Il rinnovato, e mai sopito, desiderio politico di “normalizzazione” della magistratura, con il continuo riacutizzarsi del contrasto tra i due poteri, comporta una necessaria e attenta riflessione.
È necessario chiarire che non spetta alla giurisdizione risolvere stabilmente le patologie del sistema; l’intervento giudiziario può e deve rimuovere ingiustizie e illegalità in atto ma ad altri centri di potere spettano le azioni e i provvedimenti, per stabilire le regole del “vivere giusto’. La legalità senza politica è pura conservazione dell’esistente, su questi versanti non ci può essere e non c’è spazio per alcuna supplenza dei giudici.
L’istituzione pubblica, meglio chiamarla senza enfasi lo Stato, è chiamata ad assicurare la tutela della legalità esistente ma, soprattutto, a promuovere la legalità irrealizzata; intendiamo l’aspetto ambientale e la qualità della vita, insomma applicare in toto l’art. 3 della Costituzione anche in altri aspetti sociali, quali stranieri, casa, lavoro subordinato, studio, diritto degli utenti, minori, anziani, handicappati, aree emarginate, tossicodipendenza, sofferenza psichica, trattamento carcerario.
In troppe aree del Paese la Giustizia - civile e penale minore - è una realtà che non esiste perché l’intervento giudiziario presenta aspetti contraddittori; la centralità in alcuni settori del penale si intreccia con una inefficienza crescente.
Non mancano, nell’intervento penale, eccessi e dilatazioni improprie non certo nel caso dei processi per concussione, corruzione e falso in bilancio emersi in varie tangentopoli ma in ogni modo patologiche rispetto a qualunque sistema giudiziario. Per inciso, tra i paesi europei, siamo secondi soltanto alla Turchia, per il forte ritardo nell’applicazione della giustizia, ed incessanti sono i richiami dell’Unione ed altrettanto strabocchevoli i ricorsi alla Corte di Giustizia.
La gravità della crisi ha richiesto interventi razionalizzati quali la ridistribuzione dei magistrati, assetto degli uffici, giudice unico di primo grado, personale ausiliario qualificato, informatizzazione dei servizi ma accanto ad essi lunghi ed incoerenti sono stati i progetti normativi capaci di rinnovare in profondità il sistema Giustizia.
Occorre superare miti paralizzanti quali il monopolio del giudice togato, applicare in toto il dettato costituzionale di una magistratura popolare e democratica e non di mestiere, superare l’esclusività del diritto penale come strumento di controllo della devianza, potenziando attraverso il carattere residuale le tutele alternative a quelle giudiziarie.
Per dovere di cronaca, occorre constatare che finalmente è cessato il defaticante ricorrere da parte del Ministro di Giustizia all’attività ispettiva ed anche alla messa in sordina della pretestuosa e propagandistica riforma dello status del magistrato, incentrata alla mera separazione delle carriere requirenti e giudicanti; ma preoccupante è anche la riduzione coatta delle scorte ai magistrati, specie quelli più esposti come a Palermo per la mafia e Milano per la corruzione.
Il rifiuto delle ipotesi di separazione delle carriere significa invece unicità del concorso d’accesso, necessità di una carriera ancorata a selettive prove di merito e psico-attitudinali per il reclutamento, possibilità nei momenti di passaggio tra le due funzioni di una valutazione obiettiva e professionale, della responsabilità disciplinare unica del Csm, infine garantire un approfondito e permanente aggiornamento professionale. Se si vuole riformare il Csm sarebbe più incisivo modificare le procedure elettorali volte a costituire un organo che rappresenti tutta la magisttratura, composta da rappresentanti della stessa e da membri laici al fine di evitare corporativismi; confermare alla presidenza il Presidente della Repubblica; proporre l’elezione separata della Sezione disciplinare del Csm dal Consiglio, accentuando il carattere giurisdizionale della stessa.
La stessa Anm si è posta il superamento del tabù dell’insindacabilità del magistrato ma solo quando sia indiscutibile l’esistenza delle condizioni di legge o dei presupposti di fatto su cui poggia il provvedimento.
Sul piano del governo della giustizia, occorre che il Ministero della Giustizia debba continuare ad essere un organismo servente della giurisdizione e non una struttura direzionale della magistratura civile e penale; l’iniziativa disciplinare del Guardasigilli deve assolvere ad una funzione di garanzia della correttezza istituzionale e non assolutamente di governo dei magistrati che si ritiene amministrino la giustizia in modo difforme dalle aspettative della maggioranza di governo. Sempre che questo Paese non voglia mettere in discussione l’art. 112 della Costituzione.
È indispenzabile che il pubblico ministero rivaluti positivamente il personale operante presso le Sezioni di Polizia giudiziaria dei Tribunali e preture circondariali, spesso sottoimpiegato o inutilizzato perché il magistrato, in parte a ragione, non ama impelagarsi in pastoie contrattuali e burogratiche dovute all’ambivalenza contabile del personale.
