L’arresto di un gruppo di nordafricani sarebbe legato, secondo gli inquirenti, al progetto di un attentato alla sede diplomatica Usa a Roma, utilizzando i cunicoli sotterranei delle condutture. Ma i legami con Osama Bin Laden, e le basi afgane di Al Qaeda, restano solo ipotetici
Nove marocchini da una parte, tre irakeni, un pakistano, un algerino e un tunisino dall’altra: tutti a Roma, tutti arrestati con l’accusa di essere membri di un’organizzazione terroristica islamica. Forse non della stessa, e comunque gli inquirenti non hanno ancora nominato la famigerata Al Qaeda , ma si sa, o si crede di sapere, che la rete diretta da Osama Bin Laden ha diverse facce. Del resto, si sospetta che uno dei due gruppi avesse come obiettivo l’ambasciata americana a Roma, in via Veneto, e chi è il grande nemico dell’America se non lui, lo Sceicco Nero?
Sarebbero stati i marocchini, installati in due appartamenti – in via Buscemi e via Sava – alla periferia della capitale, a preparare l’attentato alla sede diplomatica Usa. Said Ikbal,37 anni, in Italia da dieci anni, Zindine Tarik, 35 anni (considerato uno dei capi del gruppo), Mohamed Khayali, 33 anni, ambulante,Mohamed Ikbal, 44 anni, proveniente da Parigi, Aziz Jmile, 32 anni, cuoco,Redanane Rijaoui, 30 anni, ambulante, Charifi Faical,23 anni, calciatore, Yassine Zekrey, 21 anni, stilista diplomato, Fatene Hassan, 30 anni (un altro capo). “Indagati perché agendo in concorso tra loro, e con finalità di terrorismo, detenevano Kg 4,400 circa di ferricianuro di potassio qualificabile quale aggressivo chimico… Indagati per aver partecipato ad un’associazione avente finalità di terrorismo specificamente costituita per compiere atti di violenza anche indiscriminati utilizzando l’aggressivo chimico di cui al capo precedente… A carico dei predetti vigono inequivoci e gravi elementi di responsabilità costituiti dal rinvenimento in luogo occulto, a via Buscemi 36/A, del’ingente quantitativo di ferricianuro e documentazione riproducente siti della città, in particolare quelli dell’Ambasciata Usa e dei cantieri di Acea, Enel, Telecom e Italgas; dal rinvenimento da parte della Digos di piantina stradale con indicazioni sull’ambasciata della Gran Bretagna; dal collegamento tra i due gruppi rappresentato da una missiva rinvenuta in via Buscemi…”: così l’atto di accusa della Procura di Roma.
Resta l’interrogativo su ciò che i supposti terroristi avrebbero voluto, e potuto, fare. E se sarebbero stati loro ad agire, o altri più esperti venuti a Roma in un secondo tempo. L’ipotesi è che si progettava di provocare un’esplosione in uno dei cunicoli che servono di passaggio ai tubi di Acea, Telecom e Italgas, tre metri sotto il manto stradale all’angolo tra via Boncompagni e via Lucullo. Utilizzando 10 chilogrammi di polvere pirica, ricavati da “botti” di Capodanno, rinvenuti in una delle abitazioni degli arrestati, e il ferricianuro. L’effetto avrebbe potuto essere una nube tossica sprigionata all’esterno, con risultati difficilmente prevedibili. Funzionari del Dipartimento di Stato e dell’Fbi sono accorsi a Roma da Washington per partecipare alle indagini, e ai controlli dei passaggi sotterranei attorno all’Ambasciata, dove sono state rilevate tracce “sospette” di scavi.
Si può supporre che gli arresti abbiano bloccato in tempo un pericoloso attentato? In realtà i marocchini sono stati fermati dai carabinieri di Roma Centro nel quadro di un’indagine sulla criminalità spicciola, senza alcun riferimento al terrorismo. Mentre il Sisde, che da qualche tempo controllava il gruppo in collaborazione con la Digos, avrebbe preferito attendere di risalire a personaggi più importanti. Stando così le cose, sembra molto improbabile che gli arrestati sarebbero riusciti a portare a termine una qualsiasi azione.
Detto ciò, messe a parte le “incomprensioni” tra gli organismi preposti alla sicurezza (cosa che accade nelle migliori famiglie, come insegnano i rapporti non sempre “fraterni” tra Cia e Fbi), la vigilanza è di rigore. E nella lotta a un terrorismo i cui connotati sono spesso mal definiti, un arresto sbagliato è certo meno dannoso di una bomba termobarica.
