A sette mesi di distanza dagli scontri di piazza della città ligure, occorre ancora fare chiarezza su alcune circostanze e sulla dinamica dei fatti che portarono alla morte del giovane Carlo Giuliani
A sette mesi dalla scomparsa di Carlo Giuliani, l’amarezza e la sofferenza di chi ha vissuto l’angoscia dei giorni di Genova è ritornata in piazza Alimonda, trasformata ancora una volta in “Piazza Carlo Giuliani - Ragazzo” da un nuovo cartello che ha coperto le scritte sbiadite sul marmo. Quella che appariva come una storia già raccontata “in tempo reale” fin nei minimi particolari, dopo l’analisi “a freddo” dei documenti, delle foto e dei filmati a disposizione si è trasformata in un episodio oscuro e dai contorni incerti, che lascia aperta, assieme all’ipotesi di legittima difesa, anche la possibilità di un eccesso colposo nell’esercizio, sia pur legittimo, della difesa personale.
La prima ombra su piazza Alimonda è l’urlo di un poliziotto che davanti alle telecamere di Canale 5 grida ad un ragazzo “Bastardo! Tu l’hai ucciso, col tuo sasso!”. Qualche ora dopo il Tg5 di Enrico Mentana mostrerà la famosissima foto Reuters di Dylan Martinez che ritrae Giuliani con in mano l’estintore rosso e un braccio armato che sporge dal lunotto del “Defender”.
Inizialmente sembra che Giuliani sia quasi a ridosso dell’automezzo, ma una foto di Marco D’Auria restituisce alla vista quei metri e quel senso delle proporzioni “mangiati” dal teleobiettivo, rivelando uno spazio di alcuni metri (almeno tre) tra il ragazzo e la jeep dei Carabinieri, poche frazioni di secondo prima degli spari.
Il 5 settembre 2001 Adriano Lauro, vicequestore aggiunto presso la questura di Roma, racconta al Comitato Parlamentare di indagine che “stavo a dieci metri di distanza e credevo che fosse stata una pietra; infatti, mentre andavo in quella direzione anch’io sono stato colpito da alcune pietre dietro la schiena. Quando ho visto il ragazzo per terra e ho visto un ‘fuggi fuggi’ generale; mi sono avvicinato a quel lago di sangue che usciva e ho visto una pietra, come quella che ha visto il dottor Fiorillo, intrisa di sangue e molto vicina alla tempia; dunque ho pensato che il giovane fosse stato colpito dalla pietra. In parte ero convinto che fosse stata la pietra, in parte credevo che se loro non avessero attaccato, non sarebbe accaduto questo fatto; ecco il senso di quella frase famosa”.
In quella circostanza sulla fronte di Carlo Giuliani viene riscontrata una lacerazione “a stella”, inizialmente scambiata per il foro di entrata del proiettile, che l’avvocato Giuliano Pisapia ha definito “una lesione post-mortem, verosimilmente inferta con un sasso”.
Un altro particolare che la “memoria collettiva” non ha ben assimilato è il rapporto di causa ed effetto tra l’estintore di Giuliani e la calibro 9 di Mario Placanica. Sono almeno due, infatti, le foto che mostrano una mano già armata sporgere dall’automezzo dei Carabinieri ancor prima che l’estintore rosso fosse raccolto dal suolo per mano di Giuliani. In aggiunta a tutto ciò, per capire che l’estintore non ha giocato un ruolo decisivo nel determinare le azioni di Placanica basta leggere le dichiarazioni rilasciate “a caldo” dal carabiniere davanti ai magistrati la sera del 20 luglio: “(...) mi sono accorto a posteriori che con la mano avevo nel frattempo inavvertitamente levato la sicura. Il lancio di pietre è continuato ed io ho sentito la mia mano contrarsi e partire dalla mia pistola 2 colpi di arma da fuoco; io ero in posizione accucciata con la mano alzata ed armata, la mia mano con la pistola era quella che spuntava dalla camionetta. (...) Alla mia vista nel momento in cui puntavo la pistola non avevo persone, percepivo che vi erano aggressori ma non li vedevo percependo solo il continuo lancio di pietre. Ero convinto che vedendo l’arma avrebbero desistito ed invece hanno continuato”. “Ha visto Giuliani con l’estintore in mano”, scriverà più tardi Bruno Vespa nel suo libro “La scossa”, in palese contraddizione con la testimonianza diretta di Placanica. Un grossolano errore di scrittura o una palese manipolazione dell’informazione?
L’ultima, inquietante ombra di quell’assurdo 20 luglio è il dubbio che in piazza Gaetano Alimonda non abbia sparato solamente Mario Placanica, un dubbio confermato dalle dimensioni dei fori di entrata e di uscita del proiettile mortale, che secondo l’avvocato Pisapia sarebbero incompatibili con il calibro 9 della pistola in dotazione a Placanica (l’unica arma sequestrata dall’Autorità giudiziaria) in quanto un proiettile di quel calibro avrebbe dovuto avere conseguenze molto più devastanti di quelle riscontrate sul volto di Giuliani.
Nei giorni immediatamente successivi all’omicidio Giuliani il sostituto procuratore Silvio Franz ha ordinato una perizia, effettuata dall’esperto genovese Valerio Cantarella, per stabilire quante e quali armi abbiano sparato in quella circostanza. In base al risultato di questa prima perizia, i due bossoli di proiettile raccolti sul posto, (uno sul “Defender” a bordo del quale si trovava il carabiniere Placanica e l’altro sul selciato della piazza), non provengono dalla stessa arma. Il primo - secondo il perito - è compatibile all’80 per cento con la Beretta calibro 9 di Placanica, mentre il secondo lo è solamente al 10 per cento. L’angosciosa ricerca della “pistola fantasma” che, in base alla perizia di Cantarella, risulterebbe coinvolta assieme all’arma di Placanica nella morte di Carlo Giuliani, viene interrotta da una seconda perizia disposta dal dottor Franz e affidata ad un ignoto esperto palermitano, che smentisce i risultati ottenuti in precedenza confermando che entrambi i bossoli sono stati espulsi dalla Beretta di Mario Placanica.
Allo stato attuale delle cose l’unica cosa sicura sui fatti di piazza Alimonda è che Carlo Giuliani ha pagato il prezzo più alto per le sue azioni, indipendentemente dal giudizio che ognuno può esprimere sul suo comportamento. Adesso sono altri i “passamontagna” da togliere per conoscere la verità su quel tragico pomeriggio di luglio, resistendo al tempo che passa, alla voglia di dimenticare, all’indifferenza dei media “ufficiali”, alle resistenze corporative, alla stanchezza e allo sconforto che colpiscono chi, ancora oggi, non riesce a togliersi dal cuore l’angoscia che ci accompagna dalle 17.27 di quel 20 luglio 2001.
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