Con l’uccisione del consulente del ministro Maroni, si palesano diverse “volontà” (non solo italiane) di mantenere viva ed attiva la strategia terroristica al fine di minare l’assetto politico e sindacale del Paese
A sei giorni dall’omicidio di Marco Biagi, consulente del ministero del Lavoro, il procuratore reggente di Bologna, Luigi Persico, che conduce le indagini, sente il bisogno di un colpo di freno. Il magistrato, per la prima volta, invita “gli organi di informazione a non accreditare azzardate e infondate ipotesi circa l’esistenza di presunti supertestimoni”. “Proseguono con ogni cura – avverte – le doverose investigazioni, ma siffatte ipotesi non sono di alcuna utilità in quanto non corrispondenti agli effettivi riscontri”. Il procuratore, dunque, ribadisce la propria direttiva agli organi di Polizia giudiziaria. Oggetto: “Non diffondere alcuna anticipazione circa le attività in corso”.
Senza alcuna polemica sembra questa la prima vera notizia, proveniente dagli organi inquirenti, sull’ultima efferata operazione firmata, secondo la rivendicazione diffusa in internet, Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente. Un’operazione che per livello di gravità, negli ultimi tre anni, è comparabile solo all’omicidio del professor Massimo D’Antona, consulente dell’allora ministro del Lavoro Antonio Bassolino in Campania, ucciso a Roma: un assassinio per il quale, sino ad oggi, non è stato arrestato alcun colpevole se non quell’Alessandro Geri, dopo alcuni giorni scarcerato, ma che in un primo momento verrà indicato come il presunto telefonista che rivendica l’agguato del collaboratore del sindaco di Napoli. Ebbene, all’arresto di Geri (si vedano i giornali dell’epoca), s’innescherà una furiosa polemica tra Polizia e Carabinieri. Il senso del confronto è il seguente: l’operazione dell’Arma, che mette le manette ai polsi di Geri, avrebbe bruciato una buona pista della Polizia. Per alcuni giorni, non si parlerà di altro.
Il caso Geri (e non solo quello) lascerà strascichi tra non pochi settori di Polizia giudiziaria, prefigurando una non comprovata ma sostanziale condizione di “fuga di notizie”. In realtà, su quel fermo molte questioni sono rimaste non spiegate. Geri sarebbe stato indicato da un ragazzino, che l’avrebbe visto nella cabina telefonica da cui parte la rivendicazione. Al momento del confronto, invece, la vicenda si squaglia come un gelato al sole. Ci sarà, poi, l’arresto di presunti fiancheggiatori Br, otto militanti di Iniziativa comunista (oggi, tutti in libertà, con indagini chiuse da parte della Procura romana), fermi che condurranno, tra le altre cose, al mancato riconoscimento, da parte di un testimone presente in via Salaria la mattina dell’omicidio D’Antona, di una donna facente parte del commando. In un primo momento, il testimone affermerà di riconoscere Rita Casillo, militante di Iniziativa Comunista. Nell’incidente probatorio, anche in questo caso, il supertestimone indicherà una persona diversa.
Ecco perché, se si osserva lo scenario odierno nel più complesso quadro di indagini derivanti dall’omicidio D’Antona, si può intendere dirimente la problematica della “fuga di notizie”. Un dato di non poco conto, se si pensa quanto appaiano vicini, e persino circoscritti, gli ambienti dove si sta scegliendo di indagare da tempo. Alcuni esempi? Le presunte bozze della rivendicazione dell’uccisione di D’Antona, ritrovate nelle carceri di Trani e Latina, in celle di alcuni brigatisti. Fogli battuti a macchina, sottoposti allo studio di un esperto per valutare il linguaggio e accertare se composti prima della stesura finale della rivendicazione. Per non parlare poi delle rivendicazioni provenienti dalle carceri di Biella. Dunque, una serie di collegamenti tra e con alcuni brigatisti detenuti che, se dimostrato, rappresenterebbe un punto di contatto tra altri soggetti ancora in libertà; quasi un quadro d’insieme, di vecchi e nuovi volti Br, che condurrebbe a far presumere uno stesso contenitore da cui gli organizzatori dei due commando, quello che ha colpito D’Antona e quello che ha colpito Biagi, potrebbero aver attinto. In questo scenario, inoltre, non va dimenticato il recente arresto, avvenuto il 10 marzo 2002 in Svizzera, di Nicola Bortone, militante delle Br-Pcc. Per Bortone, i magistrati del pool antiterrorismo di Roma avviano la procedura per la richiesta di estradizione dallo stato elvetico. Bortone, che deve scontare in Italia un residuo di pena di tre anni, nel maggio 2001 entra nelle indagini conseguenti all’arresto degli otto militanti di Iniziativa Comunista: per i Carabinieri del Ros, l’allora latitante avrebbe incontrato a Milano, per almeno due volte, Luca Ricaldone, uno degli otto di Iniziativa Comunista.
