta dal giudice Francesco Ingargiola avrebbe infatti “operato un’inammissibile frantumazione, un’isolata considerazione e una consequenziale svalutazione degli elementi di accusa”. Per Scarpinato e Lo Forte, i quali avevano chiesto la condanna a 15 anni nei confronti del senatore a vita, la Corte d’Assise avrebbe poi disapplicato e stravolto le regole di giudizio sul piano della verifica concreta in materia di valutazione della prova, delle condotte punibili e della configurabilità del concorso eventuale nel reato di associazione mafiosa.
I giudici del Tribunale di primo grado, i quali nella sentenza di assoluzione avevano scritto che Andreotti era stato uno degli “artefici di norme che scongiurarono la scarcerazione di esponenti mafiosi”, sono stati criticati duramente anche dai rappresentanti la pubblica accusa in appello. “Andreotti – ha detto nel corso della requisitoria Anna Maria Leone – si limitò a non ostacolare le misure antimafia, assumendo una posizione neutra”. A tale proposito, il magistrato ha citato le dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Giovanni Brusca, secondo il quale Andreotti voleva rifarsi una verginità antimafia perché sospettato di collusioni con Cosa Nostra. “Secondo i boss – ha aggiunto la Leone – alcune leggi erano considerate ‘leggi manifesto’: le uniche che diedero fastidio furono, in particolare, il decreto Martelli del marzo del ’91. Ma anche dopo il decreto Martelli, il boss Riina, pur manifestando insofferenze verso Andreotti, aveva continuato ad insistere con i cugini esattori Salvo a parlare con Andreotti per chiedere l’interessamento al maxi processo”. A detta del sostituto procuratore generale, “Andreotti aveva subito i provvedimenti antimafia, non li aveva proposti. E l’atteggiamento di Cosa Nostra verso Andreotti era di tipo giustificatorio, in relazione ai sospetti di collusione con la mafia”.
Nel corso della requisitoria, la pubblica accusa ha affrontato anche l’episodio più controverso del processo a carico dell’ex Presidente del Consiglio: il presunto bacio che Andreotti e il boss Totò Riina si sarebbero scambiati nell’autunno dell’87 a casa dell’esattore della mafia Ignazio Salvo.
“L’incontro tra il senatore Giulio Andreotti e il boss di Cosa Nostra Totò Riina è avvenuto – ha sostenuto il sostituto Daniela Giglio – Il pentito Di Maggio ha detto la verità perché questo incontro è stato confermato da un elemento estraneo, emerso per caso nel corso del processo di primo grado”. Il magistrato fa riferimento a Paolo Rabito, uomo di fiducia dei Salvo, che secondo il racconto di Di Maggio sarebbe stato presente all’incontro tra Andreotti e Riina. Una circostanza sempre smentita da Rabito. “La sua reticenza processuale – secondo l’accusa – è la prova autonoma e il riscontro logico e definitivo che Di Maggio ha riferito la verità. Il pentito di San Giuseppe Jato non avrebbe mai chiamato in causa Rabito, pregiudicando la sua stessa attendibilità”. A riprova della tesi sostenuta, il sostituto Giglio ha ricordato la telefonata intercettata nell’aprile del ’93 tra lo stesso Rabito e la madre, quando i due hanno parlato di un servizio televisivo andato in onda sul Tg2 in cui veniva fatto riferimento al presunto bacio tra Riina e Andreotti e alla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del senatore a vita.
Il sostituto procuratore generale si è poi soffermato a lungo sulla data del presunto incontro tra Andreotti e il boss di Cosa Nostra Totò Riina. “L’attenzione dell’accusa – ha spiegato Daniela Giglio – si è fermata sul 20 settembre dell’87. Quel giorno Andreotti era a Palermo per partecipare alla Festa dell’Amicia ed ebbe la possibilità di allontanarsi in maniera riservata dall’hotel Villa Igea, andare a casa di Ignazio Salvo e ritornare in tempo utile per essere intervistato dal giornalista Alberto Sensini e poi intervenire alla Festa dell’Amicizia alle 18,41”. Il magistrato ha ricordato che il Tribunale di Palermo “ha escluso che l’incontro possa aver avuto luogo proprio quel giorno, perché l’orario indicato da Di Maggio, cioè tra le 15,30 e le 16,30, è incompatibile con quello indicato dal giornalista per l’intervista. Ma le dichiarazioni del giornalista sono state smentite da diverse circostanze”. Il sostituto procuratore generale ha riletto, quindi, le dichiarazioni rese in aula nel ’97 dal giornalista Alberto Sensini. “I suoi ricordi – ha sottolineato Daniela Giglio – sono deboli e incerti. Una lettura attenta della deposizione dimostra che il teste non ricorda nulla e in più riferisce circostanze smentite da altri testi. Assumere, come ha fatto il Tribunale, come certe quelle dichiarazioni equivale a una forzatura dei risultati processuali. Dalla deposizione – ha aggiunto – si rilevano ricordi essenzialmente inesistenti. È una vera forzatura assumere come certo l’orario indicato da Sensini, invece le risultanze processuali tendono a dare ragione all’accusa, secondo cui l’orario in cui è avvenuta l’intervista è intorno alle 17,00 e non prima. Quindi, Andreotti ha avuto tutto il tempo necessario per poter raggiungere l’abitazione di Ignazio Salvo e incontrare il boss di Cosa Nostra Totò Riina”.
Al termine della requisitoria, i difensori di Giulio Andreotti hanno dichiarato che in sede di arringa riusciranno a dimostrare l’assoluta inesistenza dell’accusa nei confronti del senatore a vita. “Questo appello rafforza la nostra tesi – ha dichiarato l’avvocato Giulia Buongiorno, uno dei difensori di Andreotti – perché definisce i collaboratori ‘smemorati’, colti da improbabili ‘lapsus’ e talvolta ‘poco precisi’”. La difesa ha annunciato, infine,che parlerà per 12 udienze. Pertanto, la sentenza d’appello si avrà presumibilmente dopo l’estate del 2002.

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