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aprile/2002 - Interviste
Terrorismo e servizi
Guerra? No disinformazione
di Gianni Cirone

Sotto il concetto di “necessità” si nascondono spesso vere e proprie manipolazioni degli eventi. Così aumenta solo la confusione. Gli ultimi casi dell’Fbi e della Cia

Informazione di guerra: strano concetto di “necessità”. Gli eventi, lo squilibrio palese in cui sta versando l’assetto politico di buon parte del pianeta, le contrapposizioni carsiche che mostrano all’opinione pubblica solo la superficie di magistrali prove di forza, tutto questo (ed altro ancora) rischia di non aver più alcun luogo espositivo se non affluenti cronache, oggettività minimaliste, e una costellazione di menzogne. Ebbene, sull’informazione, la partita che i servizi segreti di mezzo mondo stanno oggi giocando sembra solo all’inizio, mentre si può solo sorridere in faccia a chi, innamorato dell’utopia democratica, continua a chiedere a gran voce il rispetto di semplici garanzie e un minimo di regolamentazione da ritenere condivisa e inviolabile. Ma, niente: vige l’era della contro-informazione, della disinformazione sino ad ogni limite possibile. Si parta dall’indagine che, venduta in internet dal sito www.intelligenceonline.com, è stata fatta propria dal giornale francese Le Monde: obiettivo, una pista possibile per gli attentati dell’11 settembre 2001.
Gli Usa, tanto più Israele, all’inizio tacciono sulla vicenda. La notizia però è di quelle grosse, ma grosse: negli Stati Uniti sarebbe stata intercettata un’enorme rete di spie israeliane. La fonte? Appunto la suddetta rivista informatica, indicata come “specializzata”: Intelligence Online. Per il quotidiano francese Le Monde, in queste ultime settimane nel Nuovo Continente sarebbero state fermate o espulse 120 presunte spie appartenenti ad Israele. Le Monde dedica alla vicenda un lunghissimo articolo d’indagine, con una teoria di fondo: vi sono elementi per pensare che le spie israeliane avessero, tra l’altro, il compito di tenere d’occhio i futuri kamikaze dell’11 settembre, e dunque ipotizzare che gli Usa sarebbero stati tenuti all’oscuro delle informazioni raccolte.
La storiella si basa su un servizio del canale televisivo americano Fox News che, a dicembre, ha investigato sulla questione e poi ha ritirato il materiale diffuso dal sito internet, dopo una serie di proteste da parte israeliana. Le Monde ha tentato di ottenere una cassetta della puntata del programma “Carl Cameron indaga”, dedicata all’intercettazione della rete di spionaggio israeliana. Il canale tv, però, ha fatto sapere che “c’è un problema al riguardo”. L’inchiesta di Cameron si concentra proprio sulla possibilità che Israele potesse sapere in anticipo del piano per l’11 settembre, ma anche su un’attività di sottrazione di informazioni ai danni di società e agenzie americane. Fox News, insomma, arriva alla conclusione che non vi sono le basi per sospettare un’implicazione diretta del governo israeliano, “anche se ci sono indagini top secret in corso” e anche se sei delle spie avevano un telefono cellulare acquistato da un ex vice-console israeliano negli Usa.
Molte delle giovani spie israeliane (alcune sarebbero ancora nelle carceri statunitensi) avevano trascorsi militari in un’unità di intelligence dell’esercito israeliano. Si sarebbero interessati soprattutto a funzionari della Dea (agenzia anti-droga), altro elemento considerato a supporto della pista dei kamikaze. Perché? La Dea sarebbe continuamente sulle tracce di denaro riciclato e da riciclare, settore “contiguo” ai finanziamenti illeciti per organizzazioni terroristiche.
