Auschwitz è solo il luogo emblematico della Soluzione Finale che provocò milioni di morti, uomini, donne, bambini, uccisi perché erano ebrei. La persecuzione antisemita varata dai nazisti subito dopo l’avvento di Hitler al potere, ebbe diversi aspetti nel corso degli anni. E il regime fascista di Benito Mussolini se ne fece, cominciando con la vergogna delle “leggi razziali”, un volenteroso imitatore e complice, sino alla fine
Olocausto. Il 27 gennaio, tutti (anzi, probabilmente non tutti) abbiamo celebrato, insieme o individualmente, la giornata della Memoria. Il 27 gennaio 1945 dei reparti dell’Armata Rossa entrarono nel campo di Auschwitz-Birkenau, e si ebbe la conferma precisa di un orrore del quale fino a quel giorno si era solo potuto immaginare l’ampiezza e la sistematicità della sua perfidia. Certo, gli aguzzini addetti allo sterminio sistematico sapevano, i loro capi sapevano, e sapevano i complici, di ogni grado e nazionalità, dei nazisti, i “collaborazionisti” di ogni tipo, perché la caccia agli ebrei era rimasta aperta ogni giorno e ogni notte, senza troppi infingimenti. Del resto, Auschwitz è solo il luogo emblematico, il simbolo della cosiddetta Soluzione finale. I lager erano decine, e centinaia i ghetti dove gli ebrei erano tenuti prigionieri in attesa di raggiungere i campi della morte.
I convogli di carri bestiame che attraversavano l’Europa con i loro carico di deportati, uomini, donne, bambini, tutti destinati a un viaggio di andata senza ritorno. Erano ebrei, e tanto bastava alla crudele, fredda, meticolosa contabilità del Terzo Reich. Ad ogni arrivo, per alcuni era immediato il trasferimento nelle camere a gas, nelle “docce” veniva detto loro facendoli spogliare di ogni indumento, e consegnando loro delle saponette finte, di pietra pomice. Chi ha visitato Auschwitz li ha visti quei grandi locali rivestiti di piastrelle, con sul soffitto i fori di uscita del gas, mascherati, appunto, da docce. Nell’ansia della fuga, le SS che controllavano il lager, avevano tentato di distruggere con cariche di esplosivo le prove dell’inaudito crimine, ma la fretta e la paura avevano fatto sì che molto rimanesse in piedi: le “camere”, i forni crematori, i locali dove i deportati venivano sistematicamente percossi, i depositi che accoglievano, in magazzini ben ordinati, i vestiti le scarpe, le valigie, gli orologi, gli oggetti d’oro (anche i denti), i capelli delle donne. Fuori, una scritta: Kanada, il nome di una terra ricca di miniere preziose, che con macabro umorismo voleva definire quelle povere cose dei “tesori” che periodicamente partivano per la Germania. Allucinante, certo, ma vero.
Eppure, di tanto in tanto si odono ancora le voci dei “negazionisti”, di quelli che dicono che è tutto falso, una montatura delle “lobby giudaiche”, dell’antifascismo militante, e così via. I “negazionisti”, parenti stretti dei “revisionisti”, molto più numerosi, molto più rumorosi, ansiosi di riscattare un passato ignominioso che magari neppure hanno conosciuto, e del quale, comunque, spesso mostrano di sapere ben poco, o di non voler sapere. Su questa trincea non si nega l’orrore, ma ,come dire?, lo si relativizza. “Sì, è accaduto, però è stato tanto tempo fa. E poi, Hitler era un pazzo sanguinario, la colpa è stata sua, e anche di altri gerarchi nazisti. D’altra parte ci sono stati i gulag di Stalin, le foibe di Tito …”.
