Nell’uccisione del piccolo Samuele Lorenzi, anche dopo l’arresto della madre rimangono oscuri la meccanica del delitto, e soprattutto i motivi che hanno spinto l’omicida, chiunque esso sia
Come in un giallo classico, il nome dell’assassino appare all’ultima pagina. Ma la somiglianza finisce qui, perché in un “mistery” che si rispetti il colpevole è quello di cui nessuno sospettava. E poi, le pagine del romanzo sono state troppe, e ripetitive, lungo 43 giorni di indagini, di analisi in laboratorio, di ricostruzioni al computer. E infine, in un giallo classico la persona accusata dell’omicidio confessa la sua colpa, mentre qui, invece, si proclama innocente. Ora si dice che fino dal primo giorno gli inquirenti, magistrati e carabinieri, si erano fatta un’idea precisa su come il fatto si era svolto, che erano sicuri. Ma così sicuri non dovevano essere, se è stato necessario tanto tempo per scrivere un nome sull’atto di accusa, e firmare l’ordine di custodia. Intanto, fra la gente del luogo, al primo sentimento di orrore si aggiungevano sospetti incrociati, accuse lanciate a mezza voce, ipotesi appena verosimili o del tutto strampalate. A Cogne, durante quei 43 giorni molti si sono trasformati - ai tavoli dei bar, nelle conversazioni in casa, o nelle tante interviste volanti sollecitate da cronisti debilitati dall’astinenza di notizie - in altrettanti Hercule Poirot e Miss Marple (i due sagaci investigatori creati da Agata Christie, una scrittrice che di misteriosi “delitti nel villaggio” se ne intendeva). “Per scoprire l’assassino, bisogna anzitutto indagare sulla vittima”, sentenziava spesso Poirot. Ma quando la vittima è un bambino di tre anni c’è poco da indagare. Allora su chi? Sui genitori, forse, che del figlio dovrebbero sapere tutto, dal concepimento, al giorno della nascita, fino a quel drammatico mattino del 30 gennaio.
La madre, Anna Maria Franzoni, 31 anni, nata a Monte Acuto Vallese, nell’Appennino tosco-emiliano, secondogenita in una famiglia (undici figli tra maschi e femmine) resa benestante dal possesso di un’azienda edile e di due agriturismi. Una giovane donna bella, cordiale ma riservata, molto attenta ai figli, Davide, 7 anni, e Samuele. Con lui in braccio, in un presepe vivente, aveva recitato la parte della Madonna.
Il padre, Stefano Lorenzi, 37 anni, bolognese, elettricista esperto e grande lavoratore: un posto di prestigio in una azienda elettrica nei dintorni di Cogne, e anche consigliere comunale e membro del soccorso alpino.
Entrambi emiliani, si conoscono proprio a Cogne, dove lui andava in vacanza da quando era ragazzo, e lei, ventenne, fa la cameriera “stagionale” in un residence di Villaz, nel 1991: nel 1993 si sposano, hanno il primo figlio, Davide, e quando quattro anni dopo nasce Samuele, decidono di tornare a stabilirsi nel piccolo centro montano sotto il Gran Paradiso, dove si fanno costruire quella che, attraverso le immagini fotografiche e televisive, è diventata la baita più conosciuta d’Italia. La casa del delitto, la casa dei misteri, o chissà altro. Quel trasferimento, dopo la morte di Samuele, sul filo dell’orrore per l’allucinante fatto di sangue, e dell’inquieta curiosità che l’opinione pubblica riserva ai casi apparentemente inspiegabili, ha fatto molto discutere, e scrivere, spesso tra le righe. Il desiderio di cambiare ambiente, la voglia di tornare nel luogo dove si erano conosciuti, o una fuga? Interrogativo inutile, perché se in questa vicenda un’indagine sulla vittima, e sui motivi che possono aver causato la sua morte, è impossibile, quella sui suoi genitori lo è quasi altrettanto. Una coppia unita, lui sempre occupato dalle sue attività, lei sempre in casa con Davide e Samuele: a Cogne, dove tutti si conoscono da generazioni, sono due “forestieri”, ma bene integrati, come mostra l’elezione a consigliere di Stefano. Hanno un certo numero di amici, e in generale ai “cogneins” risultano simpatici, discreti, di gradevole frequentazione. Insomma, una coppia piuttosto chiusa in se stessa, che sembra non avere problemi. Ma chiunque sa che una coppia senza problemi non esiste.
Naturalmente, quello che è accaduto nella baita dei Lorenzi la mattina del 30 gennaio scorso si potrebbe sapere con certezza solo quando e se i protagonisti decidessero di parlare. Comunque, alle 5.50 Stefano telefona alla guardia medica: durante la notte, dice, Anna Maria si è sentita male. Viene la dottoressa Silvana Neri, che visita la donna, diagnostica uno stato di ansia, e alle 6,30 lascia la baita. A partire da questo momento i due coniugi restano soli con i figli.