Per Intelligence Online, si tratta del più clamoroso caso di spionaggio israeliano ai danni degli Usa, da quando l’ufficiale Jonathan Pollard fu arruolato dalla Difesa israeliana per fornire documenti di intelligence relativi a paesi arabi. Altro collante con l’11 settembre? Più di un terzo delle giovani spie viveva ad Hollywood, proprio come vari kamikaze di quell’attacco terroristico.
Inizialmente, alle accuse provenienti dalla Francia nessuno, Fbi, Dea, Servizi di Immigrazione Usa, se la sente di offrire un proprio commento. In seguito, con una certa lentezza, arrivano le prime smentite. Un vasto schieramento di esponenti statunitensi si adopera, a questo punto, per definire la falsità della notizia. “Questa sembra essere diventata una leggenda metropolitana - afferma la portavoce del Dipartimento di Giustizia Usa Susan Dryden - e al momento non abbiamo informazioni che diano sostanza alle notizie su studenti d’arte israeliani coinvolti in attività di spionaggio”. Alcuni esponenti Usa sottolineano che le accuse appaiono frutto delle teorie di un agente della Dia (Dipartimento Anti-droga Usa). L’agente avrebbe reso pubblico un suo rapporto scritto contenente le sue tesi. Il rapporto è apparso prima sul sito francese specializzato in informazioni segrete, appunto Intelligence Online, e poi sul quotidiano francese Le Monde. Sembra che Fbi e Cia abbiano preferito non tenere in considerazione la teoria del predetto agente ed egli, quindi, si sarebbe vendicato facendo pubblicare le sue tesi.
Il portavoce del servizio di Naturalizzazione e Immigrazione Usa, Russel Bergeron, rivela che nei primi nove mesi del 2001 decine di israeliani intorno ai 20 anni di età sono stati arrestati ed espulsi dal paese perché lavoravano senza permesso. “Si è trattato di casi di routine - precisa Bergeron - non sono a conoscenza di azioni di spionaggio legate a queste persone”.
Ma, come spesso accade in queste vicende, dopo le iniziali smentite dell’Fbi, sempre dagli Stati Uniti giungono anche le prime conferme alla notizia. A confermare la storia, ma non i presunti legami con l’attacco agli Usa dell’11 settembre 2001, sarebbe la Drug Enforcement Administration (Dea), l’agenzia federale antidroga, che insieme all’immigrazione (Ins) ha provveduto a fermare e poi espellere, dall’inizio del 2001, decine di israeliani che, presentandosi come studenti d’arte, hanno cercato di accedere ad edifici governativi americani. Secondo una relazione della Dea, il comportamento dei giovani israeliani negli Usa faceva pensare “ad un’attività organizzata di raccolta di informazioni”. Nessuna accusa di spionaggio, però, appare essere stata contestata formalmente ai presunti studenti, che sono stati arrestati in varie località nel corso del 2001: Dallas, Chicago, San Diego e alcune città della Florida.
La questione, comunque, non è per nulla semplice. Anche perché la Dea rende noto che molti tra i giovani arrestati hanno ammesso di aver avuto esperienze e contatti in passato con l’intelligence militare israeliana. Una delle persone interrogate, tra l’altro, risulterà essere il figlio di un generale a due stelle in Israele, di un altro si paleserà l’attività di guardia del corpo del comandante dell’Esercito israeliano e di un terzo si verrà a sapere che ha svolto il servizio militare occupandosi di missili Patriot.
La questione diviene bollente. Una portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Yaffa Ben-Ari, su richiesta di diversi organi d’informazione statunitensi definirà “senza senso” le ipotesi che gli studenti fossero impegnati in attività di spionaggio in Nord America. Punto e basta? Ma nemmeno per sogno.