Pazzo? Adolph Hitler non era un folle. Era, non v’è dubbio, un astuto ciarlatano. Anche lui. Al pari di quel Benito Mussolini, prima suo maestro e poi suo complice, sino alla fine. L’Olocausto non ha inizio ad Auschwitz. E neppure con la famigerata conferenza del 20 gennaio 1942 nella zona di Wannsee (Il Lago dei Cigni), sede dell’Ufficio centrale della sicurezza del Reich, quando quattordici rappresentanti delle SS, della polizia, della Cancelleria, e di alcuni ministeri, si riunirono alla presenza di Reinhard Heydrich - capo della Geheime Staatpolizei (Gestapo), dell’‘Ufficio centrale di sicurezza, governatore della Boemia e Moravia – per mettere a punto la Endlosung der Judenfrage, la Soluzione finale della questione ebraica. E’ indubbio che allora furono messi a punto i modi e gli strumenti per rendere più rapido lo sterminio già in atto da anni in Germania, in Polonia, e,dal 1941, nelle regioni invase dell’Unione Sovietica. Gli undici milioni di ebrei che vivevano in Europa, secondo il piano del Fuhrer, dovevano essere eliminati. Ma la stessa parola “Endlosung” dice che non si trattava di varare un’operazione di nuovo conio, bensì di concludere qualcosa già in atto, da tempo.
Nella Germania che si preparava a diventare il Terzo Reich “millenario” la caccia agli ebrei era cominciata nel 1933, con l’avvento al potere, grazie a una massiccia vittoria elettorale, di Adolph Hitler: i primi lager, per ebrei e comunisti, la privazione dei diritti civili per i “juden”, le vessazioni di ogni tipo, le uccisioni apertamente consentite da una polizia e una giustizia asservite al regime, fino alla Kristallnacht, alla Notte dei Cristalli del 1938. Le date sono importanti, non solo per la cronologia. E’ nel 1938 che in Italia (o vogliamo dimenticarlo ?) vengono ufficialmente decretate, con firma presidenziale (Mussolini), e regale (Vittorio Emanuele III) le Leggi Razziali. Mai, nella sua storia, la nostra nazione era scesa così in basso. Apparentemente, a voler essere distratti, siamo ancora lontani da Auschwitz, e da ciò che questo luogo rappresenta, ma in realtà ci stiamo avvicinando al suo ingresso.
Nel novembre 1937, incontrando a Roma Ribbentrop, Benito Mussolini disse al ministro degli esteri tedesco, secondo quanto riporta Galeazzo Ciano nel suo diario:”Noi stiamo conducendo una campagna antisemita assai decisa e sempre più intensa guidata da un uomo abbastanza popolare in Italia, e che già ha in Roma due organi di stampa, “Il Tevere” e il “Quadrivio” e molti aderenti specialmente nel mondo universitario”. L’individuo “abbastanza popolare” era Telesio Interlandi, direttore dei due giornali citati, un accorto mestatore della carta stampata che aveva puntato sull’antisemitismo per mettersi in luce. Mussolini voleva preparare il terreno al razzismo di Stato con interventi apparentemente “spontanei” su una stampa in realtà priva della minima libertà, e infatti a Interlandi di accodarono “La Vita Italiana” di Giovanni Preziosi (un antisemita di vecchia data), “Il Regime Fascista” di Roberto Farinacei, e, in maniera più o meno virulenta, tutte le altre testate. Dopo l’annessione dell’Austria al Terzo Reich, Mussolini comincia a precisare le sue intenzioni. Il 10 luglio 1938, Ciano annota nel diario: “…il duce intende creare il campo di concentramento, con sistemi più duri del confino di polizia. Una prima avvisaglia del giro di vite sarà data dal falò degli scritti ebraici, massoneggianti, francofili. Scrittori e giornalisti ebrei saranno messi al bando di ogni attività”. Il 14 luglio veniva reso pubblico il Manifesto del razzismo italiano, che Mussolini aveva scritto quasi interamente, facendolo firmare da una decina di “studiosi” tra i quali spiccavano i nomi del professore e senatore Nicola Penda, direttore dell’Istituto di Patologia speciale medica della R. Università di Roma (l’anno seguente tentò di smentire la sua partecipazione, senza però insistere troppo), del professore Arturo Donaggio, direttore della Clinica neuropsichiatria della R. Università di Bologna, presidente della Società Italiana di Psichiatria, del professore Franco Savorgnan, ordinario di Demografia della R. Università di Roma, presidente dell’Istituto centrale di Statistica, del professore Sabato Visco, direttore dell’Istituto di Fisiologia generale della R. Università di Roma, direttore dell’Istituto nazionale di Biologia presso il Cnr, del professore Edoardo Zavattari, direttore dell’Istituto di Zoologia della R. Università di Roma. Di questo ignobile documento, infarcito di affermazioni aberranti e redatto con uno stile miserando, vale la pena di citare alcune “perle” che evidenziano da una parte il livello civile politico dell’uomo che per vent’anni dominò l’Italia, e dall’altra lo spessore morale e culturale dei cattedratici che le avallarono: “E’ tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo ispirata dal razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano-nordico”, “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati nel sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto… Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani”, “I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo. L’unione è ammissibile solo nell’ambito delle razze europee, nel qual caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono ad un corpo comune e differiscono solo per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri. Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani”.