È questo il solo elemento sicuro. Il resto sono versioni fornite da lui e da lei. Entrambi dicono che alle 7.30 Stefano esce dalla baita, sale sulla sua Jeep Pajero, e si dirige verso Saint Cristophe, la zona industriale di Aosta, per acquistare materiali elettrici. Distanza da Cogne: più di mezz’ora di macchina. Entrambi dicono che a quell’ora Samuele era vivo, dormiva nel suo letto. Anna Maria dice che poco dopo la partenza del marito ha svegliato Davide, lo ha lavato e vestito, e mandato a giocare in giardino mentre si vestiva per accompagnarlo allo scuolabus: prima di uscire, sente che Samuele si è svegliato e piange, lo prende e lo fa coricare nel letto matrimoniale. Poi, alle 8.16 va con Davide alla fermata dello scuolabus, poco lontana dalla baita, e alle 8.24 torna a casa. Qui, nella sua camera da letto, trova Samuele coperto di sangue. Telefona al 118 per chiedere l’intervento di un medico, e alla sua amica, la dottoressa Ada Satragni, psichiatra a Torino e medico dell’Asl a Cogne, dove abita vicino alla casa dei Lorenzi. Chiama anche il marito, alla ditta in cui lavora, ma riesce a parlare solo con una segretaria alla quale chiede di cercare Stefano e avvertirlo, poi al cellulare, e gli dice, due volte, “Samuele è morto”. La prima ad arrivare è Ada Satragni, che diagnostica una forma di aneurisma (più tardi dirà di aver fatto solo un’ipotesi per assurdo), lava le ferite del bambino e le copre con della bambagia, gli fa un’iniezione di cortisone, e trasporta Samuele all’esterno, avvolto in una coperta, in attesa dell’eliambulanza, che alle 8.45 atterra davanti alla baita con a bordo il dottor Leonardo Iannuzzi: “Mi sono trovato in una situazione che aveva dell’irreale. Il bambino aveva segni evidenti di violenza, ma nessuno pareva rendersene conto, come se si fosse trattato di un’improvvisa malattia. La madre era discosta, quasi catatonica, mentre la dottoressa era concitatissima: Mi ha detto: non so cosa sia successo, ma è terribile, e poi ha avanzato l’ipotesi assurda di una causa naturale. Io mi sono appartato un attimo con i miei collaboratori e ho fatto chiamare i carabinieri: era lampante che in quella casa era stato commesso un delitto… Il bambino era ancora vivo, anche se in condizioni disperate. Respirava… Ho pensato che fosse stato colpito con un’ascia, tanto era netta e profonda la ferita… Sono entrato nella baita, nella stanza da letto. C’era una grande confusione. Sangue ovunque, sul letto, sulle pareti. Sono rimasto pochi secondi, poi sono uscito per occuparmi del bambino. Poco dopo è arrivato anche il padre, che ci ha aiutato a issare la barella”. Stefano Lorenzi, avvertito alle 8.30, venticinque minuti dopo è a Cogne. Quando ha avuto la notizia era a Saint Cristophe, dice. “Ho raccomandato alla Satragni – racconta il dottor Iannuzzi – di non lasciare sola la madre di Samuele: temevo che potesse tentare il suicidio, non si sa mai in questi casi. Le ho anche detto che non doveva fare entrare nessuno in casa fino all’arrivo dei carabinieri”. Invece fuori e dentro la baita si aggireranno una dozzina di persone. La dottoressa Satragni torna a casa, portando con sé due borse. Pochi minuti dopo il ricovero al pronto soccorso dell’ospedale di Aosta, Samuele muore. Domanda: quanto può essere durata l’agonia del bambino da quando è stato colpito alla morte? “Mi è capitato più volte – dice il dottor Iannuzzi – soccorrendo vittime di incidenti in montagna, che nonostante lesioni cerebrali gravissime, non c’era morte istantanea”. Dopo il decollo dell’eliambulanza, Anna Maria dice al marito: “Facciamo un altro figlio? Mi aiuti a farlo”.
Poi, il funerale, con il concorso corale degli abitanti di Cogne, il lungo iter delle indagini, nelle quali si inserisce la ricerca di un fantasmatico “mostro” al quale gli inquirenti sono i primi a non credere, e il precisarsi dei sospetti. Su chi? Sulla madre di Samuele (che al momento dell’inumazione del figlio ha mormorato “Non sono stata io”), anche se all’inizio nessuno osa dirlo, o quantomeno scriverlo. Però il cerchio si stringe, e i Lorenzi, sostenuti dalle loro famiglie, decidono di uscire allo scoperto, Anna Maria rilascia un’intervista a due quotidiani, e parla in televisione. Parla a lungo, di Samuele, di Davide, del delitto “Abbiamo dei sospetti e li abbiamo anche fatti presenti, però vedo che sono finiti in un cassetto, che vanno avanti solo su di me. È giusto, per carità, devono imparare a conoscere pure me. Il problema però è che l’assassino è libero, e questa persona che noi possiamo avere aiutato gli inquirenti a cercare è ancora libera. Non sono io. Si stanno sbagliando… Se solo penso a tutti gli abitanti di Cogne a cui sono molto affezionata, a cui sono legata molto, che sono in pericolo perché l’assassino è in giro, ho paura per gli altri bambini, per l’altro mio figlio, Davide”. Questa versione, “l’assassino è ancora tra noi, l’assassino è uno di noi”, non piace ai “cogneins”, molti “innocentisti”, tra i quali il sindaco, mutano opinione, anche se gli amici di Anna Maria si ricompatteranno, formando un comitato. E si giunge alla richiesta della Procura di un provvedimento di custodia cautelare, alla firma del gip, all’arresto, alla detenzione nel carcere delle Vallette di Torino.