Con l’omicidio Biagi, c’è chi parla di salto di qualità di gruppi dell’eversione. Forse, sarebbe meglio dire che si comincia ora a palesare uno scenario che configura la determinazione di diverse volontà, italiane e non, a mantenere aperta, viva e attiva, una strategia terroristica, ovvero un’interferenza concreta, volta a minare l’assetto democratico, politico, sindacale, del nostro Paese. Dando ascolto al linguaggio “liturgico” delle rivendicazioni, si palesa un disegno che dovrebbe condurre alla costruzione di un Fronte Combattente Antimperialista. Secondo i magistrati italiani, i tre anni seguiti alla morte di D’Antona sarebbero serviti ad orientare varie organizzazioni, per potenziarsi e raccordarsi. Secondo gli inquirenti, non sarebbe infatti un caso se, dopo l’uccisione di Biagi, proprio i Nuclei Territoriali Antimperialisti (Nta) si siano affrettati a far trovare, in una cabina telefonica di Verona, un volantino di adesione all’azione di quelle che si definiscono Brigate Rosse. Insomma, c’è chi interpreta questo documento come un invito al dialogo, rivolto a chi avrebbe espresso la rivendicazione dell’omicidio. Un altro fatto che gli investigatori hanno posto sotto osservazione è che, per la prima volta, chi si firma Br invia il testo di rivendicazione via e-mail. Per questa ragione, c’è chi compie una cesura tra questa modalità di comunicazione e quella utilizzata dal Nucleo di Iniziativa Proletaria Rivoluzionaria (Nipr) che, il 10 aprile del 2001, si servirà del veicolo informatico per dichiarare di essere l’autore della bomba esplosa in via Brunetti, nel pieno centro di Roma, presso la sede dell’Istituto Affari Internazionali e del Consiglio per le relazioni Italia-Stati Uniti. Le ipotesi, in questo caso, sono diverse. Le centinaia di e-mail, che rivendicano l’uccisione del consulente dell’attuale Ministro del Lavoro, Maroni, non presentano ancora un marchio che possa indicare una stessa mano nell’iter di certe comunicazioni informatiche. “Potrebbe trattarsi – affermano gli investigatori – della stessa persona, che può aver fornito anche solo una consulenza dettagliata, ma può essere anche che la tecnica usata dal Nipr sia piaciuta alle Br che l’hanno subito messa in pratica”. Certo è che la suddetta circostanza, come anche altre, sembra stia rafforzando la convinzione degli inquirenti di un’avvenuta “saldatura” tra le Br-Pcc ed altre organizzazioni eversive. Se, dopo l’omicidio D’Antona, le Br potevano essere contate in 20 o 30 persone, adesso il numero potrebbe essere maggiore, almeno alla luce di un’azione di reclutamento cominciata con l’operazione di via Salaria, il 20 maggio 1999.
Detto tutto ciò, comunque, rimane un fatto: nell’omicidio Biagi i terroristi compiono errori imperdonabili, almeno per chi sa bene di dover continuare a nascondersi in Italia.
Da quel che emerge dalle indagini, sembra che Biagi quella sera fosse in ritardo nel suo previsto arrivo a Bologna. Sì. La sera in cui verrà assassinato, il professore universitario, che sta rientrando dall’Ateneo di Modena, avverte la famiglia di aver perso un treno e che, dunque, prenderà il successivo. Da qui, come conseguenza, il rafforzamento dell’ipotesi che Biagi fosse pedinato sin dalla stazione di Modena. In questo modo, i killer, in attesa sotto la sua casa, verranno avvertiti dello slittamento dell’operazione.
