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aprile/2002 - Editoriale
L’Italia non accetta provocazioni
di Paolo Andruccioli

Non è elegante citare se stessi. E a noi non è mai piaciuto utilizzare la frase un po’ antipatica: noi l’avevamo detto. Ma questa volta ci sembra inevitabile ricordare due o tre cose che questa rivista ha sostenuto, in più occasioni, nei mesi scorsi. La prima riguarda proprio l’uso delle parole, il linguaggio politico e le forme di comunicazione di massa. Avevamo detto: “stiamo attenti alle parole”. E la nostra modesta sollecitazione scaturiva da una situazione di scontro acido che si era determinato sul palcoscenico mediatico italiano. Ad un certo punto - e sarebbe interessante che qualcuno ci lavorasse, magari gli studenti dei corsi di comunicazione - la polemica politica italiana è, come si dice in gergo, “partita per la tangente”. Si sono cominciati a usare termini desueti, almeno all’interno di un corretto dialogo civile. Sono comparsi sulla scena improperi, insulti di ogni tipo, dichiarazioni dietrologiche, ambiguità e malignità di ogni genere. Man mano che il livello dello scontro “verbale” cresceva si perdevano per strada pezzi di sostanza politica. Ovvero più le chiacchiere e gli attacchi da bar dello sport si facevano esasperati, meno si riusciva a capire dei veri oggetti delle contese.
In molti hanno detto che era necessario stare attenti alle parole, molti hanno formulato inviti più o meno autorevoli a non demonizzare l’avversario politico. Perfino il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, contrariamente alle sue attitudini e al suo ruolo inevitabilmente super partes ha dovuto pronunciarsi con una certa durezza per tentare di correggere questa nuova moda italiana.
I terreni sui quali si è sviluppato tutto questo parlarsi addosso e questo insultarsi sono diversi e questo ci fa temere che le cose non si correggeranno facilmente. I partiti italiani e molti dirigenti politici non si sono evidentemente abituati al nuovo sistema cosiddetto “bipolare” e con molta probabilità non è una questione che attiene solo al carattere delle persone visto che la moda dell’insulto rischia di essere dilagante e di contagiare anche persone normalmente equilibrate. Forse ci sono problemi “strutturali” in tutto ciò e uno dei problemi che noi vogliamo segnalare riguarda proprio le contraddizioni del sistema politico uscito dalla “rivoluzione” del maggioritario. In questo momento - almeno così ci sembra - lo iato tra società civile e società politica, tra cittadini e istituzioni è ancora più profondo di quello che c’era nella vecchia Prima Repubblica. Quel sistema proporzionale e quei partiti che sono usciti distrutti dal dopo Tangentopoli non erano magari all’altezza delle trasformazioni, ma sicuramente quel che vediamo oggi non ci rassicura, né ci rallegra. C’è perfino chi comincia ad avere nostalgia della vecchia Balena Bianca, chi rimpiange il Pci e chi è triste perché i nuovi socialisti non sono più “quelli di una volta”. Per quanto ci riguarda noi non pensiamo affatto che si possa tornare indietro, ma che la politica italiana si debba fare carico delle trasformazioni di cui parla ogni giorno in ricchi convegni e che si assuma tutte le sue responsabilità. È un discorso che vale ovviamente soprattutto per chi governa. L’arte del governo è infatti un’arte molto difficile, come insegna Niccolò Machiavelli, e non si improvvisa facilmente. Non si può neppure copiare, né estrapolare da altri sistemi. Un conto è dirigere grandi aziende, una televisione pubblica o privata, fare il direttore di un giornale. Altra cosa amministrare una Regione, dirigere un centro sanitario, una Usl, una bocciofila o magari fare l’allenatore di una squadra di calcio. I sistemi di governo, l’arte del dirigere e guidare le persone sono molto diversi, anche se ci sono regole di base che si possono paragonare (ma mai sovrapporre). Nell’arte del governo le tecniche della comunicazione e del dialogo sono la linfa vitale. Per questo a volte appaiono perfino sorprendenti certe dichiarazioni di alti esponenti del governo italiano e perfino di autorevoli Ministri della Repubblica che accusano gli avversari di non aver capito le finalità di certe leggi, accusano gli altri di fare “propaganda”, di viziare i contenuti, la posta in gioco. E dopo aver detto questo si assurgono a unici veri rappresentanti del pensiero popolare, dello spirito della nazione, accusando di minoritarismo (se non di collusioni con il terrorismo) tutti gli altri. Da una parte si dice insomma che il senso delle leggi non viene capito dalla gente, dall’altra si dice che lo spirito profondo di quelle leggi è rappresentativo del sentire comune. C’è qualcosa che non va in questo ragionamento non solo a livello di comunicazione, ma anche a livello di logica elementare. Ma se tutti questi argomenti possono essere contestati da chiunque, ci si può scherzare sopra, sbeffeggiarli, non è accettabile che dalle incongruenze logiche si passi a qualcosa di molto più pesante e pericoloso. Vogliamo cioè dire che finché ci tocca assistere a un livello alquanto squallido di polemica politica (basti pensare a tutto quello che abbiamo visto e sentito dai vari Costanzo Show, da Santoro o da Porta a Porta di Bruno Vespa), niente di male. Ce ne facciamo una ragione. Anzi non ce ne facciamo una ragione, ma non ci spaventiamo. Quando invece si passa a qualcosa d’altro allora le cose si complicano e non poco.
All’improvviso, in Italia, dopo anni di silenzio, è infatti ricomparso il terrorismo interno. È successo tre anni fa con l’assassinio del professor D’Antona. E risuccede oggi con l’assassinio del professor Biagi. Pare sia stata usata perfino la stessa pistola per segnare una continuità, una firma. Due professori che facevano praticamente lo stesso mestiere e che collaboravano con lo stesso ministero, quello del Lavoro oggi sotto i riflettori di tutta l’Europa. L’unica differenza riguarda i ministri e i governi in carica. Tre anni fa c’era il centro sinistra. Oggi c’è il centro destra. Che cosa si vuole dire con questi barbari omicidi? Ci sono davvero di nuovo le Brigate Rosse in giro per il Paese? Ma soprattutto una domanda che è stata formulata con molta precisione in televisione da Antonio Bassolino al Capo della Polizia, Gianni De Gennaro: come mai non è stato ancora arrestato nessuno per il delitto D’Antona, come mai questo vuoto sorprendente nelle indagini? E perché si era detto (lo hanno detto autorevoli esponenti politici) che il terrorismo italiano era stato definitivamente sconfitto? Non parliamo poi delle lacune vistose in certe giustificazioni ufficiali postume dopo la morte del professor Biagi. Quella polemica sulle scorte ha assunto infatti toni davvero impresentabili in un paese civile. Non si può continuare infatti a riproporre all’infinito il vecchio gioco della carta che vince e la carta che perde. Era stato minacciato ripetutamente e direttamente il professor Biagi, si o no? Che c’entra il discorso generale sulle scorte con questa fattispecie precisa. Un uomo rischiava di essere ucciso. Chi lo ha difeso?

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