Il secondo gruppo, catturato pochi giorni dopo la retata dei nove marocchini, è accusato di associazione a delinquere finalizzata al terrorismo e al traffico d’armi “costituita in Roma e in collegamento con omologhi gruppi operanti in altre città e in altri Stati”. L’organizzazione “favoriva l’ingresso in Italia degli associati, trasmetteva loro direttive, ordini, e tutte le informazioni riguardanti l’organizzazione eversiva”, forniva “ai partecipanti il sostegno finanziario e logistico… secondo regole di compartimentazione interna ed esterna”. Il supposto capo, Ahmad Naseer, 39 anni, pakistano, assiduo frequentatore della moschea Al Harmini di via Gioberti, proprietario di una piccola agenzia di viaggi, è stato preso all’aeroporto di Fiumicino, al ritorno da un pellegrinaggio alla Mecca. Arrestati anche il suo socio Mansur Ben Kalifa, detto Naim, 33 anni, tunisino, Goumri Chihab, 30 anni, algerino, e tre irakeni, Faysal Salah, 25 anni, Ahmad Isa, 22 anni, Ali Hemin, 29 anni.
Le indagini, seguite dal Nucleo operativo dei Carabinieri, erano iniziate nel maggio 2001, quando, sia in Europa che negli Stati Uniti, era ancora lontano l’allarme per il terrorismo islamico. Indagini iniziate con una perquisizione in casa di un algerino, che non è tra gli arrestati, in via Palos, e il rinvenimento di ventisei video-cassette sul conflitto in Cecenia, e su manifestazioni del Fronte islamico algerino, oltre a un libro dedicato alla “guerra santa”; e riprese ad ottobre, in particolare attraverso intercettazioni telefoniche e l’installazione di “cimici” e telecamere all’esterno e all’interno della moschea Al Harmini e dell’agenzia di Naseer, la Raval International Travel Agency. Qualche spezzone dei dialoghi captati dal gennaio scorso sembrerebbe siginificativo: “Naim: Quell’uomo non ci tiene al fucile… Naseer: Neanche al mitra, tienitelo stretto… Naim: È rischioso… Serve una bomba e una pistola. Hai cartucce, mandale di sopra ai ragazzi della guerra, kalashnikov e cartucce. Naim: Quindi è un pakistano solo. Naseer: Sì, un pakistano di Al Qaeda… lì deve fare l’incontro… lì in Kuwait, capito? Voce: Ti passano nel Sudan dopo il Kuwait. Naim: Prenditi la più piccola, e anche la bomba”. E altro, con riferimento ad armi, esplosivi, soldi da ricevere e trasferire,visti, documenti d’identità, lettere. “Mio marito non è un terrorista. Certo è una persona religiosissima, un fanatico, se volete chiamarlo così – ha affermato la moglie di Naseer, Ibno, 37 anni, filippina, in un’intervista al quotidiano la Repubblica – anche qui a Roma pregava molto, andava in moschea cinque volte al giorno. Vuole perfino che porti il velo quando esco di casa, ma questo non vuol dire che sia disposto a uccidere”. Sono le parole che si attendono da una moglie, musulmana o no. Certo che, stando alle intercettazioni, quando andava in moschea Ahamad Naseer, in Italia dal 1990, non parlava solo di religione. “Qui ogni giorno vengono decine di persone, sempre diverse: africani, asiatici, arabi, e non possiamo conoscerli tutti. Qualcuno potrebbe anche aver commesso degli errori. Ma noi preghiamo per la pace”, assicura Arshad Qureshi, responsabile del luogo di culto.
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Caduta nel dimenticatoio la pista dell’antrace – che pur aveva provocato un’ondata di panico negli Stati Uniti e di riflesso in Europa -, senza che si sappia a quali conclusioni siano giunte le indagini in proposito, la Cia aveva già dal gennaio scorso lanciato l’allarme al cianuro. Il 31 al Congresso era stato presentato un rapporto firmato da George Tenet, direttore della Central Intelligence Agency, che potrebbe essere letto in una nuova luce dopo gli arresti effettuati a Roma. “I gruppi terroristi – affermava Tenet – in questo momento sono soprattutto interessati alle armi chimiche, come i sali di cianuro, per contaminare cibo e riserve idriche o per uccidere persone”. Il rapporto della Cia si rifaceva alle rivelazioni rese poco prima dell’11 settembre dall’algerino Ahmed Ressam, un “pentito” di Al Qaeda che aveva raccontato di essere stato addestrato in Afghanistan ad usare il cianuro, usando dei cani come cavie. Secondo il rapporto, che non citava in maniera specifica Al Qaeda, “la minaccia che terroristi usino materiali chimici, biologici, radiologici e nucleari, appare in crescita”. E si sottolinea che attentati terroristici possono essere effettuati anche con composti chimici industriali “relativamente facili da acquisire e maneggiare, e con agenti chimici tradizionali, come il cloro e il fosgene, o cloruro di carbonile”.