Il giornalista francese che per primo ha pubblicato la notizia dello smantellamento di una rete di spie israeliane operato dagli Usa, respinge le smentite dell’Fbi. “La smentita dell’Fbi - afferma Guillaume Dasquie, direttore di Lettre d’Intelligence Online - è contraddetta dai fatti. I ragazzi israeliani non avevano problemi di visto, come sostengono ora le autorità Usa. La maggior parte degli israeliani espulsi o arrestati, erano registrati come studenti d’arte, ma secondo il ministero della Giustizia Usa, si trattava di agenti del Mossad (servizio segreto esterno israeliano). Noi siamo in possesso dei documenti con notizie di ruoli e gradi ricoperti dagli israeliani nell’esercito e abbiamo le date di scadenza del visto dei loro passaporti”. Punto a capo.
Negli stessi giorni, in cui si sta per palesare la predetta vicenda, ecco emergere un altro rapporto, questa volta messo a punto dalla Cia dopo l’11 settembre 2001, in cui si dipinge la famiglia reale saudita come una monarchia fragile, esposta nel lungo termine a grossi rischi di instabilità. È la prima volta, in questo caso, che fonti Usa offrirebbero spunti così palesi nei riguardi dell’alleato saudita. Il documento, si afferma, potrebbe portare a una svolta nella politica degli Stati Uniti verso il paese arabo, la cui corruzione e le cui commistioni con il fondamentalismo islamico sono state finora tollerate in cambio dell’accesso alle sterminate scorte petrolifere.
A riportare lo scenario è il Boston Globe, citando fonti anonime interne all’intelligence americana. A quanto se ne sa, il rapporto della Cia non preannuncerebbe alcuna crisi a breve, ma affermerebbe in maniera inequivocabile che la monarchia soffre di un pericoloso “isolazionismo” nei confronti della popolazione saudita, un elemento che farebbe nascere “seri dubbi circa la sua stabilità sul lungo periodo”. Il regno, inoltre, sarebbe afflitto anche da altri gravi problemi, che se disattesi potrebbero minacciare gli interessi vitali degli Stati Uniti nel Medio Oriente. Al di là di queste notizie, comunque, il problema più grave che il governo Usa si trova ad affrontare è quello dello stretto rapporto tra la monarchia saudita e le autorità religiose del paese, arroccate su posizioni tipiche del fondamentalismo islamico. La casta religiosa dei Wahabi, la stessa da cui proviene culturalmente Osama Bin Laden, ha fornito al palazzo reale la legittimazione necessaria a governare, ma in cambio ha avuto carta bianca nella sua opera di proselitismo contro l’Occidente. In alcune moschee, scuole e persino sui mezzi di comunicazione pubblici sauditi non è per nulla raro udire richiami alla guerra santa contro gli “infedeli” statunitensi. Da quando, 50 anni fa, il presidente Franklin D. Roosevelt ha accettato di difendere il reame saudita in cambio dell’accesso ai pozzi petroliferi, gli Stati Uniti hanno chiuso entrambi gli occhi su questa gigantesca contraddizione, ma i 15 giovani sauditi che l’11 settembre 2001 hanno guidato gli attacchi contro le Torri Gemelle e il Pentagono (su un totale di 19 dirottatori) li hanno costretti a riaprirli. E non finisce qui.
Altri gravi problemi minacciano la famiglia reale. Una diffusissima corruzione, giunta a livelli tali che persino il principe Abdullah ha dichiarato pubblicamente che la cultura dell’eccesso che caratterizza i 30mila membri della famiglia reale deve finire, casi documentati di mancato rispetto dei diritti umani e una sorta di “apartheid sessuale” ai danni delle donne. “È tempo - afferma Edward Walker, ex assistente del segretario di Stato - di riconoscere che la monarchia saudita ha un problema. Se non espandono la loro base di consenso oltre la famiglia reale e non riprendono il controllo sul sistema educativo, i reali si troveranno in seri guai”.