Il documento “scientifico” doveva servire da apristrada alla campagna antisemita.Il 6 ottobre 1938 il Gran Consiglio del Fascismo emanava la Carta della Razza, e il 17 novembre, e il 18 novembre veniva registrato il R.d.l. n.1728 intitolato Provvedimenti per la difesa della razza italiana, firmato dal re Vittorio Emanuele, Mussolini, Ciano, Solmi, Di Revel, Lantini. Nel frattempo era giunta a Roma una commissione dell’ufficio politico razziale nazionalsocialista guidata da Walter Gross, e nel dicembre 1938 un analogo organismo italiano si recava a Berlino per incontrare Rudolf Hess, Heinrich Himmler, Alfred Rosemberg. Nell’agosto 1938 uscì il primo numero di “La Difesa della Razza” (direttore Telesio Interlandi, redattore capo Giorgio Almirante),una rivista indecente sul piano dei contenuti e dello stile. A questa seguirono il “Diritto Razzista” (direttore Stefano M.Cutelli), “Razza e Civiltà” (direttore il prefetto Antonio Le Pera), organo mensile del Consiglio superiore della Direzione generale per la demografia e la razza, “Augustea” (direttore Franco Ciarlantini), “La Stirpe” (direttore Edmondo Rossoni), e altre della medesima risma, senza dimenticare gli articoli di marca razzista periodicamente presenti su pubblicazioni di vario tipo, quali “Annali d’igiene”, “Assistenza sociale”, “Salute”, “Sapere”, “Panorama”.
Le discriminazioni decretate dai Provvedimenti furono biecamente crudeli, oscene, fuori di ogni forma di diritto (malgrado la firma del regale sovrano) e di ogni logica. La massa degli italiani accolse con stupore la campagna antisemita e la persecuzione di cittadini che non avevano commesso alcuna colpa, ma non reagì. Il regime aveva, con la sua proterva stupidità (Achille Starace docet), intorpidito le menti e le coscienze. Anche se persino tra i fascisti ci fu chi protestò. Dopo la riunione del Gran Consiglio del 6 ottobre, Ciano annotava nel suo diario: “Parlarono in favore degli ebrei Balbo, De Bono, Federzoni. Gli altri parlarono contro, soprattutto Bottai che mi sorprende per la sua intransigenza. Si oppone a qualsiasi attenuazione dei provvedimenti… Ho avuto un breve colloquio con Balbo. Acido e ostile in tutto. Parla male dei tedeschi, difende gli ebrei, attacca Storace, critica il voi e la questione del saluto romano”.