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Da Roma a Kabul, capitale molto virtuale dell’Afghanistan, il Paese nel quale la sonoramente proclamata “guerra al terrorismo” è, malgrado gli annunci di definitiva vittoria, ancora in corso. Anzi, lascia prevedere di potersi prolungare in un tempo indefinito. Aumenta il numero dei soldati americani impegnati sulla linea di un fronte che si rivela inaspettatamente “montagnoso” (caratteristica geografica propria all’Afghanistan nota dai tempi di Alessandro Magno), e la grande spedizione varata sotto il vessillo accattivante di “Enduring Freedom”, ha assunto il nome più consono alla circostanza di “Anaconda”, un rettile particolarmente aggressivo che si aggira nei deserti del Nuovo Messico. Mentre si moltiplicano i bombardamenti dei B52 e gli interventi di caccia, superelicotteri, aerei robot, e quant’altro, negli Stati Uniti cominciano ad arrivare le bare dei militari morti. Non si sente ancora l’odore sgradevole di un nuovo Vietnam, dato che, malgrado una facile retorica giornalistica, la situazione è del tutto diversa, mancando, per dirne una, un equivalente del Nord Vietnam, all’epoca sostenuto dall’Unione Sovietica, e, blandamente, dalla Cina di Mao. Ma anche l’osservatore più smemorato, o sprovveduto, ricorda che proprio l’Urss trovò in Afghanistan il suo Vietnam. È vero che allora l’Armata Rossa aveva dovuto affrontare un esercito di guerriglieri (tra i quali si trovava lo stesso Osama Bin Laden) largamente armato e finanziato dalla Cia, mentre oggi l’emiro Omar e Bin Laden non hanno alleati. Detto ciò, quanto alla probabilità di mettere le mani sui due personaggi nessuno tra i responsabili politici e militari americani si pronuncia più di tanto. E del resto, non è affatto sicuro che Omar e,soprattutto, lo Sceicco Nero siano ancora in Afghanistan.
La guerra continua, e sono sempre più numerosi coloro che esprimono seri dubbi circa la sua utilità per contrastare la minaccia terrorista.
Nel marzo scorso, al Senato di Washington, il senatore democratico Robert Byrd, notoriamente conservatore e vicino agli alti comandi militari, ha chiesto al presidente Bush “dove si andrà a finire”, e quale sia il senso di una guerra “che sta brancolando alla ricerca di obiettivi da colpire e si costruisce una strategia a posteriori, senza spiegarci che cosa sia la vittoria”.
In effetti, la “guerra al terrorismo” si sta rapidamente trasformando nella guerra in Afghanistan, dove non si è ancora capito quanti terroristi siano stati trovati. Erano terroristi i 350 prigionieri di Guantanamo ? Si potrebbe rilevare che è giuridicamente inusuale definire “terrorista” chi viene preso in combattimento, le armi alla mano, ma su questo punto dall’amministrazione di Washington (che più che dal presidente Bush sembra diretta dal suo vice, Cheney) e dal Pentagono giungono risposte vaghe, o nessuna risposta. Persino sulle famose basi di Al Qaeda, che ormai avrebbero dovuto essere scoperte, si sa poco, e non si è visto nulla. “Questa guerra ha perduto logica di direzione, vaga alla ricerca di un bersaglio, - ha rincarato il capo gruppo democratico al Senato, Tom Daschle - e fino a quando non saranno catturati Osama Bin Laden e il mullah Omar, non potremo dire di avere vinto”. E, ammesso che questo avvenga, forse nemmeno allora, se è vero che Bush (o, piuttosto, Cheney, consigliere di Bush senior ai tempi della Guerra del Golfo) pensa di attaccare l’Irak, malgrado il parere contrario di alcuni importanti governi alleati, niente affatto entusiasti di seguirlo in altre spedizioni militari.
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Secondo un’inchiesta pubblicata dal quotidiano francese Le Monde, nell’estate del 2001 120 agenti segreti israeliani furono espulsi dagli Stati Uniti, dove erano entrati spacciandosi per studenti di belle arti. Una prima segnalazione della loro presenza era venuta, in una nota riservata, dall’Office of the National Counterintelligence Executive, che dirige i servizi di controspionaggio interni. Questa rete di studenti-spia sarebbe stata attiva in 42 città americane, e più di un terzo degli agenti si erano stabiliti in Florida, dove risulta che si addestrassero al volo buona parte dei terroristi dell’11 settembre. Cinque studenti erano stati fermati a Hollywood (omonima del centro californiano), residenza del capo dei dirottatori Mohammed Atta e di quattro suoi complici. Nulla prova che non si tratti di una coincidenza, e d’altra parte i servizi segreti israeliani, prima dell’11 settembre, avevano messo in guardia i loro colleghi americani contro una minaccia imminente. Non si può quindi escludere che i sedicenti studenti di belle arti avessero raccolto delle informazioni parziali su quanto si stava preparando, impossibilitati però a completare le loro indagini dall’improvvisa espulsione. Il governo di Washington ha ammesso il fatto, smentendo però qualsiasi rapporto con quanto è accaduto in seguito.
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