Sembrerebbe che l’amministrazione americana stia valutando il rapporto con estrema cautela, dati i cruciali interessi in ballo. Oltre alle scorte petrolifere saudite, che costituiscono il 25% di quelle mondiali, vi sono in ballo anche forniture militari per 4 miliardi di dollari l’anno e il ruolo di alleato strategico del governo di Riyadh. I saudita ospitano attualmente 5mila soldati Usa. Non tutti, del resto, sono convinti delle conclusioni del rapporto. Frank Anderson, dirigente della Cia, ritiene che la famiglia reale saudita stia effettuando una lenta ma costante opera di ammodernamento del paese, e pressioni esterne per un’accelerazione del processo creerebbero solo il rischio di una reazione simile a quella che in Iran sfociò nella rivoluzione islamica.
Queste due vicende indicano insomma quanto, nell’ambito dell’informazione, la guerra delle notizie stia sempre più prendendo corpo, di pari passo con l’escalation delle armi. Si faccia inoltre attenzione all’esternazione che il governo Usa ha fornito in merito ad una campagna di voluta “disinformazione”, o “controinformazione” che dir si voglia, stabilita come strategia ormai accettata ed instaurata dagli addetti ai lavori statunitensi. Un modo per palesare che, se i nemici, i terroristi, chi li appoggia, mettono in atto la circolazione di notizie false, anche l’amministrazione di Washington accetta la stessa sfida e produrrà la stessa campagna. Nel dichiarare ciò, però, emerge una enorme contraddizione: quali saranno, a questo punto, le fonti, aperte o chiuse, da considerare attendibili? Come può una democrazia come quella statunitense fornire un alibi così pacchiano a chi intende attaccarne la politica e l’operato? Come si sa, infatti, l’operatività dell’intelligence sussiste e può essere accettata solo a patto che rimanga “segreta” e, in nome di un bene comune, agisca per la difesa della sicurezza. Che cosa significa palesarne gli strumenti? La prima impressione è quella di una grande debolezza che intende mettersi in scena secondo la logica di un “virtuale patto comunicativo”. A questo punto, però, si rischia il decadimento dei parametri di valore che, nell’ambito di un regime democratico, dovrebbero costituire il fondamento dell’agire di uno stato e del suo governo. E, se questo è uno millesimale spaccato internazionale, in Italia possiamo dire che vada tutto bene?
Dal silenzio che i sue servizi di intelligence nostrani praticano in questa fase sembrerebbe di sì. Certo, questo silenzio va interpretato. Chi invece preferisce trattare certe questioni (facendolo apparentemente senza mezzi termini) è l’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. Secondo lui, infatti, in Italia c’è la possibilità che sia in atto una azione di “disinformazione, intossicazione e influenza nei confronti del nostro Paese” da parte dei servizi segreti spagnoli. Cossiga è così afflitto da tale rovello al punto da interrogare il governo affinché si accerti la verità. In un’interpellanza al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, al ministro della Difesa Antonio Martino e al ministro incaricato del coordinamento dei servizi di informazione e sicurezza Franco Frattini, l’ex presidente della Repubblica italiana chiede di sapere “se non ritenga opportuno attivare i nostri servizi di controspionaggio, politico e militare, e di sicurezza interna per accertare se non vi sia in atto da parte del Cesid (il servizio di intelligence, di controspionaggio e di sicurezza politica del governo del Regno di Spagna) un’azione di disinformazione, di intossicazione e di influenza nei confronti del nostro Paese, anche tramite la sede di Madrid dell’Agenzia di stampa italiana associata (Ansa) o anche per altre vie, ed altresì adottare le opportune misure di contrasto e di neutralizzazione”.
Bella domanda. Vien da chiedersi: ma l’attuale governo spagnolo non è un franco alleato di Palazzo Chigi? E, inoltre: il pericolo è tale da ipotizzare un influenzamento della più importante agenzia di stampa italiana, l’Ansa, appunto?
Vien da credere che nel gioco delle informazioni e controinformazioni ristabilire certi parametri sarà come cercare un ago in un pagliaio. In nome di chissà quale “necessità”.

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