Quello che si rimprovera alle nostre Forze di polizia, durante i fatti di Genova, è di non aver saputo distinguere e separare, con operazioni mirate, i più violenti dai meno violenti e dai pacifisti, favorendo così la confusione di linguaggi, le violenze sugli innocenti e, in ultima analisi, il trionfo dei peggiori.
Dietro questi rimproveri c’è molta ingenuità ed in qualche caso anche molta ipocrisia. Compiere simili distinzioni quando si hanno di fronte 150, 200mila manifestanti che comunque, pacifisti o meno, considerano la Polizia come un nemico da battere e la zona rossa come un fortino da espugnare, non è neanche un pio desiderio: è una presa in giro.
Tuttavia questo non significa che non si potesse fare meglio e con maggiore efficacia nel lungo termine, in particolare prima e dopo la fase violenta, nelle strade.
Solo che questo avrebbe richiesto una grande capacità di gestione e di analisi delle informazioni e un forte comando centralizzato delle operazioni, con responsabilità conseguenti.
In Italia purtroppo le cose non stanno così.
L’Italia è il Paese europeo con il più alto numero di poliziotti per abitante ma è anche quello in cui convivono più Forze di polizia indipendenti tra loro e sovrapposte le une alle altre.
Il coordinamento, assicurato istituzionalmente dal Capo della Polizia, non riesce a superare le duplicazioni né a prevalere sulle diverse catene gerarchiche e solidarietà di corpo.
Tutto ciò si riflette sull’attività di Polizia giudiziaria (ed è a volte favorito dalla stessa magistratura inquirente, quando preferisce mettere i vari servizi in concorrenza fra di loro) e su tutti gli altri campi, dall’ordine pubblico alle attività informative.
Uno dei problemi riscontrati a Genova è stato quello delle diverse tattiche operative e dei diversi livelli di addestramento delle forze impegnate sul campo. La stessa individuazione delle responsabilità delle supposte violenze dovrà prima scoprire in quali Corpi o servizi si celino i responsabili.
Questa situazione diviene paralizzante quando parliamo di servizi di informazione. Formalmente in Italia ce ne sono due, il Sismi per la sicurezza militare e il Sisde per la sicurezza dello Stato. Già la distinzione fra queste due sfere è quanto meno vaga, tanto che una delle riforme di cui si parla è quella di dividerli più nettamente, l’estero al Sismi e l’interno al Sisde.
Ma oltre a ciò, il Sisde in particolare deve fare i conti con i vari uffici e comandi delle nostre tante Forze di polizia, che hanno tutti, chi più e chi meno, gli stessi interessi che, a livello locale, sono a loro volta coordinati dal prefetto, dal questore (e talvolta anche dal magistrato).
In altri termini le informazioni sono frammentate e la catena delle responsabilità intricata come un nodo gordiano e il risultato è che, a fronte di centinaia o persino migliaia di informazioni raccolte, manca sia una tempestiva analisi unitaria, sia, soprattutto, un raccordo certo ed efficace tra queste analisi e valutazioni e la fase operativa. Le informazioni cioè diventano inutili.
È questo un antico difetto del sistema italiano, basato sulla teoria che è meglio avere servizi deboli, divisi ed inefficienti, che il contrario, poiché se essi divenissero realmente efficaci sarebbero, si dice, anche più difficili da controllare.
Questa però è soprattutto una teoria da democrazie deboli e immature.
Forse è giunto il momento di avere un po’ più di coraggio e rientrare nell’età della ragione.
Vincenzo Botti
Segr. Gen. Prov. Siulp - Grosseto
|