Dunque Biagi, da Modena, prende il treno non previsto, arriva alla stazione di Bologna e, prima di uscire, va alla biglietteria degli Eurostar per comprare un biglietto per un altro treno, da prendere forse nel giorno successivo: il biglietto, ritrovato dagli investigatori, viene rilasciato alle 19.55: da Modena, Biagi è partito alle 19.12 ed è arrivato al binario uno del piazzale ovest della stazione di Bologna alle 19.37. Il treno “mancato” sembrerebbe l’Intercity delle 19, che sarebbe arrivato alle 19.28. Certo è che il professore telefona a casa, per avvertire del lieve ritardo del rientro. Dal suo treno, secondo le immagini delle telecamere della stazione di Bologna, scende anche una ragazza che s’incontra con un giovane che, sulla pensilina, appare essere la sola persona che sta attendendo l’arrivo del convoglio. Scende anche Marco Biagi e se ne va, così come vanno via l’uomo e la donna che s’incontrano, con un abbraccio e un bacio. Acquistato il biglietto Eurostar, Biagi esce dalla stazione e prende la sua bicicletta, lasciata nei pressi di galleria Due Agosto, di fronte alla stazione ferroviaria. Probabilmente chi lo pedina, avverte il gruppo di fuoco che lo dovrà uccidere sotto la sua casa, in via Valdonica.
Biagi arriva in pochi minuti davanti al proprio portone. A sparare contro di lui sarebbero in due, entrambi con il casco integrale indosso e che, secondo testimonianze, avrebbero calzato per l’occasione. Uno dei due, più grosso del compagno, è a piedi, si avvicina all’economista, proprio mentre questi poggia la bicicletta al muro di casa, gli spara (sembra impugnando l’arma con la mano sinistra) certamente quattro colpi, tutti giunti a bersaglio, due al corpo e due alla nuca. L’altro attende in sella ad un motorino. I due si allontanano sul due ruote, a grande velocità, verso la vicina piazza S. Martino. Si ipotizza che, dopo un breve percorso, chi ha sparato scende per fuggire in altro modo, mentre il compagno nasconde in qualche luogo sicuro il mezzo.
Ebbene: gli errori dei terroristi sono molti. Basta leggere questa sequenza per comprenderlo. Come basta leggere dei bossoli, rimasti sul marciapiede, di una calibro 9 corto, e di un bossolo di 38 special rinvenuto ad una manciata di metri dal delitto. Sembra quasi che, tra avvistamenti subiti e prove lasciate sul terreno, il commando di Biagi, volontariamente o meno, sia costretto a lasciare una firma. Gli autori di questo autografo, però, sono tutti da definire.
BOX
Una sera qualunque
Una sera di marzo a Bologna, con tante altre persone, a ragionare di diritti dei lavoratori in un incontro tra giuristi e sindacalisti in un momento difficile, ma pieno di fermenti e di idee che si dipanano in un confronto dialettico, normale in una democrazia qualunque di un paese qualunque.
Il dibattito, aperto da Luigi Mariucci, prosegue snodandosi sulle tipologie del mercato del lavoro e su vari aspetti dei diritti dei lavoratori, poi i primi accenni di parole bisbigliate, di frasi mozzate ed infine un breve attimo di sgomento silenzioso e la comunicazione dell’immane fatto di sangue avvenuto poco lontano da noi: l’assassinio di Marco Biagi.
Poi il pianto, la rabbia, lo sdegno di tutti, il silenzio terribile e pesante come un macigno, più importante delle poche parole dette per ricordare un uomo che con semplicità svolgeva un ruolo istituzionale importante e difficile e che avrebbe voluto vivere in un paese qualunque di una democrazia qualunque.
Invece ci siamo ritrovati, in un pomeriggio di marzo, in un paese strano - sempre uguale a sé stesso e sempre diverso da tutti gli altri - in una piazza Maggiore assolata e triste a ricordare un uomo ucciso con freddezza e brutalità bestiali, ma già note e già viste troppe volte e rispetto e alle quali la fermezza e l’unità della mobilitazione a Bologna è stata propria di un paese democrativo che con immane fatica rigetta ogni attacco alla dignità dello Stato.
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