Recentemente, però si è registrata una penosa confusione di ruoli. Si abusa nell’impiego del poliziotto nella funzione di Pm nell’udienza, con il doppio risultato di estraniare sempre di più il magistrato dall’attività processuale in quanto esso stesso affascinato dal ruolo investigativo, preludio alla separazione di fatto delle carriere, mentre il poliziotto, invece, diventa mero esecutore nel dibattimento e sempre meno viene impiegato nell’attività istituzionale e precipua. Per altro, dal punto di vista sindacale, ci si chiede perché la retribuzione del poliziotto in una funzione superiore non è adeguata al compito.
Tale atteggiamento inibisce a volte la preziosa opportunità di operare un concreto coordinamento territoriale tra le Forze di polizia nonché peculiare collaborazione e ottimale circolazione di informazioni gestita, questa volta in maniera unitaria, dal titolare delle indagini di Polizia giudiziaria che è indiscutibilmente il Pm.
Per le indagini sui reati societari, finanziari, fallimentari o contro la pubblica amministrazione, è prioritario ridisegnare le piante organiche delle Sezioni di Polizia giudiziaria tenendo conto anche degli stravolgimenti del riordino delle carriere e del codice di rito; inoltre, adattare un modello interforze che esalti l’integrazione operativa delle diverse componenti; potenziare l’informatizzazione e, più in generale, le strutture tecniche e logistiche.
È nostro parere che per una buona giustizia non occorrono riforme emotive e travolgenti ma proposte funzionali e tecnico-operative, come per esempio le tabelle distrettuali e il Tribunale distrettuale, gli inventivi di carriera, o economici o di servizi, per i magistrati e i poliziotti impiegati in sedi obiettivamente disagiate per alto tasso di criminalità come Palermo, Napoli e via dicendo.
Importante è fissare i parametri con trasparenza e obiettività ovvero non per tacita prassi di indirizzo ministeriale così anche per gli incarichi direttivi assicurando la rotazione degli stessi; il divieto assoluto di incarichi extragiudiziali; la revisione del processo penale, per potenziare il controllo del giudice senza sminuire le prerogative d’indagine del Pm; la riforma del processo civile secondo parametri precontenziosi, che possono decongestionare il settore; la riforma delle impugnazioni; processi immediati con la garanzia delle parti anche nella fase delle indagini preliminari su qualsiasi reato. Sarebbe auspicabile un ulteriore passo avanti del rito abbreviato, il giudizio immediato al momento della restrizione della libertà personale nella flagranza di reato ovvero l’accompagnamento dell’imputato e l’immediato giudizio con contestuale decisione sullo stato di libertà. Infine, pene alternative per i reati minori tendenti al recupero sociale dell’individuo colpevole, anche obbligandolo a scontare la pena in attività socialmente utili ed il risarcimento dei danni non solo pecuniario ma anche affettivo, prestare soccorso ed aiuto a chi, per esempio, è stato investito dal proprio atto di incoscienza.
Il governo, piuttosto che attivarsi per punire la magistratura, dovrebbe trovare altre strategie anticrimine superando il modello di intervento meramente repressivo e poco attento ai fattori sociali, economici e ambientali. A tale proposito, non si può fare a meno di dichiarare apertamente che la politica dei governi, succedutisi negli ultimi anni, è stata fallimentare nel campo della sicurezza nazionale compiendo soltanto espedienti ad effetto.
Si sono registrati interventi eccezionali ma solo per tamponare temporaneamente l’emotività suscitata dalla popolazione sulla questione delle intolleranze etniche, politiche, razziali e religiose o sulla criminalità organizzata senza mai elaborare un progetto complessivo e definitivo.
Finora le autorità centrali hanno favorito opere di mero contenimento come l’incremento degli organici delle Forze di polizia nelle regioni meridionali ad alto rischio, trascurando, invero, il potenziamento del coordinamento e dei mezzi investigativi, mettendo in risalto i successi con eccessiva enfasi propagandistica e a volte catastrofica sulla stampa nazionale e l’opinione pubblica.
Sarebbe il caso che il Presidente del Consiglio si facesse promotore di una grande conferenza sulla giustizia e sicurezza nazionale per coordinare e risolvere i problemi in tale settore e non consentire a qualche suo sottosegretario di punire o rimuovere i poteri sanciti dalla Costituzione.
È vero che sono trascorsi poco più di un centinaio di anni, eppure le persone liberali e democratiche dovrebbero ormai aver acquisito l’intoccabile principio della tripartizione dei poteri di montesquieiana memoria, altrimenti come si può affermare che la nostra cultura occidentale è migliore di quella islamica?
Antonio Ciaramella
Siulp - Cuneo
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