Nelle 83 pagine dell’ordinanza scritta dal gip Fabrizio Gandini – il quale ha tenuto a ricordare che “l’errore giudiziario è sempre possibile” – si spiega perché Anna Maria Franzoni è accusata di aver ucciso il figlio, e su quali punti ha mentito. Sulla scena del delitto “non vi sono segni di confusione o di colluttazione. Tutto è in ordine, tranne le vistose macchie ematiche presenti sul letto e nei suoi dintorni… Si deve ritenere che (il bambino) è stato colpito mentre era sveglio. E allora, non essendosi mosso, deve ritenersi che Samuele conoscesse l’assassino e che non si aspettasse nessuna azione violenta da parte di questa persona”. Altri possibili sospetti, “che per varie ragioni avrebbero potuto commettere il fatto”, hanno alibi sicuri. La casacca del pigiama di Anna Maria, insanguinata, “è stata rinvenuta tra le lenzuola e il materasso… Il suo imbrattamento è spiegabile solo ipotizzando che essa sia stata indossata dall’assassino… L’assassino doveva disporre dopo l’esecuzione del delitto di un certo lasso di tempo per far sparire l’arma del delitto, per pulirsi o comunque per allontanarsi indisturbato: l’assassino doveva conoscere la disposizione delle camere e le abitudini della famiglia. Tutte queste condizioni sono contemporaneamente soddisfatte solo ipotizzando che l’assassino sia Anna Maria Franzoni”. L’ordinanza afferma che la dichiarazione della donna “di aver lasciato aperta la porta di ingresso non chiudendola a chiave nell’uscire per paura di fare rumore e svegliare il piccolo Samuele… è probabilmente falsa”, avendo la stessa detto di aver messo il figlio nel letto matrimoniale perché piangeva, e quindi era sveglio. Quindi la porta era chiusa, non presenta segni di scasso, solo chi aveva le chiavi poteva aprirla. Quanto alla dinamica del delitto: “Verosimilmente, dopo aver cambiato Davide e dopo averlo portato a fare colazione in sala, ma prima di cambiarsi, la Franzoni richiamata dal pianto del piccolo Samuele scende le scale e lo porta nel proprio letto, e lo uccide. Poi si pulisce, si cambia, lasciando il pigiama dove poi è stato trovato”. Il gip considera egualmente significativi il fatto che Anna Maria abbia detto al marito che Samuele era morto, quando “qualsiasi madre si sarebbe guardata dall’affermarlo, sperando anche contro i fatti la sopravvivenza del figlio”, e “l’agghiacciante richiesta” rivolta al marito “la mattina stessa dell’omicidio” di fare un altro figlio. L’arma usata per ferire a morte: “L’indagata ha avuto più di un congruo lasso temporale per farla sparire. Sembra verosimile ritenere che essa sia stata aiutata da una o più persone al momento non identificabili. Il movente: “In una situazione di forte stress, già aggravato dalle precedenti condizioni di salute dell’indagata” Anna Maria avrebbe deciso di uccidere Samuele “perché pensava che la vittima avesse qualcosa che non andava, che frustrava il suo desiderio di mamma di vedere il figlio crescere in condizioni normali”. Oppure, perché “quel mattino, dove lei era già irritata, Samuele le dava fastidio essendosi messo a piangere sulle scale proprio mentre lei si preparava per uscire”. Spiegazioni molto, troppo sbrigative, in particolare la seconda? Chissà.
Delitto in famiglia, si dice. Ma quali ne sono le sequenze precise, tenendo conto degli orari, e delle possibili motivazioni? Chi ha assistito, da esecutore o da testimone, all’assassinio del piccolo Samuele? Viene alla mente una filastrocca, inglese naturalmente per restare nell’ambiente del “mistery”, sull’uccisione di Cockrobin, il Pettirosso, e sugli interrogativi che la circondano. “Chi lo ha visto morire? Io, disse la mosca, con il mio piccolo occhio, io l’ho visto morire”. Forse quel mattino di fine gennaio nella baita del delitto vi era una mosca fuori stagione. Che ha osservato tutto. E non può raccontarlo. E tace, come tacciono, o mentono, altri.
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