Gli ebrei italiani furono espulsi dall’insegnamento di ogni grado, docenti e studenti, dagli uffici pubblici, statali e parastatali, dalle Forze Armate, dall’esercizio delle libere professioni. Le misure coercitive e le vessazioni si moltiplicarono, sfidando la cosiddetta carità cristiana, e il ridicolo, fedele compagno delle imprese del fascismo. Librerie e biblioteche (nelle quali agli ebrei era vietato l’accesso) vennero “epurate” dei libri di autori israeliti. La mattina del 29 novembre 1938, l’editore Angelo Fortunato Formiggini, uno dei maggiori esponenti della cultura italiana (ineguagliabile la sua collana I Classici del Ridere), si uccise gettandosi dalla torre Ghirlandina di Modena, sua città natale. Ebreo, non praticante, aveva sposato una non ebrea, e la coppia aveva adottato un bambino orfano di genitori cattolici. Si era tolto la vita, come lasciò scritto alla moglie, per “dimostrare l’assurda malvagità dei provvedimenti razzisti”. Mussolini ordinò che i motivi del suicidio non apparissero sui giornali, ma la notizia - data all’estero dalla Bbc, dalla Nbc, e da altre emittenti – si diffuse, e suscitò molta emozione. Esemplare il commento di Storace: “E’ morto proprio come un ebreo. Si è buttato da una torre per risparmiare un colpo di pistola”. Formiggini concludeva la sua lettera scrivendo: “Le cose mie più care, cioè il mio lavoro, le mie creature concettuali… possono ancora riuscire di utilità e di decoro alla mia Patria”.
Con l’entrata in guerra di Mussolini al fianco – o, meglio, al seguito – del suo compare di Berlino, le misure antisemite si fecero ancora più dure. Per gli ebrei furono aperti dei campi di concentramento, i più validi (scelti richiamando 19 classi) vennero costretti ai lavori forzati, persino nel centro di Roma a spalare sabbia sulle rive del Tevere. Per arrivare ad Auschwitz restava solo un passo. Il duce di Salò quel passo lo farà dopo l’8 settembre 1943 scegliendo definitivamente la complicità piena e assoluta con i criminali nazisti, concludendo così nella tragedia dell’Olocausto (sugli 8286 ebrei italiani deportati, ne tornarono 606) un percorso iniziato nella vergogna di un’infame, aberrante persecuzione.
BOX
Palatucci, “Uomo Giusto”
Giovanni Palatucci, classe 1909, è stato un questore che, a somiglianza di un altro personaggio di spicco, Perlasca, ha contribuito in modo notevole, durante gli anni dell’ultima guerra, a salvare moltissimi ebrei nella zona di Fiume, dove era reggente di quella questura.
Nel 1937, appunto, fu trasferito nella città istriana dove diresse l’Ufficio Stranieri che, poi, avrebbe dovuto applicare le famose leggi razziali contro i “non ariani”.
In questa sua veste aiutò moltissimi ebrei a sfuggire alle camere a gas; dopo l’8 settembre Fiume fu occupata dai tedeschi: Palatucci avrebbe potuto mettersi in salvo, ma preferì restare ed aiutare ancora i perseguitati.
Il 13 settembre 1944, probabilmente tradito, viene arrestato dalla Gestapo con l’accusa di “intelligenza con il servizio nemico”.
Fu condannato a morte ma la pena venne commutata nella deportazione a Dachau, dove morì, a 36 anni, il 10 febbraio 1945.
Oltre al riconoscimento delle autorità israeliane, che lo hanno definito “giusto fra le nazioni”, nel 1955 fu insignito di medaglia d’oro al valore civile, alla memoria.
La forza morale del suo esempio va al di là della contingenza storica, diventando testimonianza sociale e morale a prezzo della vita, contro ogni persecuzione e violenza razzista.
La figura di Giovanni Palatucci è all’attenzione della Chiesa per il processo di beatificazione.
Questo volume che narra le vicende eroiche di Palatucci è stato curato dal giornalista Annibale Paloscia, dallo storico Marco Coslovich e dal dirigente della Polizia di Stato Ennio Di Francesco.
Edizione fuori commercio. Per acquisti rivolgersi a: Ennio Di Francesco presso UNMS Via Savoia, 84 - 00198 Roma - Tel. 06.85300526
A. Paloscia - M. Coslovich - E. Di Francesco
PER NON DIMENTICARE GIOVANNI PALATUCCI UN UOMO GIUSTO
pagg. 63 - s. i. p.
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